In ospedale, in reparto, un sussulto di consapevolezza.
Perdio sì.
In ospedale, in reparto, un sussulto di consapevolezza.
Perdio sì.
Ormai solita manfrina di Meloni che, in occasione oggi dell’anniversario dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, riesce a dire: «terribile massacro perpetrato dalle truppe di occupazione naziste», travisando i fatti e la storia come sempre in maniera strumentale, esattamente come l’anno scorso per i «335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani» ed evitando a ogni costo i termini, e i concetti che stanno lì dietro, «fascismo» e «antifascismo». Che bello sarebbe un po’ di Vergangenheitsbewältigung, il superamento del passato facendoci i conti, le cose sarebbero un poco più compiute. Anche per essere una destra più credibile, moderna, liberale. Ma no, niente, restano coi bustini.
Ieri, come da successione degli eventi di allora, l’anniversario dell’attacco di via Rasella. Gli spari dei soldati nazisti – non suonatori – a casaccio verso le finestre stanno ancora lì su un solo palazzo all’angolo con via Boccaccio, si possono vedere finché ci saranno.
Mentre Meloni e cameratini omettevano, come sempre, si è svolta invece una bella biciclettata antifascista sotto il sole di primavera, che scaccia sempre i fascisti. Fino alle Fosse, dove persone di buona volontà e buona memoria hanno ricordato i trucidati. Ebrei e antifascisti, lo dico?
La faccenda è un po’ passata in cavalleria, torna a ondate, oggi è solo nelle pagine milanesi del Corriere come fosse storia locale. Meglio il posizionamento di Repubblica, in alto, che propone un giusto approfondimento, “La strage di piazza Fontana spiegata a chi non c’era“, peccato sia in abbonamento e arrivederci allo scopo di spiegare qualcosa a qualcuno. Che non è certo abbonato, pirlette.
Non sono mai sicuro di cosa sia bene, alla fine che la stagione in cui si mettevano le bombe in banche e stazioni e in cui si sparava alle manifestazioni sia definitivamente passata e che, di conseguenza, la si ricordi meno, non è del tutto un male, mi dico. Certo, il fascismo, la memoria, per carità, noi stessi però conosciamo e ricordiamo sommariamente le vicende della Resistenza e degli eccidi fascisti e nazisti e non è detto che si partecipi come si dovrebbe e, allora, cosa pretendere dai ventenni di oggi? Che conoscano le dinamiche di Portella della Ginestra? E così indietro, fino alle guerre puniche. E Bixio? E Bava Beccaris? Che eran meno giuste quelle cause? No ma chiaramente non voglio mescolare tutto nel calderone, poi sorgono le repliche fastidiose (e i marò? e il PD?), vorrei dire che la memoria trascende inevitabilmente le durate delle vite umane, o delle fasi di esse, e piano piano tramonta; diventa necessario scegliere le cause e le battaglie, tenerne vive alcune più di altre. Piazza Fontana, per molte ragioni, è una che varrebbe la pena tenere viva.
Tra le tante fotografie che non ho mai stampato, ne saltano fuori talvolta alcune dell’alluvione del Po del 1994.
In realtà furono Tanaro, Orco e Dora Baltea, gonfi della pioggia di quei giorni ed esondati ovunque, a ingrossare enormemente il Po che uscì in modo disastroso dagli argini in Piemonte e Lombardia per chilometri e chilometri, parecchi morti. Questa foto la scattai nel pavese, poco dopo il ponte della Becca alla confluenza col Ticino, altissimo anch’esso, era acqua a perdita d’occhio, arrivò a pochi metri da casa nostra e sommerse borghi e parti di città. Si temette per tutti i ponti, molti crollarono. Ricordo le settimane successive, fuori dai paesi i cumuli di rottami, mobili e oggetti da buttare, conservo ancora una sveglia presa dal mucchio a San Zenone al Po.
Anche quest’anno il cinque dicembre morì Mozart.
