Il mistero del Canada prosegue, come possa aver contribuito in maniera così significativa alla storia della musica. Tra gli altri, e tra i migliori, Robbie Robertson, scomparso oggi.
Grande nella Band, sia come gruppo di Dylan nella svolta elettrica che da soli – lui, Danko, Helm, Hudson e Manuel erano tutti musicisti e compositori eccellenti con grande predominanza di Robertson -, i loro primi quattro album – in tre anni! Solo i CCR alla pari – sono fenomenali, che botto esordire con Music from Big Pink!, per poi proseguire con i strepitosi The Band, Stage Fright, Cahoots, testi mai banali. E grande poi nella musica per il cinema, con Scorsese più che altro, da The Last Waltz in poi, forse il primo documentario musicale che vidi. Meno, per me, la sua produzione solista e ammiccante agli indiani d’America, evidentemente avere alle spalle, pur come primo attore, una band così solida dava i suoi frutti, ricchi e succulenti. Before the Flood è senz’altro, con Alchemy e Made in Japan, uno dei live che ho ascoltato di più. Adesso The weight, che meravigliosa soprattutto in apertura, poi The night they drove old Dixie down, ballatona, la mia preferita Up on Cripple Creek che sfiora quasi il funk e avanti, The shape I’m in e quante meraviglie, un brindisi a Robertson.
Perché così era: donna coraggiosa. Oltre a tutto il resto.
Dieci pezzi, dunque per ricordarla, i links a youtube spariranno in breve, come al solito, ma si potranno ritrovare facilmente. Grazie a Ed Power.
Mandinka ai Grammys del 1989, qui. Presentata da Billy Cristal con l’appropriata considerazione: «With her very first album, The Lion and the Cobra, she has served notice that this is no ordinary talent». Lei irresistibile, fece una delle sue esibizioni emozionanti e potenti in cui tratteneva a mala pena l’energia, da cui alcuni suoi movimenti e balli apparentemente un po’ goffi, non si teneva.
Nothing Compares 2 You a Top of the Pops nel 1990, qui. Almeno una volta il suo più grande successo commerciale va messo. Commerciale, appunto, lei che non volle mai essere una popstar, «I had no desire for fame», disse più volte, e Top of the Pops è l’emblema di ciò che non volle. Smise di cantarla a un certo punto e persino io, umile adepto del culto, non l’ho mai apprezzata. Però averne, dò comunque via molto del resto per questa.
I Am Stretched On Your Grave, 1990, qui. Dal suo secondo album, bellissimo, il pezzo è una rielaborazione del poema irlandese del diciassettesimo secolo Táim Sínte ar do Thuama, appoggiato su un loop mutuato da Funky Drummer di James Brown e con l’aggiunta del violinista dei Waterboys. O’Connor rilesse il pezzo alla luce della morte della madre in un incidente stradale nel 1985 e non è che sia del tutto encomiastico e di lamentoso dolore.
War al Saturday Night Live nel 1992, qui. Ne ho parlato ieri, lo sanno tutti, è il momento in cui cambiò i versi finali della canzone di Marley e stracciò la foto di GPII dicendo: «fight the real enemy». Come racconta lei nella sua bella autobiografia, al primo sbigottimento del pubblico, quindi il silenzio, seguì subito una reazione ostile e alla discesa dal palco, nel retro, non c’era più nessuno, tutte le porte chiuse. Persino il suo manager si negò al telefono per tre giorni: «And when I walk backstage, literally not a human being is in sight. All doors have closed. Everyone has vanished. Including my manager, who locks himself in his room for three days and unplugs his phone». Siccome, poi, ovviamente era negli Stati Uniti, l’ostilità del paese divenne costante e lei non ebbe più occasioni particolari là.
Ship Ahoy con i Marxman, 1993, qui. I Marxman erano un quartetto hip hop irlandese-caraibico e fin dal nome fu chiaro che erano sulla stessa lunghezza d’onda, di rifiuto all’estabilishment e di lotta al potere costituito. Appena si presentò l’occasione, le era piaciuto il loro singolo Sad Affair, fecero qualcosa insieme, Ship Ahoy appunto.
