il mio primo pianeta di persona

Una settimana fa ho visto Saturno.

Nemmeno così, era molto meglio, molto più nitido e con tre delle sue sessantaquattro-ottantadue lune. Il tutto da un telescopio portatile, è stato a dir poco emozionante, anche i sistemi binari ed E.T., che ebbene sì abbiamo visto con chiarezza. Anche perché Saturno è il pianeta, IL pianeta, ovvero come chiunque di noi disegnerebbe un pianeta. Si distinguevano chiaramente anche i diversi anelli e, l’ho imparato allora, la diversa densità è dovuta alle lune che orbitando spazzano tutto. Ed è stato ancor più bello perché eravamo molti amici e conoscenti, grazie a G., astrofilo appassionato.

doppietta (this is not bridgetjones)

Così mi preparo il 2025.
Il 26 marzo The Wombats a Leeds, di cui ricorderò Let’s dance to Joy Division e Kill the director.
Il 27 Badly Drawn Boy a Nottingham per il venticinquesimo di The Hour of the Bewilderbeast che non sarà il suo miglior disco ma quel concerto a novembre del 2010 al Bronson di Ravenna fu davvero memorabile, per noi otto che c’eravamo e, quindi, vale la pena rinnovare.

le cose di Irvine

Il mistero alpinistico più noto di sempre, ovvero se Mallory e Irvine siano stati i primi a scalare l’Everest nel 1924, si arricchisce di un nuovo elemento: una spedizione del National geographic due settimane fa ha trovato un vecchio scarpone quanto tempo è passato che emergeva da un ghiacciaio in discioglimento, con dentro un lungo calzettone.

Il calzettone, per non creare dubbi, ha ricamato il nome del proprietario che aveva il piede nello scarpone, Andrew Irvine, appunto. Il corpo di Mallory, sbiancato in modo impressionante da sole e vento, era stato ritrovato nel 1999 senza chiarire nemmeno in quel caso quale sia stato l’itinerario dei due alpinisti.

Cioè, che siano morti è chiaro ma non si sa se in salita o in discesa, il che fa una certa differenza nel mondo in cui conta chi arriva primo. Solo la macchina fotografica con la classica fotografia in cima potrebbe mettere la parola fine al mistero. Presumibilmente, il corpo di Irvine non dovrebbe essere lontano dal ritrovamento di oggi, Ah, beh, ovviamente dentro lo scarpone e il calzettone c’è il piede. Scocciante, se il piede è il tuo.

minidiario scritto un po’ così di una scappata inglese: due, le privatizzazioni, fine del carbone, big Willy, i fiumi-fiumi

Dopo centoquarantadue anni, chiude l’ultima centrale a carbone nel Regno Unito, a Ratcliffe-on-Soar, tra Derby e Nottingham. Si chiude davvero un’epoca e quale posto migliore in cui essere per questo? Oddio, non che si percepisca, ma se il ragionamento di questi giorni è sull’Inghilterra industriale allora ha senso, come ha senso ricordare lo sciopero dei minatori inglesi contro la Thatcher che durò un anno, prima che dovessero capitolare. A proposito di Thatcher, sempre sia maledetta: tra le altre cose, per la privatizzazione delle ferrovie nazionali. Dalla British railways, una, si è passati a non dodici, non diciotto ma venticinque compagnie, ne dico un po’ che secondo me oggi sono anche di più: Anglia Railways, Chiltern Railways, Arriva Trains Merseyside, Arriva Trains Northern, c2c, Thameslink, Caledonian Sleeper, Wales & West, Central Trains, Connex South Central, Connex South Eastern, First Great Eastern, Elizabeth line e amen gloria. Il che vuol dire, però, che non si sa mai una tratta, che so? Birmingham-Stratford per restare a me oggi, a chi appartenga. Di conseguenza, è molto difficile fare un biglietto online in maniera agevole: tocca capire la tratta di chi sia, scaricare l’app o andare sul sito, registrarsi, comprare. Moltiplicare per otto, dieci, venti app o siti se si gira un po’ il Regno Unito. Se non altro, da un po’ esiste un portale riassuntivo, condivido: National rail, che, almeno, aiuta nel primo passaggio. Spero che, anche per questo, tu sia all’inferno, Thatcher.

