C’è il modo senza pensarci troppo
e il modo più bello
Che poi uno entra anche solo per quello. A meno che non significhi che può entrare solo Johnny, magari.
A Berlino nel 2016, chissà se c’è ancora.
C’è il modo senza pensarci troppo
e il modo più bello
Che poi uno entra anche solo per quello. A meno che non significhi che può entrare solo Johnny, magari.
A Berlino nel 2016, chissà se c’è ancora.
E via, fuori dalle balle anche questa estate, sono sopravvissuto al «ritorno della crochet mania» e a Barbie, meno alle intemperie di luglio, ancor meno alla scomparsa di Sinéad O’Connor. C’è parecchia della sua musica in questa compila stagionale, avrebbe dovuto essere di più. Non è che, complessivamente, sia stata una grande estate, anzi. Voglio dire, ha avuto i suoi momenti belli, non pochi, i viaggi girovaghi, le belle compagnie e tanto altro ma il bilancio, alla fine, tende al meno, per colpa di alcuni. Quindi la compilona ne risente, non che sia triste, anzi, ma le scelte fatte da scocciati o addolorati non sono particolarmente esaltanti. Comunque meglio l’ultima parte, eccola qui.
Tre ore e mezza, il tempo esatto per andare da Settecani a Sassuolo per la provinciale 467, passando dal Pizzikotto, chiaramente a piedi con le cuffie. Più nomi noti del solito, qualche nuova uscita, parecchi recuperi da album del passato ascoltati finalmente con un po’ di cura, più ripetizioni del solito ma a chi cale se non a me?
Le compile vere e proprie: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore) | estate 2022 (42 brani, 2,33 ore) | autunno 2022 (71 brani, 4,5 ore) | inverno 2022 (70 brani, 4,14 ore) | primavera 2023 (74 brani, 4,23 ore) | estate 2023 (53 brani, 3,31 ore) |
E buzza buzza tutte le copertine:
Avanti con la ventiquattresima stagione, non appena supero i Simpsons punto dritto a Sentieri. Ci risentiamo a dicembre, verso la fine, cercando magari di non cadere nelle doline ricoperte di foglie autunnali e nelle trappole che per sua natura normalmente Battiato attirerà.
Alle 08:49 del giorno d’oggi l’estate se ne va a quel paese ed entra l’autunno, miglior stagione di sempre se condita con burro, polenta e Huey Lewis & The News.
Ma come funzionano le stagioni, trivigante? mi chiedono. La terra entra nell’epiciclo discendente percorrendo l’orbita coassiale, diminuendo la velocità di tangenza come sempre succede nella parte apicale dell’anno. Così facendo, il vertice azimutale del percorso non è più, come d’estate, il risultato dell’inclinazione dell’asse diviso per l’attrazione geofisica, bensì il fattoriale controintuitivo di dodici per trecentosessantacinque alla quarta. Da cui ne consegue, mi si perdoni la banalità, l’arrivo dell’autunno. E della mia duplice missione a sentire Natalie Merchant su su su nell’isolona, cosa può andare storto?
E un altro servizio di trivigante.it è stato felicemente erogato, molto bene. Vestitevi di zucca, seguite i consigli di Loureed in New York e state, stiamo tutti lontani invece dalle persone che non fanno il bene dell’attorno.
Me ne sono capitati due, finora, e curiosamente entrambi belgici. Forse non è una coincidenza.
Sto parlando di film veri e propri, lungometraggi con attori e, ehm, una trama girati allo scopo di promuovere una città e le sue bellezze architettoniche e artistiche. Si capisce fin dal titolo e ogni inquadratura o quasi è un esterno e un dialogo estemporaneo non perde l’occasione di spiegare cosa si stia vedendo e quanto, ovviamente, sia bellissimo. Non si tratta di film latamente promozionali come potrebbero essere tutti quelli ambientati a New York, sono proprio film girati a quello scopo, in cui la trama rasenta il ridicolo e ogni accadimento del film ha l’unico scopo di collegarsi a qualche elemento della città.
