oops, I did it again

L’ho fatto di nuovo. Ups. Amburgo, che credo sia la quarta volta in cinque anni, e i Metric, come a ottobre 2018. Stavolta, su Reeperbahn, che è quel posto pieno sì di club a luci rosse che i tedeschi del sud reputano il più pericoloso della Germania ma che è, anche, un posto favoloso per la musica, con decine di luoghi per cui c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ed era già così nel 1960 quando debuttarono i Beatles, il primo di 281 concerti qui con ancora quegli altri batterista e bassista. Posti piccoli, buon contatto, cito Dropkick Murphys, Brian Johnestown Massacre, Lee Fields, Panic! At the Disco solo nei prossimi giorni. Per dire.
E notevole il Mojo club, nuovo per me, che prima non c’è:

E poi sì:

Non starò ancora a dire bene di Amburgo, diventerei ripetitivo, ma vigliacco cane uno o una che mi scriva ehi, sono stato/a ad Amburgo, grazie della dritta, niente, andiamo avanti così, a far le code in A4 per Gardaland.
Ups, l’ho rifatto davvero per intero. Ho pigliato il treno, che ci mette meno di un’ora, e me ne sono andato di nuovo a Lubecca a respirare l’aria del Baltico nella regina della Lega Anseatica, proto-Europa unita che dovrebbe eccome essere obbligatoria nelle scuole, modello da replicare. E lì, per celebrare la Lega, mica le cretinate locali, Lubecca, il Baltico e, infine, me, sono tornato a mangiare nella sala dei mercanti locali a mangiar le aringhe d’obbligo tra polene e modellini di navi commerciali.

Tosta, la carne d’aringa, bella compatta. E fredda, come si conviene, con le cipolle. Si poteva navigare fino a Königsberg prima di digerirle. Comincia a diventare un rito, Amburgo, Lubecca, Schiffergesellschaft, Metric, devo dire tutto nella misura giusta.
Sì, poi me ne sono andato a Lüneburg, stessa distanza ma a sud di Amburgo, nella Lega perché loro avevano il sale, preziosissimo, c’è persino un museo dedicato. Ma questa poi diventerebbe un’altra storia e, chissà, magari la diventerà.

cioè voi avete le piste ciclabili?

Ad Amburgo si aspettano neve e, con naturalezza sempre sospetta, ecco che spargono il sale per strada.

Strada, beh, piano: sulle piste ciclabili. Ovvero, invece di spalare la neve quando ci sarà proprio accumulandola sulle piste, mettono il sale. Prima. Resto di sale.
Poi possiamo parlarne all’infinito, discutere sulla freddezza dei rapporti umani, sul fatto che magari i germanici ti deportino per un modulo sbagliato, può essere, ma su quel livello di vita civile da zero a dieci, sono imbattibili. E io voglio quello, perché quello fa svoltare per davvero la giornata e diffonde qualità di vita tangibile.
Amburgo, tra due settimane arrivo.

I am yours, you are mine, you are what you are

Ragazzino, ero in un camper negli anni Ottanta, su una strada assolata come sempre accadeva nelle nostre lunghe estati girovaghe. Ero seduto davanti, allora si poteva, e si passava il tempo giocando, cantando, ridendo, commentando ciò che la strada offriva. E poi, se c’era l’autoradio o magari un mangianastri portatile, si ascoltava qualche cassetta o radio occasionale. In quel giorno d’estate, il nostro amico E. prima mi parlò di un gruppo, accennò un ritornello, “doo-doo-doo-da-doo”, e poi mi raccontò la canzone perché non avevamo l’autoradio. La cantammo a lungo, a pezzi, quel che sapevo l’avevo imparato lì. Una volta a casa, poi, parecchio dopo, mi prestò il disco e io mi innamorai. Era la mia musica, non che capissi granché, ma lo spirito positivo che percepivo, l’ottimismo e l’entusiasmo per le persone, le relazioni, il mondo, l’atteggiamento giocoso anche nei confronti delle cose serie e dolorose, la consapevolezza, quella tristezza produttiva e quella malinconia sottile che permettono la comprensione della vita, le melodie cantate con piacere, lo stare insieme, la politica attiva e le prese di posizione, quello volevo fosse il mio mondo.
E così è stato.

Era Suite: Judy Blue Eyes di Crosby, Stills and Nash con quel cantato alla fine tutti insieme e io bam! conquistato per sempre. Poi arrivarono Marrakesh Express, altra folgorazione, Teach Your Children, The Lee Shore, Carry On, Right Between the Eyes, Love the One You’re With, Southern Cross, Cathedral, Guinnevere, Wooden Ships, Lady of the Islands, You don’t have to cry e potrei andare avanti parecchio, fino alla mia preferita di sempre: Helplessly Hoping. Da lì si spalancarono mondi, gli stessi Stills e Crosby, anche Nash, dai, con Our house, i Buffalo Springfield, Neil Young, la west coast, i Jefferson Airplane, Cat Stevens con lo stesso spirito positivo, e così via. Una vita, la loro, la mia, la nostra. Che meraviglia.

