la musica delle stagioni, autunno 2024

Con il solfrizzio invernale termina l’autunno e con esso casca la mia compila autunnale, ventottesima stagione musicale. Cinque ore e briciole che si aprono con Paul Heaton, concerto fissato e mancato a dicembre per impegni, aveva senso oltre tutto anche per I smell winter, e si conclude con quel matto di Jack Bruce, da solo.

Cinque ore è il tempo minimo che avrebbero i miei discorsi se fossi il presidente rivoluzionario di uno Stato dell’America latina ma visto che così non è, potrebbe essere il tempo necessario per ascoltare musica durante una qualsiasi breve tratta locale in treno di questi tempi salviniani nei trasporti.

Più classiconi del solito, almeno per i nomi degli autori, c’è scappata anche una canzone semiseria prenatalizia, complessivamente si fa ascoltare. Da me, almeno, con le compile è un po’ così: piacciono a chi le fa. Il segreto del successo è farle brevi, quindici pezzi, e di gran classici intramontabili, facendo quindi leva sulla pigrizia di chi non se la fa da solo o stenta a cercare e aggiungere alla coda. Tutto il contrario, dunque, di quel che faccio io. Orgogliosamente, aggiungerei, non cercando mai alcun riscontro. Quindi, chi gli va se la piglia, chi no no.

Le compile vere e proprie: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore) | estate 2022 (42 brani, 2,33 ore) | autunno 2022 (71 brani, 4,5 ore) | inverno 2022 (70 brani, 4,14 ore) | primavera 2023 (74 brani, 4,23 ore) | estate 2023 (53 brani, 3,31 ore) | autunno 2023 (92 brani, 6,9 ore) | inverno 2023 (76 brani, 4,5 ore) | primavera 2024 (59 brani, 3,4 ore) | estate 2024 (56 brani, 3,1 ore) | autunno 2024 (78 brani, 5 ore) |

Compila dell’inverno in rampa di lancio, anche se in ritardo, recupererà lei e io con essa.

fasci ad Acca Larentia e la domanda per l’assunzione al governo italiano

Milletrecento fasci ad Acca Larentia a Roma, braccia tese, bandiere, commemorazioni e inni schifosi, un passante si avvicina e grida: «Viva la Costituzione italiana, viva la Resistenza. Merde!» e ora la domanda per il concorso: sapendo che la Digos su milletrecentoeuno persone si è presa la briga di identificarne soltanto una, chi tra esse potrà mai essere? Esatto, bravo, il posto è suo.

minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: dieci, tutto ultimo

3.738 chilometri, più o meno tutti su gomma, 51°43’39” di latitudine sud, arrivo a Puerto Natales, l’ultima tappa del mio viaggio patagonico. La provincia è Última Esperanza, il che la dice molto lunga. D’ora in poi saranno altri chilometri ma sostanzialmente ritorno. Prima di tutto una bella immagine del Cerro Torre, mancato qualche giorno fa e ripreso alla lontana. È estate, il cappellone di ghiaccio è minore e comunque vale anch’esso come montagna, checché ne dicesse Maestri. Una volta, credo fosse Salvaterra, una cordata restò in parete ventinove giorni di fila.

Ma adesso è Paine, quello conta. Il gruppone risplende al sole, con le incredibili inserzioni di granito sotto la roccia magmatica nera, poi il tutto lavorato dal ghiaccio. Magnifico. Scoccia un po’ che il ghiacciaio più in alto sia intitolato ai franzosi, questo sì un po’ dà fastidio. Sotto di esso, laghi clamorosi dello stesso colore del cielo che viene proprio voglia di andar dentro, non fossero di ghiacciaio.

Cartoline irreali. Resto tutto il giorno a girarci attorno, per vedere i colori delle torri al tramonto, al tramonto più cinque minuti, al tramonto più dieci. C’è luce anche di notte, sarà che dura poco. Cammino anche di notte in giro poi mi viene un pensiero e torno abbastanza rapidamente in camera. Il pensiero, giustificato o meno che sia, è: puma. Mmm, ho visto le mie gambe stenche sparire dentro la grotta, il suono degli ossicini. Che non è che lo senti arrivare, lui è già lì che ti guarda. E tu, io, gnente. Poi è un pensiero che resta, anche se non mi pare esistano statistiche di morti per puma e nemmeno notizie recenti, solo un caso, forse, nemmeno certo. Secondo i locali, basta fare un po’ casino, mah, va’ a sapere. Ricordo il buffo incipit di Bill Bryson in A Walk in the Woods: Rediscovering America on the Appalachian Trail (Una passeggiata nei boschi) in cui diceva di aver letto tutto sulle aggressioni degli orsi e i relativi consigli – scappare, stare fermi, fare casino, agitarsi, stare immobili eccetera – e dava il seguente consiglio: sentitevi liberi di fare quel che volete. Sensato, tanto decide lui, lo faccio mio in caso di puma, armadillo, guanaco, vipera del Paine, gaucho emigrato da Varese.
Dal Paine piglio la Ruta del fin del mundo e giù a Puerto Natales, una cittadella su un enorme fiordo con montagne a far da corona e ghiacciai che piombano nell’acqua del Pacifico, assurdo geografico per un europeo come me, montagna freddo mare caldo. Poco fuori dal paesello c’è la grotta del milodonte, la conclusione del libro di Chatwin, la descrive esattamente come l’ho vista io: «L’interno era asciutto come il deserto, irto, in alto, di bianche stalattiti e con le pareti luccicanti per le incrostazioni saline. Lingue di animali avevano levigato, a furia di leccarla, la parete di fondo. Il muro diritto di sassi che divideva in due la caverna era crollato a causa di una fenditura nella volta», preciso. Dal molo in paese vedo una foca che nuota sotto di me, prendo un caffè in un posto che potrei essere nel bar di Holling in Un medico tra gli orsi, (Northern Exposure, NX), mi torna in mente di continuo da queste parti, così somiglianti all’Alaska.

