
Ma non per i motivi che pensa lei.
Ma non per i motivi che pensa lei.
Le elezioni di oggi in Germania sanciscono, oltre alla vittoria della CDU, l’affermazione sostanziale della destra della destra, di AfD che supera il venti per cento. Guidata peraltro da una lesbica con due figli che vive in Svizzera ma questo è un mistero che meriterà altre considerazioni. A forza di fare governi ad excludendum, e il prossimo sarà certamente così anche con i socialisti ampiamente perdenti, AfD continuerà ad aumentare il proprio gradimento, condannandoci a un ventennale antilepennismo anche al di qua del Reno.
Non è che noi si sia più bravi, perché dopo l’excludendum adesso li facciamo governare, sia chiaro.
Ora, lo so che l’hanno notato tutti e non da oggi ma la coincidenza tra il voto e la divisione tra est e ovest delle fu Germanie divise è impressionante:
Se sovrappongo è evidentissimo:
La novità di questo giro è che AfD mostra un’affermazione anche a ovest, in due collegi occidentali: Gelsenkirchen in Renania Settentrionale-Vestfalia e Kaiserslautern nella Renania-Palatinato. Non basta: in tre stati occidentali è arrivato secondo, dietro la CDU: Renania-Palatinato, Baden-Württemberg e persino in Baviera, regno del centrodestra. Il travaso è iniziato, se prima si spiegava con le distanze tra ex-DDR e RDT, vedi l’attuale differenza tra gli stipendi, adesso l’idea di destra per cui ciò che non va sia da imputare agli immigrati comincia a far presa anche di qua. E più la Germania ha difficoltà e più AfD e la destra in generale avanza, soprattutto tra le persone disoccupate e la classe lavoratrice composta da operai, manovali, braccianti, come i dati dimostrano. E vista, infine, l’affluenza notevole, non si può nemmeno affermare che sia stata la scelta di pochi, come invece in Italia. Barlumi? Pochi.
Ecco, questo è un caso in cui nemmeno la mia fantasia più sfrenata riesce a raccapezzarsi:
“Ribelli” perché pure scismatiche, come servisse aggiungere elementi.
E fiori a Gesù, ovviamente. E anche a papa Giovanni, il papa della bontà.
Scrivere sui muri è arte sopraffina e dovrebbero farlo solamente coloro che sanno ciò che scrivono. E il teologo che ha scritto questa invocazione sa quel che fa, usando una formula diretta, concisa, fulminante, saltando anche quell’articolo che renderebbe tutto meno incisivo e, anzi, aggiungendo un tocco di familiarità che già il simbolo dell'”abbasso” suggeriva. E via, chissà come ci è rimasto male, il demonio.
le scritte sui muri:
a saperlo prima, aggiunte, arriva l’estate, attualità stringente, avverbiunque, basta!, bellalavita, bellezza assoluta, braccia restituite all’agricoltura, cacca al diavolo, dal libro dei Savi IV, 42, dialettica politica, e tutto il resto, fatevi una vita, fuori gli obiettori, fuori gli obiettori (due), i cattivi, i lavoratori più disciplinati, i tre comandamenti, il benessere, il clero, il genere, la lasagna, la musica alternativa, le certezze, le decorazioni, l’immigrazione, l’indignazione, maledetta la fretta di far la rivoluzione, maria jessica, mentalità aziendale, nella strada e nella testa, palumbo, pas de quartier, però serve, pio pio tutto io!, politica contemporanea, possiamo smetterla?, prima sopra, ora sotto, rubare ai richi, sintesi politica, sintesi politica due, speranza per tutti, superminimal, togliete quei maledetti calzini, uomini al bar, voce del verbo rapire
Le piante sarebbero in realtà due, una per anta.
Il portone, come molto del liberty a Torino, è di Pietro Fenoglio ed è del 1907. Il palazzo non ha invece caratteristiche notevoli, si trova nel quartiere di San Salvario a Torino. I melograni sembrano maiolica e invece sono ferro battuto, c’è dibattito se all’origine fossero di naturale color brunato e se poi siano stati pitturati indebitamente oppure no, la critica si divide. Di sicuro il legno andrebbe rimesso a posto, forse i segni delle scartavetrate e l’impalcatura al palazzo lo promettono.
Una bella sorpresa della domenica mattina a zonzo.
Musk twitta (icsa?) una cosa sibillina con quattordici bandiere americane e il corrispondente di Repubblica, cui non sfugge nulla e vigile come pochi, coglie il nesso con l’ora di pubblicazione, le 14:14, e si lancia con una concione sul codice dei suprematisti. Esoterico, pure, oltre che precisissimo.