Nel mio caso di oggi, si tratta della TransPennine Express e vado in gita a Stratford. Sì, quella Stratford sull’Avon, quella di Shakespeare, amichevolmente big Willy per quelli di lì. Sia chiaro, è un bel paesotto su un bel fiume, l’Avon appunto, come ce ne sono mille nel Regno Unito, piazza con monumento, municipio, cattedrale, qualche edificio medievale conservato e più o meno ricostruito, rive del fiume passeggiabili e verdi, imbarcadero, servizi pubblici e privati, sale da tè, caffè, supermercato, negozio di souvenir e pizzi, sala scommesse. L’ovvia differenza è che gli edifici medievali conservati e più o meno ricostruiti sono la casa natale di Shakespeare, la scuola di Shakespeare, la seconda e terza casa di Shakespeare, il cottage di Anne Hathaway, non l’attrice, la cattedrale ha al suo interno la tomba di Shakespeare e congiunti, oltre ai registri di battesimi e morti con il nome di, appunto, Shakespeare. E i negozi di souvenir vanno moltiplicati per un tot, un bel tot, con negozi dedicati interamente, cui va aggiunta la peculiarità del luogo, un teatro di dimensioni ragguardevoli, dovute ovviamente a Shakespeare. Parliamo di circa due milioni e mezzo, tre, di visitatori all’anno in una cittadina che ne fa, a malapena, trentamila. Ovvio gettarsi nell’economia locale, sia che si possieda un negozio, una casa, un parcheggio.

Uhm, non che io sia un esperto ma alcune cose non mi convincono.
Ci si intenda, la cittadina è gradevolona, in particolare la parte lungo il fiume che mi gusto particolarmente con una lunga camminata tra prati e boschetti davvero piacevoli. Non mi raccapezzo sul fiume, l’Avon, che bello placidone ho già incontrato a Salisbury e a Bristol, possibile sia così lungo? No, infatti, grazie alle comode funzioni di ricerca dell’infosfera giuliniana mi ci raccapezzo e scopro che, solo in Inghilterra, i fiumi Avon sono sette e quelli che io conosco sono i cosiddetti Bristol Avon, Salisbury Avon e questo, detto lo Shakespeare’s Avon. E nessuna intersezione o comune paternità tra loro. Cercando ancora, l’arcano si scioglie, Avon, abona, è la parola che nel protobritannico significava ‘fiume’, quindi il tautologico fiume-fiume ricorre sovente a questo punto senza più sorpresa.

Un altro mistero risolto, potrebbe dire la coppia di investigatori locali della serie tv omonima, Luella Shakespeare e Frank Hathaway e chi coglie, coglie, non è difficile.
Una commossa visita alle sepolture di big Willy e dei suoi parenti nella chiesa, in posizione preminente e sorvegliata da premurosi volontari chiacchierini, e viene l’ora per me di tornare a Birmingham con la bislacca compagnia ferroviaria, tornando così alle mie consuetudini serali locali, ovvero un po’ di tempo al The Old Joint Stock con qualche cibo annesso, due chiacchiere con qualche avventore, una sosta per strada tornando a casa all’Anchor Inn, bella tana per disastrati, una freccetta e via all’unico albergo accessibile in città, un Ibis Budget al di sotto delle centocinquanta sterline per notte, va’ a capire come campi qua la gente. Io per oggi e per questo giretto ho dato. Mi mancherà tutto questo domani.


L’indice di stavolta

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minidiario scritto un po’ così di una scappata inglese: uno, il seguito dei canali mancuniani, bacon&beers, blobitecture e pies a qualsiasi ora

Mesi fa, mentre leggevo eccitato del nuovo tour dei Jet e del singolo e del disco, mi interrogavo su quale data sarebbe stata più piacevole per tornare a sentirli: le comode Milano e Roma? Bristol? Londra? Belfast, Glasgow, Manchester, Nottingham? Posti in cui sono già stato, a Nottingham ci andrò a dicembre a sentire Paul Heaton – caravanovlooov, per chi sa -, allora opto per l’unica restante: Birmingham. Me l’ero promesso a novembre dell’anno scorso, «Birmingham, un’altra volta». Che poi, se averli sentiti a Manchester nel 2018 aveva completamente senso, Birmingham non è da meno, essendo la città di Spencer Davis Group, Traffic, The Move, The Moody Blues, Judas Priest e Black Sabbath, Robert Plant e John Bonham, ci siamo capiti, Martin Barre, Electric Light Orchestra e Wizzard, Joan Armatrading, Duran Duran, Fine Young Cannibals e Dexys Midnight Runners, grandi, Charlatans, Ocean Colour Scene, Editors. Sì, li volevo dire quasi tutti. E bisognerebbe indagare meglio la relazione tra musica e città industriali, forse evasione?
Poi me ne dimentico.
Poi passano mesi, come accade di solito, viene ottobre e il mio calendario mi ricorda l’appuntamento. Beh, pronti. Nonostante un micidiale ritardo dovuto alle fottute compagnie low cost che non sono più low cost ma che mantengono il servizio low, sei ore e un vago cidispiace molto poco sentito, arrivo a Birmingham e mi preparo all’esplorazione, osservando a tarda notte un bel mural di Peaky Blinders con la facciona di Oppenheimer. Fortuna che mi attende una full english breakfast come si deve davanti alla New Street Station, un millecinquecento calorie per affrontare la giornata con animo sbarazzino, bacon spesso del nord, sausages, fagioli, omelette, fette di pane cotte nel burro e pomodoro e funghetti che danno l’illusione della verdura. Ripetere poi per altri due giorni consecutivi, fatto, anche in caso di allucinazioni e tachicardia. È che mi dicono: «Hi, goodtoseeya» con tono caloroso già dalla prima volta e niente, io rapito da tanta cordialità sconosciuta nel nordest-produttivo-locomotiva-deuropa-seee e quindi poi torno riconoscente.