Mi viene un po’ d’ansia all’idea del rientro. Ho alcune scadenze familiari che mi inquietano, preferirei saltare al dopo, persino il dentista mi pare prospettiva più desiderabile da questa spiaggia sul mare gelato. Baudelaire parlava de: «la grande malattia: l’orrore della propria casa» e non è che io sia malato di questo ma lo capisco bene, se con «casa» intendo la vita quotidiana fatta di ripetizioni, incombenze e stupidaggini allora sì, sono decisamente malato. Anche l’aria pulita mi piace, dormo e respiro bene come da molto non accadeva, non è solo la vacanza, è proprio un fatto di mucose irritate, roba da essere deficienti a tagliare il ramo su cui si vive, facendo finta di nulla. Vedo un nandù con i piccoli, ne ho visti parecchi, mi viene in mente una notizia buffa, qualche tempo fa ne fuggirono tre coppie da un allevamento vicino a Lubecca e poi proliferarono nelle piane sabbiose del Mecleburgo, distruggendo i raccolti degli spazientiti tedeschi, li vedo scuotere i capoccioni. Ma che vuoi che si fermi, un nandù patagonico, di fronte al lattughino, al cavolo verza?

«Nel British Club di Río Gallegos le pareti erano tinteggiate in bianco-crema e non si parlava una parola d’inglese», sempre Chatwin, e scopro di esserci stato la sera di capodanno, alla ricerca di un riparo dopo la catastrofe temporalesca che mi ha fatto deviare da El Chaltein. Ho festeggiato con una cinquantina di argentini vestiti bene e per nulla bene tra i documenti originali appesi ai muri, persino una lettera di Butch Cassidy che continua a seguirmi precedendomi. A Río Gallegos non c’era un fico secco da fare o vedere, «Attraversai tre città senza interesse, San Julián, Santa Cruz e Río Gallegos», sempre Chatwin, non io. Era la città di Kirchner, lui, non lei, e interpretando l’Argentina come un potentato di mille famiglie che dominano tutto, dalla terra all’energia elettrica ai ponti ai trasporti, qualcosa in più si capisce. La stessa ereditarietà della carica presidenziale di marito in moglie, da Perón in giù, è un indizio non da poco, il progetto dell’enorme diga di acqua dolce al lago Argentino assume tutt’altra luce se si è a conoscenza della proprietà delle sommergende terre, Cristina Kirchner appunto. E dei colleghi che gestiscono l’energia elettrica, produzione e diffusione. Ecco perché, banalmente, a fronte di così tante risorse il paese non decolla e la maggior parte della popolazione stenta, i novecentomila ettari di terra in possesso dei Benetton spiegano qualcosa, ma a pensare alla sola lana si sbaglierebbe: lo sfruttamento delle terre della Compagnia delle Terre del Sud Argentino si è unita allo sfruttamento minerario di giacimenti situati nella provincia di San Juan, attraverso Min Sud (Minera Sud Argentina S.A.) che ha sede centrale in Canada. Dal 2011 gli stranieri possono possedere solo fino a mille ettari ma la cosa non è retroattiva ed è, inoltre, derogabile per specifici interessi del governo, appunto amici di famiglia.

Mi godo la vista dall’ultima finestra dell’ultima camera dell’ultima cittadina patagonica, provincia ancora di Última Esperanza, tutto è ultimo. Potenza dell’immigrazione italiana, e non l’ho detto finora, si trova quasi sempre il bidet. Oh, calma, nelle stanze d’albergo, nelle stazioni di servizio e nei bar è già molto trovare un bagno ma, quando si trova, è un accessorio che fa sentire a casa. I bidet argentini hanno una cosa in più, un buffo spruzzino a metà che, se non si è pronti, spara un getto verticale notevole. Certamente utile, certamente fonte di divertimento per molti.
Concludo su un bidet? Eh, più o meno. Dai, una nota più gradevole, risalgo a Buenos Aires per tornare, una bella serata a Puerto Madero, zona chic del porto recuperato per l’ultima ultima ultrabistecca, una corsa mattutina al pelo per vedere la Grand Splendid, una meravigliosa libreria aperta in un teatro, il palco è il bar. Dove savasansdir si può stare al tavolo ore prendendo un solo caffè o pure niente, sfogliando un libro. L’avevo segnata sulla mia mappetta delle cose da vedere nel mondo.

Ma il tempo è proprio quello che io non ho più, cinque minuti e una gran corsa in aeroporto. Che assurdità, percorrere quattromila chilometri di rute patagoniche e australi, viaggiare per ore nel nulla, contemplare cime granitiche inviolate e adesso devo andare di corsa perché non ho più tempo. Non i soldi, non l’amore, non il cielo, il fulcro è il tempo. Che poi, come diceva mio padre, nemmeno esiste il tempo, le equazioni della fisica fondamentale ne fanno sempre più a meno, appena lo si nomina è andato, diciamo che sia una nostra fantasia, ‘sto tempo. Ecco, questa fantasia a me adesso svanisce, ho un orario, un posto dove essere, un biglietto per il controllo, che fantasie vuoi avere? Quelle che mi costruirò, a partire da domani, mi sa che qui ci tornerò.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: nove, altri ghiacciai, per strada di nuovo, frontiere, valigie, panorami

Torna il sole a El Calafate e, quindi, anche su di me. Giornata buona, dunque, per andare a navigare sul lago Argentino, a pigliare l’aria buona. El Calafate è un luogo molto turistico, vista la vicinanza del Perito Moreno, trovare qualcuno per organizzare il giretto è molto facile, basta camminare per Avenida del Libertador e scegliere l’offerta più conveniente, tra pullmino e traghetto. Io scelgo quella completa perché son goloso. Solita levataccia e via, giornata gloriosa per sole e luce.