Va bene. Anzi no, perché sarebbe bastato guardare l’ora del twit di Musk per darsi una calmata: le otto, le quattordici sono le ore di Basile in Italia. Ha imbroccato i minuti, al massimo; Repubblica sempre meglio.
E poi, fosse Musk davvero così: ma perché pubblicare il 15 e non il 14, a questo punto? 14, 14, 14:14, quaterna. Quattordicerna.
Eh, dirlo.
Con la locuzione ‘Le Nuove’ a Torino si intende il carcere storico, quello in funzione dal 1869 al, per alcuni, 2003. Cinque minuti fa, quindi. E questa guida non avrà proprio niente di allegro perché non c’è niente di allegro da raccontare, stavolta. Però va raccontata, anche brevemente, questa storia e in forma di guida perché, magari, poi qualcuno deciderà di andarci. E sarebbe bene per molti motivi come è stato bene per me, pochi giorni fa.
Come dice Beccaria nel capitolo XLVII in conclusione: «perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi», gli Stati moderni cominciarono a dotarsi di carceri moderne, ‘nuove’ per l’appunto. Per carità, si veniva dall’assolutismo e dall’arbitrio, per cui l’approdo fu temperato, Beccaria ascoltato fino a un certo punto, a Torino il re c’era eccome, ancora, e l’idea terminale non era il recupero e il reinserimento delle persone ma la collocazione sicura dei reietti fuori dalle strade borghesi. Lombroso era già lì, di medici compiacenti disponibili a una firma per l’internamento di una donna ne è piena la letteratura e la realtà di allora. Il carcere moderno, dunque, era comunque alla maniera di una fortezza, dentro per il fuori e dentro per il dentro, con torrette per le guardie, celle anguste con bocche di lupo rivolte solo verso il cielo, servizi igienici sommari, nessuno spazio di socialità né, tantomeno, di lavoro o di recupero. Lo Špilberk in struttura, ancora, quel che diceva Beccaria si atteneva al giudizio, la formulazione e l’applicazione della legge.
E lì ci finivano donne in ogni condizione, preferibilmente prostitute – da cui però poi quasi tutti andavano -, sole con figli illegittimi, vittime di violenza, di quel malaffare comodo per ogni stagione, come l’insano per le abitazioni, bastava aver rovesciato un banco del mercato per fame, come nel 1919, e criminali di ogni sorta, dal pluriomicida all’accattone. Una voragine in cui si entrava per, spesso, non uscirne più. Il diritto alle cure sanitarie, al lavoro, all’ora d’aria arrivarono poi, gradatamente e con moderazione. Se di per sé già l’idea del carcere è perversa, la concezione di uno spazio circolare per l’ora d’aria con al centro una torretta di guardia, muri alti tre metri e spicchi al massimo larghi ottanta centrimetri alla circonferenza esterna, quindi singoli, è ben oltre la perversione. Il modello qui sotto è quello successivo, liberato degli spicchietti singoli e ampliati per un minimo di socialità durante quel poco tempo all’aperto.
Piano piano arrivarono piccole concessioni, i bagni, alcuni spazi per detenute madri e per i piccoli, qualche finestra, qualche cucina, qualche angusto spazio di lavoro, qualche diritto in più, forse, qualche tortura in meno. Piano, eh, che il letto di contenzione fu dismesso solo nel 1978, otto minuti fa, quindi con i piedi di piombo, letteralmente. E il carcere affidato alle Figlie della Carità, suore, incaricate di ogni servizio tranne quello di guardia, con il bene e il male. La voragine riaprì le sue fauci durante il fascismo, gli oppositori, anche blandi, sparivano nelle celle, bastava poco, tornava l’arbitrio. Dal 1943, poi, divenne un buco nero, un intero braccio in cui si parlava solo tedesco e in cui finivano tutti coloro che venivano interrogati e torturati all’albergo Nazionale in via Roma e poi portati qui la notte. Ci restavano poco, qui, qualche giorno, perché poi o era deportazione o fucilazione, finendo quindi l’ultima notte al piano di sotto, nelle celle dei condannati.
Come Ignazio Vian, Emanuele Artom, Duccio Galimberti, Giuseppe Girotti per dirne quattro. Le scritte sui muri, qualcuna con il sangue, qualche bigliettino, una pagnotta incisa è ciò che ci resta di centinaia di persone coraggiose che si ribellarono, ciascuna a proprio modo.