Animo libero, spirito progressista, vero primo professionista indipendente nella musica, demente a tratti, infantile e geniale insieme, come non apprezzarlo sia come persona che, ovvio, come musicista? Per questo lo ricordo il cinque. Capace di sontuosità musicali e di pensiero, «Viviamo in questo mondo per imparare e per illuminarci l’un l’altro» e di luminose verità, «Insomma, quando ci si è svuotati, la vita torna a sorridere». Quali siano le une e quali le altre, a ciascuno secondo.
Il primo dicembre di cento anni fa il crollo della diga del Gleno.
La sera prima era così, ultimata da pochissimo.
Piena piena per le recenti piogge e nevicate, ai tentativi di svuotamento l’acqua cominciò a filtrare da sotto la parte aggrappata alla roccia, quella poi crollata, e il guardiano durante la notte vide una crepa che si allargava a vista d’occhio.
Alle 7:15 del primo dicembre 1923, la diga crollò. Sei milioni di metri cubi di acqua scesero per la valle, trascinando con sé qualsiasi cosa sul proprio percorso, arrivando al lago d’Iseo quarantacinque minuti dopo. Le vittime accertate furono 356 ma il numero è incerto.
Nessuna disgrazia ma successione di crimini. Un interessante resoconto fotografico realizzato da Fondazione Musil con materiali messi a disposizione dall’archivio Negri qui. E il volume che ricostruisce l’intera storia appena pubblicato, disponibile integralmente (grazie D.).
Qui sopra la diga com’è ora ed è, nonostante l’accaduto, un bellissimo posto dove andare cento anni dopo.
Oggi son sessanta che quel sasso cadde nel bicchiere d’acqua e tutto uscì sulla tovaglia e lì c’erano le persone bricioline.
Io il mio l’avevo raccontato qui. Lunedì prossimo a risentire Paolini che rifà quella cosa là del 1997, sono emozionato.
Stasera ‘Io capitano’, il coraggioso film di Garrone.
Straziante quanto strepitoso, pieno di umanità e terribile, è il modo giusto di raccontare le cose: senza enfatizzarle – e già di per sé sono tremende – e senza cadere nella tentazione di toccare il lato italiano dell’accoglienza o del respingimento, così da non offrire facili sponde per liquidare l’intera questione come argomento di parte. Nonostante siano vicende note, vederle in fila, in un susseguirsi di brevi intervalli di sfruttamento in ogni passaggio del percorso, legate dalle vite dei protagonisti colpisce dritto tra la gola e lo stomaco, e il magone ancora non è passato. Io lo renderei programma scolastico, poi discutiamo – legittimamente – delle modalità di accoglienza ma prima lavoriamo perché ciò non accada e trattiamo chi compie questo viaggio con rispetto, compassione e, se possibile, affetto. La figura del profugo muratore che dicendo così poco ma con sguardi paterni si prende cura del protagonista è commovente, recitata con grande bravura tra la bravura di tutti gli interpreti.
A margine, per coloro cui servisse ancora, numeri alla mano la dimostrazione che la presenza delle navi delle ONG non contribuisce ad aumentare le traversate via mare (il cosiddetto pull factor su cui il governo insiste non avendo argomenti) e un’utile quanto opportuna sintesi dei luoghi comuni sulla questione-immigrazione, uno per esempio: «I partiti della destra italiana ripetono spesso che l’Unione Europea non sta facendo abbastanza per aiutare l’Italia, lasciandoci ‘soli’ nella gestione degli arrivi. In realtà sono proprio i paesi tradizionalmente alleati con la destra italiana, ossia la Polonia e l’Ungheria, che si oppongono a ogni riforma strutturale del sistema di accoglienza comunitario che includa una qualsiasi forma di redistribuzione dei migranti».
Andate al cinema a vederlo, così diamo anche qualche numero come presenze. E poi se ne parli, lo si racconti a chi non andrà a vederlo, si provi, io per primo, a farne azione.
Quella qui sotto è una delle fotografie che possediamo della famosa breccia di Porta Pia, tutta a destra, ovvero la parte delle mura aureliane di Roma che fu abbattuta dai bersaglieri il 20 settembre 1870 alla presa di Roma.
Il Papa promise scomunica, mandarono avanti un giovin ebreo. La storia è sapida e breve, l’ho già raccontata; volevo aggiungere la foto, davvero notevole, di Lodovico Tuminello che documentò di persona i fatti.