Se il ghiacciaio Upsala è enorme, una lunghissima lingua di ghiaccio che si immerge nel lago dolcemente, lo Spegazzini è invece prorompente, con un fronte molto largo e alto quaranta piani entra nel lago di prepotenza.

A differenza del Perito Moreno, però, si muove come i ghiacciai che conosco, lento e silenzioso. Ogni tanto ne crolla un pezzo, perché l’acqua è più calda del ghiaccio, ma non tuona e non avanza incessante come il Perito. Con la barca andiamo sotto sotto e la barca per sua natura costringe al contatto stretto con le altre persone. Che, se sono turisti, diventa per me più difficoltoso. E ora, per la serie-verità Instagram vs. Reality, un momento di racconto veritiero, a differenza di tutto quanto scritto finora:

Non sono riuscito a essere in barca da solo, il ritorno alla folla è stato d’un certo impatto, se di folla si può parlare. Nulla a confronto dello svincolo di Cormano in direzione Rho-Pero, ne ho ricordo, sarò là mercoledì. Non ora, però. Ora fuggo via dalla folla e ripiego verso sud da El Calafate verso Esperanza, per poi riprendere la ruta 40 e scavallare al passo Paso Río Don Guillermo di nuovo in Cile.

Questa frontiera è più tosta, a parte il vento costante: i frontalieri argentini, nonostante si esca, segnano ogni mancanza del pullmino; i frontalieri cileni impongono una lunga coda per i documenti e poi ispezionano i bagagli prima con un cane che non ha voglia e poi a occhio. Sono riuscito a fare una foto:

Frutta, verdura, prosciutti, come l’altra volta sono alla ricerca di alimenti. Va’ a sapere. Ci vuole un po’. Il paesaggio è incantevole, sembra la val Badia senza case e presenza umana, cadauno testimonianza:

Il piano a questo punto è andare verso ovest a vedere il Paine, con le sue torri, il Cerro Paine Grande, il ghiacciaio Gray, quello dei francesi e tutto il parco appunto del Paine. Ovvero, un massiccione di pietra vulcanica e granito con tre torri di granito paragonabili ai campanili delle Dolomiti o al Torre. Nero, grigio, ovviamente bianco e chiaro di granito, si erge imponente dall’orizzonte ed è circondato da decine di laghi comunicanti.

Per quel che resta di oggi e domani voglio camminarci un po’ attorno, tutto il parco è incantevole, persino troppo: ghiacciai, cime di granito, prati, fiumi, fiori, boschi, lagune, laghi, ruscelli, cascate, non è un po’ troppo?


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: otto, visto!

Gira e rigira, circumnaviga e rompi i maroni, riesco ad arrivare alla piana dei laghi Argentino e Viedma, alla base della cordigliera, e seppur da lontano riesco a vedere Fitz Roy e Cerro Torre, rispettivamente a destra e a sinistra qui sotto:

Sebbene sembrino vicine, sono a trenta chilometri l’una dall’altra. Il Cerro Torre fu teatro tra l’altro di una delle più grosse stronzate dell’alpinismo, la via del compressore nel 1970. Storia lunga. Fitz Roy, invece, era il comandante del Beagle durante il primo viaggio di Darwin, passarono molto tempo in Patagonia prima di passare lo stretto di Magellano e andare nel Pacifico. La direzione è El Calafate, perché anche lì ci sono molte cose da vedere, ci si può arrivare. La piana che sottende la cordigliera e i laghi è clamorosa, enorme, primordiale.

I massi erratici raccontano i ghiacciai di una volta, che arrivavano fino all’oceano. Un progetto di una diga vorrebbe raccogliere le acque dolci provenienti dal Campo de Hielo Patagónico, non si sa quanto consapevolmente rispetto agli effetti sull’ecosistema. Di consapevole c’è certamente che le terre che verrebbero occupate appartengono a Cristina Kirchner. Nella cui fattoria un giorno i magistrati scavarono molte buche cercando soldi ma senza trovarli. Farà attenzione prima di inondarli. Verso ovest, sulla cordigliera, si apre il parco de Los Glaciares, circa ventimila chilometri quadri di ghiaccio che scendono più o meno variamente a valle. Il più famoso di essi è senz’altro il Perito Moreno.

Posto una fotografia anche se è contrario alle mie linee di condotta del minidiario, prima di tutto perché non rende giustizia allo spettacolo. È certamente il più noto perché termina nel lago e ha uno straordinario ritmo di avanzata di circa un metro al giorno, il che implica che continuamente ceda di schianto e con rombi mai sentiti crolli a pezzi alti venti piani nell’acqua. Intendiamoci: è uno spettacolo straordinario che, da solo, vale il viaggio. Però, però, io ho alcuni però. Ne dirò tre: la sottile malinconia che mi prende a vedere un colosso del genere recedere per volume, conoscendone il destino; la presenza sostanziosa di turisti; il fatto che è il luogo che conoscevo di più della Patagonia, minore sorpresa. Mi rendo conto che, così, però, io non stia rendendo giustizia a una delle più sensazionali manifestazioni della natura sulla terra. Che, peraltro, il me di dieci anni sognava ardentemente di vedere, che tradimento. Ritiro, me le tengo per me.

