Dov’era e com’era (il terremoto e io quarant’anni fa)

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Il giorno dopo (o giù di lì) il terremoto in Friuli, mio padre partì come volontario, per andare a dare una mano a ricostruire tutto «dov’era e com’era». Già questo per me sarebbe bastato per ammirarlo di più. Ma fece di meglio: mi chiese qualche mio giocattolo – ero piuttosto piccolo – da regalare a qualche bambino della mia età che li avesse persi per il terremoto. E non solo: dovevo scegliere uno o due giocattoli cui ero affezionato, non dei quali mi volessi liberare.
La cosa non fu semplice perché mi mise di fronte alla mia fortuna e alla sfortuna altrui, all’egoismo e alle scelte migliori, sebbene non del tutto consciamente. Scelsi un caleidoscopio, che era il mio gioco preferito, qualcos’altro che non ricordo e, allora non lo sapevo, in quel momento imparai moltissimo, diventai una persona migliore. E fui (come sono) enormemente fiero del mio papà.

l’incendio (…) che non si riuscirà più a domare

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E oggi sono trent’anni, anche se il 26 aprile del 1986 ancora non lo sapevamo.

Ci dissero, giorni dopo, di non bere l’acqua piovana, di bere solo latte a lunga conservazione confezionato prima del 2 maggio (il 2 maggio, sì!), di non mangiare verdura fresca a foglia larga. Ma non bastava, la Protezione civile – nel più completo deliquio di quei giorni – prescrisse di tenere le finestre chiuse e di uscire il meno possibile, di non usare i condizionatori. Sembra, a ripensarci tempo dopo, di leggere uno di quegli opuscoli del tempo della guerra atomica, che suggerivano di nascondersi sotto il tavolo in caso di scoppio di bomba termonucleare nelle vicinanze. Certamente.

Lo ricordo benissimo, ci consigliarono anche di non andare in giro con le scarpe slacciate, in particolare a noi ragazzini. Perché le stringhe avrebbero raccolto la radioattività.
Questo era il contesto in cui la popolazione italiana veniva protetta, non stupisce quindi che ancora oggi le notizie del disastro siano incerte e fumose: in quei giorni regnava il caos, non fosse stato per le rilevazioni svedesi ci avremmo messo molto di più a sapere.
Per chi volesse, il testo attualmente di riferimento è: Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobyl’. Oppure, meno recente ma concentrato sui fatti alla centrale: Piers Paul Read, Catastrofe. La vera storia di Chernobyl.

Da allora, e non credo sia una banalità dirlo perché è vero, non vedemmo più le cose nella stessa maniera.

memoria: una cosa da fare

Avendo già visitato Buchenwald e Dachau, avendo già visitato la risiera di San Sabba, avendo letto Primo Levi, Pahor, Schneider, Jonas, Debenedetti, Liblau, Goldensohn, Steinbacher, Venezia, Wiesenthal, Höss, Goldhagen, Hillesum, Pilecki, Frank, Wiesel negli ultimi anni, avendo fatto tutto questo ero indeciso se andare a visitare Auschwitz o meno. Pensavo di averne tutto sommato un’idea, di sapere molto e che non avrei visto nulla che – più o meno – non sapevo già.

Poi ci sono andato comunque, quest’estate. E pensavo di essere pronto.

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Prima ad Auschwitz e poi a Birkenau (Auschwitz II).

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E lì ho visto il pasto di un intero giorno (il cubo in alto a sinistra lo chiamavano formaggio ed era per lo più segatura).

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Ho visto i volti delle persone.

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Ho visto gli appunti di Mengele.

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Ho visto l’incommensurabile (sono scarpe, e sono le scarpe dei soli ultimi due mesi di deportazione).

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Ho visto il patibolo sul quale fu impiccato Höss, a fianco della sua villa sontuosa.

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Ho visto la crudeltà.

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Ho visto l’abominio.

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E ho capito che non sapevo ancora niente.

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Andateci, vi prego, e portateci più persone che potete. Portateci i ragazzi. Lo so, farà male, malissimo, avrete incubi e pensieri orrendi ma è proprio questo che va fatto, a quello serve. Non pensate di sapere già, non è vero.
Troverete però persone come voi lì per lo stesso motivo, troverete guide nobili e coraggiose, troverete vita dove un tempo c’era solo morte.
Andateci, non sarete più gli stessi. Sarete migliori, come spero di esserlo io.