Ieri David Crosby se n’è andato verso una costa ancor più lontana, la sua croce del sud, spero piena di quel sole, di quella musica e di quell’impegno che tanto gli piacevano, e sì, anche di tutto ciò che faceva stare insieme le persone a parlare, cantare, volersi bene, aspirare alla giustizia sociale. E alla pace.
Sto sentendo ora la sua voce cristallina in Suite: Judy Blue Eyes che emerge dai cori, che meraviglia, ogni volta è una grande compagnia, molte le suggestioni, la mia mente corre fantasiosa ancora adesso. Chiaro, erano Crosby, Stills and Nash, da allora ogni volta che ne ho desiderio metto su un loro disco, oggi accendo spozzifai, l’emozione è forte e la spinta emotiva non diminuisce. Ma Crosby, Stills and Nash io non li ho mai visti – un altro concerto mancato, lo so – e non li conoscevo di persona, ho accolto le loro canzoni e li apprezzo, direi che sono loro riconoscente, senz’altro, ma non troppo di più. Ma chi mi spalancò quel mondo, quelle idee, quel comune sentire di cui parlavo all’inizio, chi mi ha mostrato un’umanità di cui ho sentito subito di voler far parte è stato il nostro amico E., quel giorno e mille altre volte. Ecco, è lui il mio Crosby, Stills and Nash, il mio Crosbystillsandnash, è lui che incarna tutto ciò, ancora oggi. E anche oggi, quando ci siamo scambiati il dispiacere per la scomparsa di David Crosby, sono stato contento di condividere con lui questo comune sentire e di avere dentro di me, da parte mia, tutta la gratitudine per avermi accompagnato in quel pezzo di mondo e di storia, per essere stato ed essere tuttora il mio Crosbystillsandnash.

trentaquattro in un colpo solo

Già, perché il 4 apre al Rijksmuseum una retrospettivona su Vermeer che sarà più di un’occasione per vederlo tutto insieme. Il geografo, la suonatrice di liuto, la pesatrice di perle, per dire, tutte opere che toccava girare per il mondo per vederle, saranno tutte insieme. E poi la Donna che legge una lettera davanti alla finestra, bello restaurato con il cupido sul muro. Succulento, ci sarò, Jan.

accoppiamenti giudiziosi

Se siamo tutti molto contenti dell’uscita del libro di confessioni del tizio Harry, potendo così finalmente leggere le rivelazioni sconvolgenti sulla famiglia reale e i suoi pessimi congiunti tizio Carlo e tizio William, non posso che gioire ancor più per l’accoppiamento in vetrina di questa libreria, che suggerisce senz’altro l’acquisto anche dell’altro libro.

Ma non a noi, a lui che è lì presente col faccione, ne trarrebbe giovamento e utilità.
Ma anche noi, a pensarci, se lo facesse per davvero. Gliene si spedisca una copia, presto.

la nuova arte dei giovani belgi

Certo, Carlo V, san Bavone, i van Eyck, ma non solo a Ghent: lungo i canali mi imbatto in una casa che attira la mia attenzione, semplice ma elegante art nouveau-jugendstil, ben recuperata, persino i serramenti sono quelli, ogni cosa al proprio posto. D’altronde, Victor Horta era di qui.

Vale la pena metterla a memoria: si tratta di Verniers House, costruita da Georges Hendricks nel 1904, e particolare per l’uso dei colori, l’arancione brillante e il giallo, probabilmente enfatizzati dalla ristrutturazione recente. Ci sono altri esempi di liberty in città, uno dei più significativi è senz’altro Hoecke-Dessel House con la sua porta semicircolare. Ma a me piace questa, anche con le bizzarrie nipponeggianti accanto alle finestre in alto.

per il centenario della nascita di Luciano Bianciardi

Luciano Bianciardi, arrivato alla Feltrinelli, all’inizio non guadagnava molto e faceva una vita piuttosto grama, mentre l’editore era spaventosamente ricco di famiglia. Ciononostante, Feltrinelli teneva molto ad essere considerato un semplice lavoratore della casa editrice al pari dei suoi dipendenti, e si era attribuito il cartellino numero 1 (ovviamente nessuno si sarebbe azzardato a controllare se regolarmente timbrato o meno).
Una sera si presentò ad una riunione, appoggiò il suo bellissimo cappotto di cammello di fianco a quello di Bianciardi, voltato e rivoltato più volte, e cominciò a parlare di giustizia sociale e lotta di classe, per due ore.
Alla fine Bianciardi, non potendone più, si alzò – gelo, perché non ci si poteva alzare quando parlava il padrone – guardò quel suo cappotto liso, batté la mano sul tavolo, prese il cappotto del Feltrinelli, se lo infilò, si pavoneggiò un attimo, si voltò, poi alzò il pugno e disse: viva la lotta di classe, e uscì.

Bianciardi, uno dei miei grandi amori.
(Grazie C.).