Francisco Moreno, il Perito, fu il tecnico di parte argentina incaricato di definire i confini con il Cile lungo la cordigliera. Siccome i fiumi di quest’area orografica nascono a est della cordigliera e sfociano a ovest nel Pacifico, i cileni sostennero il principio dei confini lungo i fiumi. Il saggio Moreno, invece, sostenne la linea del confine lungo i profili dei Cerri, delle montagne, e per farlo deviò un fiume verso l’Atlantico, per mostrare quanto labile sia il principio. E la vinse, sebbene molte zone, intendo davvero molte, siano ancora disputate tra i due paesi. E Moreno, divenuto il Perito di nome proprio per valenza, divenne eroe argentino, cui furono dedicati parchi nazionali, vie, piazze e, appunto, il ghiacciaio più famoso di tutti.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: sette, capodanno a Rio

Volevi l’avventura? Servita. Ha piovuto tutta la notte e piove ora, la sveglia è improvvisa verso le cinque e mezza, bisogna uscire dalla valle. Ora o non si esce. Avvertiamo la polizia che ci muoviamo per tornare alla ruta 40, perché è asfaltata, chi ha il 4×4 si è già mosso, noi col pullmino ci dobbiamo muovere in fretta, dobbiamo fare i settanta chilometri di sterrato. Alla prima salita media le ruote slittano, scende acqua dappertutto a lato e nei solchi di chi è passato prima. Un metro avanti e due indietro, non bene. Ci spostiamo tutti in fondo al pullmino, sulle due ruote motrici, e cominciamo a saltare, cercando di farlo tutti insieme. L’autista prova e riprova, avanziamo un poco e poi no, tocca lasciarlo andare indietro fino a un pezzetto più solido, perdiamo terreno invece che guadagnarne. Dieci, quindici, venti tentativi, niente. La prospettiva di restare bloccati qui non alletta nessuno. Qualcuno propone di tornare indietro, non se ne parla, significherebbe probabilmente restare bloccati nella valle per parecchi giorni. L’autista non parla più, prima retro prima retro, il motore si scalda e chissà la frizione. Spingere? Inutile. Troppo fango, troppa acqua. E qui imparo una cosa sulla Patagonia e, in generale, sulle terre estreme: la perseveranza. Un pezzettino alla volta. Il problema non è impantanarsi, quello accade di sicuro, il problema è uscirne. Dai e dai, e io avrei mollato il colpo da parecchio, a forza di avanti e indietro e di salti sull’asse posteriore, ce la facciamo. Venti minuti per trenta metri. Ed è il quinto chilometro di settanta, andiamo bene. L’unica a questo punto è andare un po’ più veloci, prendere fango e acqua con un po’ di velocità. Il pullmino scoda di continuo, meglio usare los cinturones, ogni poco ci sono pozze che sembra di essere in motoscafo, sperando di non aspirare acqua col motore. A fianco della strada scendono fiumi. Una volta ogni cento anni così, dice qualche patagonico, bene. Adesso capisco anche perché le strade, anche se sterrate, sono rialzate su qualche piccola massicciata. Che è comunque di terra, quindi si sgretola sotto la pressione dell’acqua, mancano interi pezzi di strada. La preoccupazione è di trovarla interrotta, a questo punto. In alcuni punti saremo gli ultimi a passare per un bel po’. Ogni tanto tocca fermarsi in un tratto sicuro per fare raffreddare il motore, ben sapendo che più passa il tempo e peggio sarà. Le cime tutte attorno sono innevate, sta nevicando ora e grandinando su di noi. Una ventina di ruscelli attraversati, parecchie salite col fiato sospeso, qualche tornante preso con troppo brio e finalmente, finalmente arriviamo all’asfalto. Settanta chilometri in quasi tre ore. Tiriamo tutti più di un respiro di sollievo, riparte la radio e cantano Los palmeras, quel fantastico contrasto latino per cui si viaggia sull’orlo di uno strapiombo con la musica alegría, si accennano persino dei balli. Mentirosaaaa, mentirosamentirosaaaa. Torniamo a Bajo Caracoles, al baretto di ieri, ed è ovviamente pieno zeppo, tutti quelli che si sono mossi sono approdati qui.

È il principio del rifugio in montagna, appunto rifugio. Dentro tutti, caffè brodoso, uova, scatole di fagioli, lunga coda per il bagno. Sarò deficiente, probabile, ma a me queste situazioni mettono allegria, il disguido mi accende. Le finestre grondano acqua fuori e condensa dentro, si chiacchiera con tutti, ci si confronta scambiandosi le informazioni disponibili, c’è anche una flebile rete. Avvisiamo la polizia che siamo arrivati all’asfalto. E qui la notizia: la ruta 40 è stata chiusa poco più avanti per centinaia di chilometri, l’allerta meteo è rossa per tre giorni. Niente El Chaltein, non ci si arriva, e la delusione è fortissima in tutti. Perché El Chaltein vuol dire Fitz Roy e Cerro Torre, gira e rigira al fondo il motivo per cui molti di noi sono qui. E qui imparo un’altra cosa sulla Patagonia e, in generale, sulle terre estreme: certe cose non le puoi fare se non ci sono le condizioni. Ed è ora che comprendo appieno la frustrazione degli scalatori che passavano mesi e mesi alla base del Cerro Torre tentando decine di volte la salita senza mai trovare uno spiraglio per arrivare in cima. E la lezione è che è inutile essere frustrati, è per fortuna ancora una cosa che non governiamo, che ci sovrasta, che ci impedisce, non siamo più abituati. Non sarebbe la fine del nostro mondo, questa, se le cose fossero addomesticate. Non si può, punto. Non è nemmeno questione di pericolo, non c’è proprio più la strada. Non si può. L’unica è allungare verso la ruta 3, che segue la costa, facendo un lungo giro sull’asfalto, e scendere più giù, a Calafate. Ma come non hai visto il Cerro Torre? Eh no, non l’ho visto. Impossibile farlo. Se il mio fosse un viaggio vero, vero fino in fondo, mi fermerei qui aspettando il sole per andare quando possibile ma il mio viaggio ha delle date rigide, un ritorno fissato, non è un viaggio vero fino in fondo. Va bene così, imparare a gestire la frustrazione e la delusione avvicina a comprendere la natura preponderante, leopardianamente indifferente, lo spazio e gli eventi atmosferici di una terra estrema. Imparo il principio che è meglio non vedere alcune cose, magari anche le più belle, che rimanere bloccati. Che a dirla così sembra banale ma non lo è. E imparo anche la tecnica per fare la pipì col vento patagonico, appoggiandosi con la spalla al fondo del pullmino, ovviamente in favore di vento, serve dirlo? Anche l’asfalto è tutto a buchi, la terra sotto scappa via, ce ne sono di enormi ma, perlomeno, non si resta impantanati. Si guida con attenzione, magari facendo carovana se c’è qualche altro mezzo, alternandosi e segnalando i rallentamenti con le quattro frecce.