Dopo la Liberazione, e con essa venne la Repubblica, le condizioni carcerarie non migliorarono di pari passo, subirono anzi battute d’arresto soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, con la stagione del terrorismo, di cui Torino fu senz’altro un epicentro. Per lo più donne, le detenute comuni non potevano stare con le politiche e le politiche stesse non tra loro per l’evidente questione per cui erano lì, la militanza da parti opposte. Vennero le gabbie di contenzione e le reti contro i suicidi, insieme alle porte con le sbarre, finalmente non solo chiuse.
Ma la perversione del sistema ebbe la meglio ancora per molto, ancora l’ha adesso al di fuori di un pugno di carceri d’eccellenza, Bollate, Opera, Verziano, nella sovrappopolazione delle strutture, nel disinteresse, nell’esercizio di leggi inutilmente punitive verso chi non ha i mezzi per dilazionare la difesa, il caso mostruoso di Canton Mombello a Brescia. Anch’esso in fortezza ottocentesca. Quando le detenute trovarono il modo di comunicare all’esterno con le compagne salite sui cumuli di macerie all’esterno, la direzione rese cieche le finestre, con una certa confusione tra i sensi, oserei notare.
Solo negli anni Novanta fu costruito un nuovo carcere all’altezza dei tempi nuovamente moderni, Le Vallette, che pure pensò di bruciare dopo poco prolungando la permanenza dei detenuti qui fino al 2003.
Sia chiaro, è un viaggio all’inferno, doloroso ma breve. Fa un freddo spaventoso, lì dentro, molto più freddo che fuori, come posso immaginare faccia molto più caldo d’estate. Anche questa era insensatezza. Per fortuna, nel carcere c’è un’associazione di volontari che conduce visite guidate una volta al giorno, due ore, perché serve tempo e comprensione e concentrazione per attraversare le vicende che ho appena accennato. Serve rispetto, in fondo. Si prenota qui ed è una cosa che consiglio davvero di fare. Per molti motivi, tanti si sono intuiti, capire qualcosa di più della realtà carceraria storica e contemporanea e, non ultimo, per quello che disse Calamandrei: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dov’è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i Partigiani. Nelle carceri dove furono imprigionati. Nei campi dove furono impiccati». Ecco.
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La SS United States, un transatlantico varato un anno prima dell’Andrea Doria, nel 1950, velocissimo, anzi il più veloce di sempre, quasi duemila posti in cabine all’avanguardia, una veterana della tratta da New York a Southampton, dal 1969 era ormeggiata al molo 82 di Philadelphia.
Dopo innumerevoli vendite, restituzioni, progetti di restauro e di rimessa in servizio come transatlantico di lusso, alla fine, visti i costi di ormeggio e il decadimento della struttura, si è optato per la decisione più facile: la bonifica e l’affondamento.
Affondamento a scopo benefico, ovvero la trasformazione in una barriera corallina artificiale. Io non so se questa cosa sia effettivamente vera, cioè se sia un bene che un relitto venga affondato e poi serva davvero alla fauna marina, non lo so proprio, so che da un po’ queste cose si dicono, mentre decenni fa si affondavano e basta. Come le auto in acqua, del resto. Almeno adesso si bonifica.
Per questo, la SS United States è appena partita per Mobile, Alabama (e già scoprire che l’Alabama è sul mare è qualcosa) – anche se alcuni dicono Norfolk in Virginia e poi Okaloosa County in Florida – per la bonifica e poi verrà trascinata nell’oceano, al punto scelto.
Più grande del Titanic, più veloce di qualsiasi nastro azzurro, la SS United States è stata salutata con affetto dai filadelfiani:
C’è di sicuro gente che è nata dopo l’ormeggio e l’ha vista lì da sempre, come non comprenderli? 301 metri di lunghezza, 53mila tonnellate di stazza, 8 caldaie Babcock & Wilcox, 4 turbine Westinghouse per 248mila cavalli, una bestia da quasi trentotto nodi all’ora che si mangerebbe anche le navone di oggi. I filmati dei filadelfiani che, commossi, la salutavano dalle rive e dal ponte del porto sono abbastanza significativi. Peccato, merita un’immagine che mostri quando era in piena forma:
Notevole.
Questa è talmente ricca di implicazioni, con quel riflessivo maledetto, che non saprei nemmeno da dove partire.
Eh no, nessuno lo sa. Nessuno sa niente.