Una persona cara, non saprei se chiamarla un’amica, una persona cui sono di certo riconoscente e cui voglio bene, è in Ucraina. È lì perché è il suo paese, è lei che negli anni mi ha sempre parlato di una guerra in Ucraina e io, lo devo dire, ho sempre sottostimato le sue parole, pensando all’occupazione successiva al 2014. No. Lei è là perché ha fatto una scelta, una di quelle quasi definitive, è infatti entrata in convento. Non so esattamente dove, diciamo nella zona di Leopoli. A settembre, quando ha finalmente deciso, era contenta, convinta di sé. Ci siamo sentiti poi poco, qualche messaggio qua e là, qualche augurio alle date comandate, perché il convento ha le proprie regole, e ci mancherebbe. Dall’invasione, ci siamo sentiti più spesso, può evidentemente utilizzare di più il telefono, è necessario. Non immagino cosa significhi sentire le bombe precipitare, non riesco a quantificare la preoccupazione per la famiglia che lei ha, provo compassione e sono preoccupato. Lei mi risponde gentilmente con voce tesa ma pacata che al momento non c’è da preoccuparsi, io invariabilmente insisto proponendole ospitalità qui, per lei e famiglia, garantendole ogni appoggio, lei con pazienza mi dice ogni volta che non ha intenzione di scappare.
Non posso certo io dirle quel che dovrebbe fare, le mie sono supposizioni, frasi fatte, non so cosa significhi abbandonare la propria casa, natale o adottiva, materiale o spirituale, per causa di un invasore. Non lo so ma provo lo stesso a dirle ogni volta che se dovesse avere bisogno, ci sono, ci siamo. Lei lo sa, credo dai e dai l’abbia capito, al momento non ha intenzione di chiedere, né per sé né per i suoi. E poi, conclude le nostre conversazioni con la frase di rito: «il Signore provvederà». Già.
Mica posso discutere il Signore, quello con la esse maiuscola, tantomeno con lei, che è una professionista. Non solo non ne avrei la capacità, ma non avrebbe nemmeno senso, mi dico. Perché dovrei cercare di scalfire la sua fede, di insinuare un dubbio proprio in questo momento, quando lei ne ha probabilmente più bisogno? E in nome di cosa? Di una ragionevolezza che per me, qui, seduto al pc in casa mia preparando la cena mi pare avere tutta la fondatezza del mondo? Però sono preoccupato, quante volte mi sono chiesto se sarei in grado di capire il momento in cui è il caso di scappare, quel momento oltre il quale non è più possibile farlo. Quante volte mi sono chiesto perché di fronte a catastrofi così evidenti le persone non siano scappate per tempo, penso alla Germania del 1933, per fare un esempio concreto. La risposta è facile, le cose non sono mai così semplici né evidenti e le persone non sono sciocche, ciò che non è avvenuto è perché non poteva avvenire, almeno non come lo immagino io. E la risposta è, inoltre, no. Non saprei riconoscere il momento per scappare, l’ultima occasione. Io, come loro, non lo riconoscerei.
Allora provo a insistere, devo provarci, lei chiude il discorso. Il Signore, ci penserà lui.
L’ultima volta sono andato oltre. Senti, le ho detto, sebbene io sia del parere diverso è giusto che tu pensi che provvederà il Signore a te, ai tuoi cari, al tuo paese, immagino. E se, le ho chiesto, e se fossi io il modo in cui il Signore sta provvedendo a te? Se io – io come chiunque altro, sia chiaro – fossi l’inconsapevole mezzo con il quale ti viene offerta una via di sopravvivenza o, almeno, di vita migliore, temporanea? Tace. Non ti aspetterai che si manifesti di persona per dirti che quella è la via e dandoti indicazioni su cosa fare, vero? Lo sappiamo entrambi che, comunque, non agisce così, la maggior parte delle volte, secondo quanto dicono. Se io fossi il gessetto sulla lavagna di un disegno più grande? Tace ancora un po’, poi taglia corto, «siamo nelle mani del Signore, sarà quel che sarà». E bon, ci risentiamo. A volte guardo le date delle ultime connessioni per sapere che si è collegata, quindi immagino stia bene, spero. Almeno ha la connessione e c’è, mi dico.
Poi sto lì, ci ripenso, e mi dico che potrei anche essere un inconsapevole mezzo per portarla alla rovina, per farle fare la scelta sbagliata, dal punto di vista delle possibilità è esattamente la stessa cosa. E mi richiedo, ancora: è il momento di scappare, l’ultimo? Dovrei insistere? Cosa potrebbe comprendere in più grazie alla mia insistenza? Nulla. È quello che mi dico, nulla. Perché è un dilemma, lo sarà finché le condizioni non peggioreranno o miglioreranno a tal punto da chiarire la bontà di una scelta, non c’è soluzione. C’è la sua soluzione, quello che deciderà di fare e nel momento che riterrà giusto, impossibile dirlo da fuori. Che poi, ci penso, è quel che dice lei: provvederà qualcuno o qualcosa. Cioè a un certo punto qualcosa cambierà e lei agirà di conseguenza. È giusto. E con che diritto, io, qui, faccio pressione perché faccia una cosa o un’altra? Avrà ben altre preoccupazioni più importanti del parlare con me, del mio dialoghino teologico da balera, vivaddio?, le tirano i missili vicino. Lo sa che se ha bisogno qui c’è posto, basta, mi dico. Sì, va bene così. Provvederà, magari lei stessa. Mi metto quieto.
Poi, dopo qualche giorno, la sento. E insisto di nuovo.