Tra qualche ora non ci sarà più la strada, la terra sotto sta già andando via. Dei quaranta millimetri annuali di pioggia normali per la Patagonia ne sono caduti il doppio in ventiquattro ore. Ma noi abbiamo la musica, qualcuno un pacchettone di m&m’s e anche senza agua caliente per il mate procediamo contenti dell’asfalto. Attorno non si vede più nulla, né cime né sfondo, è come essere nel famoso bicchiere di anice di Paolo Conte. Il vento sposta il pullmino, a tratti piove dentro, almeno il motore non si scalda. A tratti la strada è sommersa, non tutti si divertono come me, devo capirlo. Intere aree sono allagate, scendono torrenti dalle pareti rocciose trascinando fango e pietre, passano un paio di autoarticolati cileni, nessun altro. A sinistra scorgiamo un piccolo lago nuovo, non esisteva dice l’autista e sulla mappa non c’è, il pullmino si anima in diverse lingue a trovare un nome per battezzarlo, vince Los perdidos alla fine. Andiamo verso est, verso la ruta 3, dovrebbe migliorare.

Raggiungiamo una stazione di servizio, anche qui si sono riunite tutte le persone del circondario. Scopriamo di avere una gomma buca, per fortuna dietro sono a coppie. Diluvia forte. Fortuna c’è un gommista, anche se è chiuso. Attendiamo nella stazione, c’è un gruppo di quattro giovani uomini a piedi nudi e con una tanica di benzina, fanno un po’ ridere mentre l’acqua penetra nella stazione. Israeliani in giro, alcune cose si spiegano. È l’ultimo dell’anno, così come il natale l’ho passato in una stazione di servizio a Paso de Indios, oggi potrei concludere l’anno qui, chissà. Il mio amico E. qualche giorno fa mi ha mandato un suo disegno, grazie!, ma allora erano i giorni delle foto con il cielo blu, dubito valga ancora oggi:

Un pezzo lungo della provinciale 39, poi la 288 fino a Comandante Luis Piedrabuena, che è il nome del paese in cui ci immettiamo nella ruta 3, dopo un bel giro dell’oca. Non ha mai smesso di piovere, sulla costa si intravede un cielo migliore. A ogni stazione di servizio ci si scambiano informazioni, da dove vieni, dove andate, com’è la strada? Si passa? Dopo un giro non breve ma lungo e totalmente inaspettato, per circumnavigare la zona devastata, arrivo a Rio Gallegos, vera Patagonia profonda. Sia perché da qui posso poi riprendere il giro che volevo dalla tappa successiva, sia perché così posso, finalmente, passare un capodanno a Rio. Peppepereppeppè, sciarlibraunn.

Inutile fare programmi, a questo punto, sia perché conosceremo la reale situazione soltanto domani sia perché comunque l’unica possibilità da adesso in poi sarà decidere momento per momento, a seconda delle condizioni. Spero di riuscire a vedere le altre cose che avevo in mente ma, se così non sarà, vedrò altro o, anche, il non riuscire a vedere ciò che mi ero prefisso sarà parte del viaggio in Patagonia, e non secondaria. Auguri, che sia un anno in movimento.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: sei, vecchie foto, stazioni di sosta, mani, grotte altrui, agnelli e belve

In una specie di bar vedo una fotografia. La didascalia dice: il fotografo Standhardt, il colono Andreas Madsen, i restanti sono escaladores, lago Viedma. È il 1959, probabilmente, e los escaladores immagino siano Maestri, Egger e Fava, al tempo del primo discusso tentativo al cerro Torre. A due di loro sono oggi dedicati un cerro e una torre, la salita più difficile di tutte.

Lungo la ruta 40, piccole casette al limite della baracca garantiscono la sopravvivenza lungo la strada, dal rasoio alla marmellata al paio di scarpe. Serve un tagliere con la faccia di Messi o un coltello appena appena sotto il machete? I soliti adesivi delle spedizioni ricordano gruppi di ogni nazionalità che con ogni mezzo sono venuti a vedere la fine del mondo. La più bella finora a Bajo Caracoles.

In questa fine del mondo, cui comunque manca ancora parecchio, l’umanità si è impegnata a sopravvivere fin dall’inizio. Una delle testimonianze più commoventi della volontà umana di lasciare un segno, di mostrare ai posteri una traccia di sé, sono las manos dipinte.