Thank You For Hearing Me, 1994, qui. Questa versione mette in risalto la base ritmica e il basso e, in sostanza, il groove da trip-hop leggero che contraddistingue il pezzo. Come ha confermato nell’autobiografia e come si sa, è stato scritto pensando a Peter Gabriel ed è evidentemente espressione di profonda riconoscenza, anche nella parte finale del breaking my heart e tearing me apart. Era il suo pezzo preferito da fare in concerto perché: «it just could take you, like a mantra, to these stratospheres of almost hypnosis» e così va ascoltato.
Empire con i Bomb The Bass, 1995, qui. Appena successivo, testimonia l’interesse di O’Connor per il trip-hop in quegli anni. Prodotto da Tim Simenon, lei duetta con il poeta Benjamin Zephaniah cantando «Vampire, you feed on the life of a pure heart, Vampire, you suck the life of goodness» riferendosi direttamente all’Inghilterra e al colonialismo del suo impero. Anche qui, un discorso ampiamente avanti per i tempi, lei tra gli altri vedeva bene quali fossero le questioni da affrontare.
She Moved Through The Fair, 1996, qui. Ripresa per il Michael Collins di Neil Jordan, O’Connor rivitalizzò il pezzo tradizionale al punto da diventare un’interpretazione difficilmente superabile. Inserisco questa versione perché si sente con chiarezza quanto lei fosse eccezionale dal vivo, come e meglio della sala di incisione, in cui non veniva aggiunto alcunché. Le sfumature sono numerosissime, i toni pure, nessuna aggiunta o virtuosismo inutile, andrebbe insegnata alle cantanti di oggi.
A Prayer For England dei Massive Attack, 2003, qui. In questo disco, la collaborazione fu su tre pezzi e nonostante sia considerato un album minore dei MA, direi che sia sottovalutato. Questo pezzo è sulla violenza infantile, «Let not another child be slain, Let not another search be made in vain» e anche qui è impossibile non cogliere la sensibilità di O’Connor che deriva, evidentemente, da vicende personali.
The Skye Boat Song, 2023, qui. Pezzo ripreso nella sigla della serie Outlander, O’Connor reinterpreta il brano tradizionale scozzese variando tra l’intimo e l’epico. «She is talented beyond measure. Hers is a voice of the ages – one which pierces heart and soul» disse qualche mese fa il produttore, a ragione.
Che bella quando sorrideva alla fine dei pezzi, quasi timida abbassando lo sguardo. E come invece puntava dritto senza mollare quando diceva qualcosa. Ma come si fa a non volerle bene?
Anche se non inattesa, la notizia della morte di Sinéad O’Connor mi spezza il cuore. O forse perché proprio non inattesa, anche quello.
Neanche tanto in là al liceo, a un certo punto apparve una ragazza che cantava un pezzo forte, movimentato, schitarrato il giusto, bella voce e grandissima presenza: Mandinka. Lei, bellissima e selvaggia, poco più grande di me. Ma poco. Si vedeva che era una che faceva da sola, una donna indipendente, forte, chiara e dritta al punto. I don’t know no shame / I feel no pain / I can’t see the flame. E io niente, rapito. A cantar tutto il disco, perché The Lion and the Cobra era, è molto bello. Il suo primo, Troy, Drink Before the War, Want Your (Hands on Me), Just Like U Said It Would B, Jackie, le so ancora oggi. No, dico, ma sentire Never Get Old da 3:02, ancora mi emoziono. E se l’era scritto da sola o quasi, testi e musiche, suonato un po’, cantato tutto, con quella testa rasata, i lineamenti favolosi e quell’aria da tenera dura che mi rapì il cuore allora e ancora l’ha con sé. Tre anni dopo pubblicò quella gran dichiarazione di intenti che è I Do Not Want What I Haven’t Got. E no, non quella lagna di Nothing Compares 2 U che era ovvio l’avesse scritta qualcun altro ma Jump in the River, favolosa, And if you said jump in a river I would / Because it would probably be a good idea, e poi You Cause as Much Sorrow, The Last Day of Our Acquaintance, Feel So Different, Black Boys on Mopeds e soprattutto The Emperor’s New Clothes, che la so ancora tutta nell’inglese di Orzinuovi. A piedi nudi sul finto palchetto, una follia per i tempi di oltre