Va bene, ora le calorie c’è da consumarle. E cosa di meglio del vero motivo per cui sono qui – i concerti sono l’innesco -, ovvero la parte industriale di Birmingham, soprattutto i canali? La zona delle midlands e il nord, quindi Liverpool, Manchester, Birmingham, Leeds, Sheffield furono i centri della rivoluzione industriale, le macchine utensili e le macchine motrici, le industrie tessili e l’industria pesante, metallurgica e meccanica, il carbone, fino a Engels e poi Marx e l’impero e insomma, mica è una guida questa e non devo fare tutto io, qui. Ma il carbone e poi le merci e le materie prime bisognava trasportarle e così la parte centronord del paese fu disseminata di una formidabile rete di canali navigabili che esiste tutt’ora, dal Birmingham Canal, il mio obbiettivo, che si immette e riceve, per dirne alcuni, da Coventry Canal, Grand Union Canal, Staffordshire e Worcestershire Canal, Stourbridge Canal, Worcester Canal e ne ho detti un po’. Il mio personale filo conduttore, quindi, inaugurato a Manchester e la sua poderosa industria, proseguito a Liverpool e i canali artificiali che le collegano, prosegue qui, a Birmingham.
La camminata mattutina lungo i canali e le diramazioni e le isole è davvero strepitosa, ha anche smesso di piovere, si affaccia il sole e non c’è quasi nessuno, io adeguo il respiro al passo, sgombro la mia mente affollata, mi godo la brezza, osservo e ascolto musica, raccolgo stimoli e prendo le strade che più mi ispirano.

Se non è bello questo, non so. Passo sotto al Black Sabbath bridge, sì è per quello, e rientro nella parte della città fatta di strade e di zone meno perfette, la famosa biblioteca postmoderna, la piccola cattedrale, la blobitecture dei magazzini Selfridges – a proposito: c’è una bella serie su questo -, il campus universitario, enorme e verde e accogliente, i centri commerciali del centro a ridosso delle stazioni nel pezzo più disastrato del centro città. Come tutte le città industriali ottocentesche, oggi è piuttosto disarticolata, gli anni sessanta e ottanta hanno rimpiazzato l’esistente senza scrupolo né decenza, i novanta e gli zero hanno scavato solchi e fossati nel tessuto urbano, grattacieli fatti per non durare, oggi un po’ e un po’, qualcosa si recupera. I servizi hanno rimpiazzato le armi, le auto, i gioielli,

Qualcosa però resta e tra ciò una magnifica salona prima biblioteca nel 1862, poi banca e poi, adesso, pub con annesso teatro e, il pub, cucina aperta da mezzogiorno alle nove di sera ininterrottamente. Sebbene l’atto di mangiare sia ampiamente sopravvalutato, poterlo fare a qualsiasi ora ha un che di scandalosamente appropriato, alla faccia dei rigorosi riti mediterranei. E siccome posti così bisogna onorarli e contemplarli con calma e posa, una birra e una pie alle cinque del pomeriggio non me le toglie proprio nessuno.

Anche perché io tra poco scendo in pista, ho il concerto, ho la semirissa con gli amici inglesi, devo essere pronto. Che bella abitudine hanno, tra l’altro, di bere le cose fino a un terzo e poi tirare contenuto e bicchiere dove capita, proprio bella. Ma è così, è un concerto rock, questa è l’attitudine, come dicono loro. Quindi, adeguarsi, dentro nella bolgia sapendo che, comunque, alla fine sono leali, e un sorriso e un abbraccio alla fine degli urti, degli spintoni, dei bicchieri volanti e delle grida, arriva sempre senza bisogno di metter mano al coltello come invece faremmo noi italiani. Oh, look what you’ve done / You’ve made a fool of everyone / Oh, well, it seems like such fun / Until you lose what you had won. E poi questi hanno tutti la mia età, sopra e sotto il palco, lo scontro è pari. Fatevi avanti.


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