Fin dal novemilacinquecento avanti cristo le popolazioni indie locali Tehuelce dipinsero le tracce delle proprie mani sulle pareti rocciose protette da sole e acqua, usando cannucce per spruzzare la vernice attorno alle mani appoggiate. Ce ne sono di grandi, di piccine, con sei dita, pitturate con il gesso, bianche, con l’ossido di rame, verdi, di ferro, rosse, nere. Per migliaia di anni, una a fianco dell’altra, migliorando la tecnica con il tempo, fino a millecinquecento anni fa. Qualche guanaco, scene di caccia, lucertole, luna e sole accompagnano le mani. Emozionante e commovente insieme, quante vite, desideri, aspirazioni, rimpianti.

I canyons sono strepitosi e non hanno nulla da invidiare alla mesa centro e nordamericana. Un fiume sul fondo crea una strada verde, motivo della presenza qui delle popolazioni indie. A girare un po’, le mani sono dappertutto, bisognava muoversi e cacciare. E sfuggire al puma, tra l’altro.

In lontananza, le cime del San Lorenzo, quelle più alte della Patagonia, se non ci sono nuvole si vedono da ogni luogo. L’autista prima mette Mercedes Sosa, poi si rompe le balle e sentiamo Vasco Rossi.

Dalla Cueva de las manos scendo a Bajo Caracoles lungo la ruta 40 e poi la provinciale 39 fino a Hipólito Yrigoyen, nella provincia di Santa Cruz. È un villaggio non tanto ridente, ora noto come il lago che ha vicino, il lago Posadas. Un po’ per vedere il lago e un po’ perché da qualche parte bisogna pur dormire. Faccio un giro per il paese, un posto di polizia, un bar che fa empanadas, un paio di hoteles, per i turisti lacustri, è un reticolo di cinque strade sterrate per altre cinque altrettanto sterrate, ortogonali. In venti minuti le giro tutte, sistematico, con la solita sottile tensione per i cani randagi. A in certo punto ne esce uno di corsa verso di me abbaiando e mostrando i denti, mi irrigidisco non poco, per fortuna si intraversa, si ferma e poi va via. Qui tutti fanno spallucce sulla faccenda dei cani, noi europei facciamo fatica a gestire la cosa. Il tempo peggiora, comincia a piovigginare. Il lago Posadas è separato da un altro lago da una sottile striscia di terra, di là c’è il lago Cochrane, parte cilena, e lago Pueyrredón lato argentino. Questo è poco profondo, quindi azzurro, quello molto, blu blu blu. Un bel colpo d’occhio.

In fondo al lago una hacienda prepara l’agnello in croce, si capisce perché.

Per smaltire la sbornia d’agnello, devo camminare. Julian mi porta per le colline, senza sentiero tra i cespugli, fino alle pareti rocciose sulle quali non è difficile scorgere altre mani dipinte. Poi arriviamo a una specie di lago fatto di gesso sul quale con acuto istinto d’osservazione scorgo delle tracce.

Può essere una cosa sola: puma. Molto bene. Qualcuno dice per certo che siano vecchie, qualcuno dice che facendo rumore la bestia si allontana, qualcuno dice che così qualcuno cosà, stare fermi, saltare, secondo me vale il principio dell’orso: sentiamoci liberi di fare quel che ci va, tanto decide lui. E per non farci mancare nulla saliamo alla cueva del puma, toponimo che chissà perché, dentro ci sono ordinate delle ossa, costole e colonne vertebrali, dall’altra parte feci. Preciso, il puma. Poi, altre mani di chissà quando. Il tempo varia, sul lago piove, si vede. Da ore il telefono non prende, il meteo tocca farselo da soli. In peggioramento.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: cinque, cattedrali di roccia, meccaniche moderne, ciliegie e stelle

A Puerto rio Tranquilo osservo il lago general Carrera, piatto, blu, glaciale. Qui una volta era tutto ghiacciaio, ragazzo, tutto ghiacciaio. Si distinguono le cime sotto il livello del ghiaccio, ventimila anni fa, da quelle che emergevano: tonde le prime, aguzze le seconde. Il villaggio è piccolo e campa sui giri sul e attorno al lago, ne approfitto per salire in barca e andare a vedere la Capilla de Mármol, un parco naturale in cui le acque del lago hanno corroso e scavato le formazioni di carbonato di calcio formando monumenti quali la Catedral, le Capillas e le Cavernas.

Che soddisfazione. Ne è valsa la pena, anche qui, le centinaia di chilometri di sterrato sfasciaculo sono un ricordo. E la salsiccia alla brace e birrona subito dopo rendono il momento perfetto.

Eccedo nelle foto. Nessun filtro, nessuna correzione, è proprio così questo mondo di sotto, è saturato di suo, i colori abbacinanti, la natura sfrontata. Se ne esce ebbri. Sarà dura tornare alle cose quotidiane, stare in casa, guardare fuori le macchine che passano, prendere un treno locale pieno.

Sono cotto dal sole, a gennaio al lavoro faticherò a giustificarmi senza essere mandato a quel paese. Mi prende quella voglia di sterrato, di nuovo, quel desiderio di strada per cui mi rimetto in moto: proseguo per Puerto Guadal, circumnavigando il lago, poi Chile Chico, tutto sterrato e a volte a strapiombo, qualche carcassa di auto. Come diceva il mio amico slavo una volta: non ti preoccupare, cosa vuoi che sia? Al massimo muori. Infatti, che vuoi che sia? Sono parecchie ore di battimento di denti, di culo, di trippe, di viti svitate e di foto storte e tremolanti. A metà di una salita il cruscotto del pullmino dà di matto, si accende tutto, si spegne, si riaccende e nel frattempo né servosterzo né, più importante, servofreno funzionano più. Cominciamo a scivolare all’indietro, non tanto festosamente. Viva il freno a mano meccanico. Alè, tutti giù di nuovo, cofano aperto e pantaloni stile idraulico. Stavolta la diagnosi è facile e la soluzione anche: il cavo della terra si è staccato dal dado della carrozzeria e fa contatto. Soluzione? Basta toglierlo. Quanti pezzi inutili nella meccanica contemporanea.