cinque minuti. Niente, io sempre più rincitrullito, era lei, era lei. Perdio, I Do Not Want What I Haven’t Got tutta cantata senza accompagnamento. Comprai persino un disco degli In Tua Nua, perché ovviamente c’era lei, solo quello. Poi venne un disco di standards, Am I Not Your Girl?, comprai la cassetta originale, era chiaramente amore, a parte un paio di canzoni note le altre non le conoscevo, mi aprì qualche finestra su altri mondi. Era pur sempre un disco di cover e lei aveva la voce per quelle fino a un certo punto, ma la presi come si deve, cioè un colpo di testa di una che fa quel che vuole. Brava. E io col walkman bello alto. Poi venne una favolosa versione di The Foggy Dew con i Chieftains, Irlanda su Irlanda, e Blood of Eden con Peter Gabriel e io andai in Irlanda nel 1992 un po’ anche per lei, per i cieli, le scogliere, la musica, tutte le cose che piacciono a tutti e poi anche per lei. Il 1992 fu proprio l’anno: prima fece incazzare quel pirla reazionario e mafioso di Sinatra, che avrà pure avuto una gran voce ma tale resta, e poi al Saturday Night Live modificò gli ultimi versi di War di Marley e stracciò in favore di telecamera la foto di Giovanni Paolo II al grido di «fight the real enemy». Il riferimento era ovviamente ai reati di molestie sessuali che la Chiesa copriva da decenni e che una donna irlandese finita nelle Case Magdalene conosceva benissimo. Io, secco. Aveva ragione da vendere, santoddio, e un gesto del genere servì eccome per sollevare la questione e il dibattito. Fu, naturalmente, massacrata in ogni dove da quegli ipocriti stronzi che poi nel privato delle case e delle canoniche facevano le cose più immorali e indegne, furono devastati i suoi affetti, le sue opere, il suo lavoro e la sua vita privata. Ci vollero nove anni, nove!, da allora perché Giovanni Paolo II riconoscesse gli abusi sessuali all’interno della Chiesa, maledetti, Madonna non perse occasione per guadagnare visibilità alle sue spalle, ipocrita pure lei con quel tanto di nome. Lei sì, oscena. Sinéad O’Connor disse poco tempo dopo: «Everyone wants a pop star, see? But I am a protest singer. I just had stuff to get off my chest. I had no desire for fame» e io la elessi a mia guida. Se mi avesse detto di lasciare tutto e andare a guidare una tribù di Ubangi nel deserto, probabilmente l’avrei fatto. Giovane, spregiudicata, bella, decisa, soprattutto nel giusto, era come mi sentivo io nello stesso momento. C’è quel momento, noto, in cui al concerto in tributo per Dylan tutto il pubblicò la fischiò rumorosamente e lei, dopo un ovvio momento di sconcerto iniziale, recitò War a gran voce di fronte a un pubblico ostile e poi, giustamente, scoppiò a piangere. Molto per una donna di nemmeno trent’anni. Poi pubblicò Universal Mother, di cui di sicuro Red Football, sacrosanta rivendicazione contro la violenza infantile e femminile, Fire on Babylon, l’importante Famine e il saluto a Cobain con All Apologies – l’unica canzone dei Nirvana che mi piaccia per davvero – furono gli aspetti salienti. Nel frattempo, aveva lasciato crescere i capelli e dio come avrei voluto che non fosse così sola nelle sue battaglie. Nel 1997, finalmente, riuscii a vederla dal vivo, alla festa dell’Unità di Correggio, allora importante appuntamento musicale oltre che politico. Fece due concerti, uno ufficiale prima e uno dopo con la chitarra seduta tra noi perché ne aveva voglia, l’ho raccontato qui, aveva appena pubblicato Gospel Oak e This is a rebel song mi colpiva. E in concerto era come su disco, anzi meglio, era proprio così, un talento smisurato. Riuscii a scambiare due parole maldestre, il cui senso era grossomodo io ti amo e quel che fai è giusto grazie tieni duro ti amo fammi venire con te. Una cosa del genere, non più strutturata ma perdio sentita e sincera. Poi passò parecchio tempo prima di un nuovo disco, Faith and Courage, di cui ricordo senz’altro No Man’s Woman con cui facevo lunghe passeggiate nella pineta di Cecina, al tempo, e la donna decisa e sicura di sé, come è giusto che sia e come