Dimenticavo di dire che su tutti i mezzi sui quali sono salito finora quasi tutte le spie dei cruscotti erano accese costantemente, comprese quelle che qualche preoccupazione a me la darebbero, tipo la gialla del motore. Ma così non è, che vuoi che servano le spie? In effetti mi fa abbastanza ridere vedere gli autisti che sereni guidano con tutte le spie accese e Enrique Iglesias a manetta alla radio. Vedi a prendere la vita in un modo diverso?

Valico il confine, di nuovo, e torno in Argentina, a Los Antiguos, la capitale internazionale della ciliegia, ancora sul lago. Quelle ciliegie natalizie gigantesche che arrivano da noi a quarantacinque euro al chilo, ecco, vengono da qui. E siccome ci sono molti alberi liberi ne mangio davvero parecchie. Come resistere, proverbialmente?

Il lago e il cielo hanno lo stesso colore, per tutte le rive che riesco a scorgere non c’è nulla, più tardi ne avrò conferma guardando le stelle, non c’è una luce. Si vede la via lattea in modo impressionante, Sirio brilla evidente. Che culo che hanno certi io.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: quattro, il più avanti, il sospeso, il di qua e il di là, tutto si smonta

Julian mi dice che ci troviamo nel giardino del mondo. Non ci sarebbe nulla di esagerato nel dirlo, valli e montagne e fiumi meravigliosi si succedono di continuo e mi ripetono ogni volta che non ho ancora visto niente. C’è sempre di molto meglio più avanti.

Rileggo i racconti di Sepulveda, racconta di posti in cui sono appena stato, sono o andrò a breve. Ma è il clima generale, i paesaggi, l’aria che respiro leggendo. Leggo Coloane, l’avevo da parte da trent’anni, è venuta l’ora. E Saint-Exupéry, il suo bellissimo Volo di notte, venne a consegnare la posta da queste parti. Tra tutti, il campionato patagonico di bugie dà perfettamente l’idea di un ambiente. Lungo la Carretera austral e la ruta 40 nelle piazzole di sosta i guard rail sono ricoperti di adesivi personalizzati che raccontano il viaggio di una coppia o un gruppo. Quelli che colpiscono di più sono i coraggiosi che partono in Alaska e vanno a Ushuaia nella terra del fuoco in bicicletta. Qui fuori è pieno di gente che si muove, uscite.

Sto andando a Puerto rio Tranquilo, perché voglio vedere il grande lago General Carrera, lato cileno, e lago Buenos Aires lato argentino, e se possibile navigarlo. Il tempo, il meteo intendo, dà sempre la regola, si possono fare cinquanta ore di corriera per non vedere il Fitz Roy. Il lago è grande, duemiladuecento chilometri quadrati, sette volte il Garda, talmente bello che è facile immaginare che in dieci anni sarà un posto turistico. Stando sulla riva del lago si vedono le coste viola ricoperte di lupini, è il luppolo, e il ghiacciaio sullo sfondo, prati tutto attorno, cipressi e abeti. Sono fortunato, c’è il sole, posso navigare. Un cartello annuncia la vendita di quarantasei ettari, non so nulla ma fantastico non poco, una tentazione. Decenni fa una coppia americana fondò due aziende, lei ‘patagonia’, lui ‘the North face’. Comprarono molte migliaia di ettari di terra in Patagonia per farne parchi e riserve protette, finché lui morì, non troppo tempo fa, cascando nel lago General Carrera. Di ipotermia. Che per uno che faceva abbigliamento termico è una forma di sarcasmo sordo della sorte.

Il sole sorge prima delle cinque e tramonta dopo le dieci e mezza, giornate lunghe, si finisce per dormire quando c’è buio e muoversi con la luce. Mi sveglio sempre presto e il sole è già alto. Devio per la laguna Tempanos nel parco Queulat, cammino per mezz’ora in un bosco fitto e trasudante d’acqua per arrivare al lago. L’acqua scende dal ghiacciaio che sta sopra, il ventisquero Colgante o ghiacciaio appeso, ovvero il ghiacciaio si protende su una parete a strapiombo di cinquecento metri, formando in questa stagione numerose cascate che si precipitano giù.

Un ragazzo con un gommone mi porta più sotto, lo spettacolo è grandioso. E non c’è casa, baracca, centro commerciale, cartello, insegna, insomma tutto il rumore di fondo che da noi funesta ogni metro di terra. Scendo a punta Queulat, su un fiordo dell’oceano Pacifico, tutta la costa cilena è molto frastagliata. I delfini, come dicevo, e i paeselli sono graziosi e ordinati, l’immigrazione qui è stata tedesca. Passa un camion adattato stile Overland di una famiglia belga in esplorazione del Sudamerica, il viaggio qui è sempre un’impresa. Buona parte delle strade in Patagonia sono sterrate, le macchine e i pullmini si svitano tutti, si perdono i pezzi in continuazione, il furgone su cui viaggio oggi ha perso la targa. Ma non pare un grosso problema per nessuno, tantomeno per la polizia. Poi è caduta la cappelliera, tutte le viti dai e dai sono uscite.