ciascuno deve essere libero di essere, lasciò il posto alla donna incerta, sentimentalmente improvvida, sempre però chiara negli interventi, vedi la lettera pubblica a quella rinciulita di Miley Cyrus, ma insicura per sé e alla ricerca, alla fine, di affetto e comprensione che non riceveva. Seguirono solitudini, conversioni assurde, lutti familiari di grande dolore, alcune manifestazioni di pericolo negli ultimi anni, alcuni dischi di cui uno peraltro buono e riconosciuto, I’m Not Bossy, I’m the Boss, quasi dieci anni fa, ma con un messaggio e un’estetica ormai compromessi, innaturali, tatuaggi un po’ a caso, una tristezza di fondo impossibile da non percepire. «Sono stata una persona molto travagliata», disse di sé poco tempo fa e mi colpì che parlasse di sé al passato ma mica perché si fosse risolta, poi sparì alcuni giorni e si temette il peggio, poi ebbe periodi bui in cui non ebbe paura di parlare di disagio mentale e del suicidio di uno dei figli e io, qui da lontano da sempre ma sempre innamorato, dispiaciuto del suo dolore. E sempre con The Lion and the Cobra e I Do Not Want What I Haven’t Got sul piatto, nella testa quella sera a Correggio e quella foto strappata. Poi, oggi, è successo. E mi fa schifo che il Corriere titoli: «È morta Sinead O’Connor, la cantante di Nothing Compares 2 U aveva 56 anni», che è proprio quello che non era e che aveva deciso di non cantare più, anche se ci mise un gran coraggio a mettere il bel faccione, bianco e pulito, nel mezzo dell’inquadratura per tutta la canzone. Il Guardian nel 2021, recensendo la biografia di O’Connor, scrisse che era «full of heart, humour and remarkable generosity» e parlava di lei, Sinéad O’Connor, non del testo, e io non potrei essere più d’accordo. Tanto tanto cuore, grande generosità, che poi si sbaglia per eccesso, capita di continuo anche a me, ma vivaddio, averne di cuore e generosità invece dei miserabili dei tornaconti personali e della parola sempre in meno, averne, averne. Anche ora scambio tutto per una Sinéad in più. Ciao Sinéad, addio, che dove stai andando tu possa essere ancora travagliata e piena di cuore, di prese di posizione, di convinzioni, di battaglie da compiere. Non ti auguro la tranquillità come non la auguro a me, non ti auguro la pace, figuriamoci, né il riposo, ti auguro di continuare a essere quello che sei stata, la donna decisa, la donna bella e coraggiosa, senza tutto il dolore dopo, quello della solitudine e della malattia, come hai detto. Selvaggia, indomabile e piena di contraddizioni, come tutte le persone di cuore sono. Non è giusto sia andata così e non da oggi e ciò che fa male è che, come dicevo all’inizio, non era inatteso. Che cazzo, Sinéad, quanto tempo è passato e quei bei tempi che non lo sono mai stati davvero, sapere però che hai detto che è stato l’enorme successo di Nothing Compares 2 U a mettere realmente in crisi la tua carriera, mentre l’aver strappato la foto del papa ti ha fatto tornare «sulla giusta strada» è una delle cose bellissime che ricorderò di te. Perché hai ragione.
E proverò a essere coraggioso come lo sei stata tu. Fanculo, miserabili.
Che batosta oggi. Il tempo, in senso meteorologico, ci ha castigato. Collettivamente e, per quanto riguarda me, individualmente. Certo, ad altri è andata peggio. Si ricomincia, si rimette a posto, si ripara, si mette qualcosa al posto di ciò che non c’è più, ma questo non toglie il magone che adesso sta lì e non va né su né giù.
1’38” in 22 chilometri a Pogacar e 2’51” a Van Aert? Peraltro due mostri a loro volta e pure in formissima? E qui il dilemma: che faccio, continuo a guardare il Tour? Continuo, continuiamo, a credere a quel che vediamo? Che poi io lo sostengo da sempre: aprite tutto, largo ai bombatoni, ciascuno a proprio rischio e avanti con lo spettacolo oltre ogni limite. E poi facciamo il campionato dei normali, se qualcuno ha proprio voglia di correre e guardare.
La prima pagina della Wiener Zeitung, che chiude oggi dopo 320 anni, 10 imperatori e molte altre cose. Quello là va contato nei presidenti.
Il giornale più antico del mondo pubblicato continuativamente. La proprietà è dello Stato austriaco e per parecchio il giornale si è retto in piedi grazie a una legge ad hoc che rendeva obbligatoria la pubblicazione di annunci di interesse pubblico, di fatto garantendo la maggior parte degli introiti del giornale. Da aprile la legge è stata abrogata e così la Wiener Zeitung resterà solo sul web. Nei primi decenni della sua esistenza, il giornale si occupò esclusivamente di notizie relative alla corte austriaca e si chiamava WiennerischeDiarium. Una delle testate che ora aspira al titolo di giornale più vecchio del mondo è la Gazzetta di Mantova, fondata nel 1664 ma con altro nome, vale?, e poi chiusa a più riprese sia in epoca napoleonica che fascista. Difficile stabilire un criterio.
Molto molto molto più dispiaciuto (non più, perché di là non ce n’è, solo dispiaciuto) per la scomparsa di Francesco Nuti, memorabile con i Giancattivi. E oggi ingiustamente oscurato.
Lui, Benvenuti e Cenci costituirono un gruppo comico surreale di cabaré davvero spassoso, li ho molto amati in Ad ovest di Paperino, film che ogni tanto riguardo e me la rido. Lui, Nuti, fece poi cose sue, film e canzoni, con grande successo ma io preferivo la vena malincomica, come si diceva, di Benvenuti. Ma era bello averlo in giro, il Nuti. Sfortunato, sfortunatissimo, poi. “Scusi, mi da’ TuttoSport?”. “Ma se si da tutto a te a noi che ci resta?”.
Ha scritto ieri Alexis Petridis sul Guardian a proposito di Andy Rourke: “Rourke era dotato come bassista tanto quanto Marr lo era come chitarrista. Ascoltate attentamente i dischi degli Smiths, le prove sono tutte lì. Rourke aveva sviluppato uno stile complesso ma fluido, come diceva lui, per ‘compensare per eccesso’ il fatto che la band avesse un solo chitarrista. Nel brano Heaven knows I’m miserable now del 1984 o in The headmaster ritual dell’anno successivo, il suo basso e la chitarra di Marr s’intrecciano con una destrezza sorprendente. Su This charming man Rourke lavora in tandem perfetto con uno dei riff di chitarra più famosi nella storia del rock alternativo, trascinando la canzone”. Anche senza ascoltare attentamente. Accidenti.
Ma porcocane, Michela Murgia, che brutta notizia. Una persona intelligente, un’intellettuale per davvero che si interroga e non si tira indietro quando deve, una persona sensibile e interessata al contesto umano e materiale in cui vive, una donna che ha vissuto e vive molte vite, scrittrice, studiosa di teologia, operatrice in call center e così via, politicamente dalla parte giusta, ma porcocane. Noi, io, abbiamo bisogno di persone così, e anche i melonisti salvinisti menefreghisti, anche se pensano di no e sono incapaci di compassione. Michela Murgia, nome e cognome perché non ti conosco di persona, donna che sono sempre stato contento ci fossi anche se non ti seguivo da vicino e non sono mica d’accordo con te in buona parte delle cose, oh, che anche in questa occasione hai detto cose intelligenti e di cui c’è gran bisogno – no alle metafore di lotta e combattimento nelle malattie, per esempio -, Michela Murgia, ti auguro tutto il bene di cui sono capace, qualsiasi sia il tuo percorso sperando ovviamente nel meglio, e se mi verrà in mente qualcosa per essere più utile, lo farò.
«Può esserti utile sapere come riconosco io il fascismo quando lo incontro: ogni volta che in nome della meta non si può discutere la direzione, in nome della direzione non si può discutere la forza e in nome della forza non si può discutere la volontà, lì c’è un fascismo in azione. In democrazia il cosa ottieni non vale mai più del come lo hai ottenuto e il perché di una scelta non deve mai farti dimenticare del per chi la stai compiendo. Se i rapporti si invertono qualunque soggetto collettivo diventa un fascismo, persino il partito di sinistra, il gruppo parrocchiale e il circolo della bocciofila». (Da un post sul profilo ufficiale FB, 2 settembre 2017)
Per citarne una, a noi le teste così servono. Pensanti.
facciamo 'sta cosa
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