Il versante cileno è talmente rigoglioso da essere impressionante, la vegetazione è fittissima e tutto è enorme, alberi da trenta metri e foglie larghe due metri al ciglio della strada. La pioggia e l’umidità si fermano alla cordigliera.

Voglio dire. Ovvio che uno poi si faccia le fantasie di viaggio o, addirittura, di trasferimento. Ah, ricominciare, niente fardelli del passato. In Patagonia, Butch.


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minidiario scritto un po’ così dalla punta estrema del mondo di sotto: tre, alberoni, lagoni, fiumoni, scavallo, la ruta siete

Svegliandomi, mi ritrovo sulle alpi, diciamo Pinzolo per vegetazione, clima e montagne ma Andalusia per negozi e case. È la precordillera e la cosa stupefacente è che sono a novanta metri sul livello del mare. Tutta la cordillera è più bassa di quanto si pensi, duemila, duemilaedue proprio a far tanto, i tremila dei picchi e l’Aconcagua che spicca per eccesso ma, in generale, è il clima che è proprio diverso a livello del mare. Che poi sono due oceani non banali a una buona latitudine sud, tutto si spiega. La cordillera stessa fa da spartiacque: pioggia e tempeste sul lato cileno, un po’ più arida lato argentino. Per modo di dire, ci sono foreste meravigliose, fittissime, ed enormi laghi, per dare un ordine diciamo una decina di volte il lago di Garda per quelli medi.

Passo non lontano da San Carlos de Bariloche, vero paesello bavarese luogo prediletto di villeggiatura per ex gerarchi nazisti, Priebke lo pigliarono qui. Salendo vedo piante mai viste, la primordiale araucaria, cipressi a cono di dimensioni colossali, il locale cipresso fitzroy, capace di arrivare a sessanta metri e tremila anni. Ed erbe di ogni tipo, certi foglioni ombrelloni buoni per l’estate, ricordarne un nome. Pangue.

A Trevelin iniziava la ferrovia che andava a Trelew, seguendo tutta la valle del Chubut, costruita dagli immigrati gallesi. Molte scritte qui sono in gallese, appendono dragoni dappertutto. È un paesone tutto rettangolare con una piazza al centro, come quasi tutti qui, la statua di Sanmartin, liberatore dell’Argentina, le vie hanno tutte gli stessi nomi, sempre le stesse date ovunque. Vado a mangiare qualcosa ed è invariabilmente il miglior filetto mai visto da noi, foss’anche una bettola senza speranze. La carne è un’ossessione e una monocoltura, direi. Su ogni cartello stradale, e deve essere una risoluzione comunale ricorrente, in basso a destra c’è la rivendicazione del possesso delle Malvinas.

Così le chiamiamo noi sinceri democratici, non Falkland. Le analogie della storia di questi territori con la storia americana del nord sono rilevanti: anche qui popolazioni indie represse e sterminate dagli europei alla ricerca di risorse e terre, la toponomastica lo ricorda ovunque, quasi tutta mapuche. Chiunque riportasse un orecchio di un mapuche, uomini della terra, veniva pagato. Gli stessi villaggi richiamano quelli dell’Alaska o del Canada, storia di inizio Novecento.

Colori. Aria. Acqua. Boschi. E nessuno, nessuno nessuno. È possibile viaggiare ore senza vedere una casa, io vado quasi in ansia da mancanza di capannone. In realtà, sapendolo, qualcosa c’è, ed è dove ci sono filari di cipressi, per spezzare il vento. Ma, in generale, non si vedono e sono pochissime, le case. Passando per Los Cipreses, appunto, ridente micropaesello, salgo al Paso Futaleufú perché ho un piano: scavallare in Cile. E così è, arrivo alla frontiera argentina, una serena baitella con cancello automatico – cioè un frontaliere baffuto e gioviale – in cui mi fanno un controllo più di esibizione che di sostanza e dopo qualche chilometro arrivo alla frontiera cilena, più dura. È una frontiera fitozoocosica, nel senso che non possono passare frutte o verdure o cose vive a parte le persone. Quindi i bagagli vengono ispezionati uno a uno, dipende dallo zelo. Due anziani in auto davanti a me nascondevano due mele che sono state prontamente sequestrate e poste su una bilancia in evidenza a tutti. Chiaro che poi sono stati fatti deviare verso la fucilazione anche se sembravano andarsene tranquilli. La persona dopo di me ha un enorme sacchetto di frutta comprata da poco, ottima idea. Crocifissione, suppongo.

Io c’ho il profugo cileno a casa mia è arrivato nel ‘73 / e da allora lui non è più andato via / Antonietta fammi star da te. / Compagno un caz. E poco dopo comincia l’altra strada, la Carretera austral, la ruta 7 cilena, che va giù fino in fondo in fondo. Affascinante, molto, nonostante sia stata voluta dal generalisimo nonché farabutto criminale Pinochet.

Le parti non asfaltate sono perché nel frattempo era morto. Sempre troppo tardi. Molti paeselli, villa Amengual per dirne uno, esistono proprio per la strada: anno di fondazione? 1982. Una chiesina di legno con campanile incorporato, un supermercatino, un caffè se si è fortunati, un giudice di pace che svolge tutte le funzioni. Solitamente dal caffè. L’immancabile bandiera cilena davanti a ogni casa e, ancor più immancabile, una macchinona che non corrisponde al livello della casa, tipica cileno. In Argentina le due cose corrispondono, guidano mezzi rottami.

A Puyuhuapi un caffè su un fiordo dell’oceano Pacifico, ormai sono di là, è proprio cambiato il versante. Ci sono persino i delfini che fanno capolino qua e là, notevoli le corriere adattate a casa semovente con argano dietro per le moto. Il tempo è molto più variabile su questo lato, bisogna aver fortuna.


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