Il primo film che ho visto è ‘In Bruges’ ed è, strano, ambientato a Bruges. Lo dico bene: ‘In Bruges – La coscienza dell’assassino’, di McDonagh del 2008. Storia di due sicari e del loro capo, il cast è notevole, Colin Farrell, Brendan Gleeson, Ralph Fiennes e la trama ha una sua qualche consistenza, essendo tratta liberamente da ‘Il Calapranzi’ di Pinter. L’unica cosa pretestuosa è Bruges, però va detto che la promozione è smaccata ma, proprio per quello, anche abbastanza furba: perché mostrando le bellezze indiscutibili della città aggiunge qualche battuta disinibita che stempera un po’ il senso della marchettona: «accetterò qualunque punizione… carcere, morte… non ha importanza! Perché almeno in prigione o anche da morto non sarei più stato in questa cazzo di Bruges!», prosegue Ray: «Ma poi ho avuto come un flash… cazzo ragazzi, forse è questo l’Inferno: dover passare l’eternità in questa cazzo di Bruges. E allora ho sperato tanto di non morire. Ho sperato proprio tanto di non morire». Ahah. E non contento: «Se fossi cresciuto in una fattoria, e fossi ritardato, Bruges mi avrebbe impressionato ma non è così».
Purché se ne parli. Potrei andare avanti: «”Andatevene da Londra, deficienti rincoglioniti. Andate a Bruges”. Non sapevo neanche dove cazzo fosse, Bruges. È in Belgio». Confermo. Ovviamente quando c’è da cadere da una torre lo si fa dal Beffroi, quando c’è da inseguire lo si fa sui canali e via così, di scorcio in scorcio non casuale. Quantomeno, la levatura degli attori e il vago senso della trama danno una patina, minima, di credibilità all’operazione, tant’è che fu presentato al Sundance, marchetta, ed ebbe pure una nomination. Alla sceneggiatura, quindi a Pinter.
Il secondo film l’ho visto ieri sera a tripla velocità ed è ‘Un’estate ad Anversa’ di Hamacher, 2021, roba tedesca ma trasportata di là. Stesso scopo, la promozione della città, e francamente inguardabile. Non perché il genere sia, come dicono, romance, vabbè, ma perché la trama farebbe schifo a una sceneggiatrice di otto anni e non ha alcuna consistenza. Lei arriva con un lavoro di prestigio in tasca e un fidanzato biondo e inserito, che si capisce subito che sarà asportato chirurgicamente, una nonna alla ricerca di un’amica dispersa dalle vicende dell’Olocausto, e fin dal minuto due – della velocità normale – entra in scena l’altro, scapestrato gestore di una caffetteria con vespa che si capisce che prenderà il posto del biondo con la facilità con cui un gelato si squaglia in un forno. Lui, per nulla pretestuoso, inoltre fa la guida della città, così ha modo di raccontare parecchi aneddoti piuttosto inutili alla protagonista, alla nonna e alle amiche della nonna, tutte cotte a puntino e pronte a farsi sue.
Il film è talmente una baggianata promozionale che è distribuito liberamente, qui, e il lavoro dell’Ente del turismo è fatto. Ed è anche mica sbagliato, perché in effetti Anversa è affascinante non poco, c’ero qualche giorno fa e l’anno scorso, idem Bruges, e il film se visto a tripla velocità e se si sa i luoghi che sono e magari si sta lucidando il parquet, allora diventa pure accettabile. Magari senza audio. Io lo sapevo, l’ho guardato per quello e, comunque, se nel titolo c’è il nome della città già qualcosa si può subodorare; e sono contento di averlo fatto perché, modestamente, soddisfacevo le tre condizioni di qui sopra.
Ecco qua, niente premi o candidature per ‘Un’estate ad Anversa’, e ci mancherebbe, e sono i due film più smaccati a tema turismo locale che io abbia mai visto. Ne esisteranno altri o sarà, finora, una brillante intuizione belga e degli uffici promozione locali? Non so, al momento, il me del futuro lo scoprirà. O, magari, il me del passato lo sa già e non se lo ricorda.
Come al solito, lo scoprirò solo vivendo. Che è un po’ quel che conto di fare nei prossimi tempi anche, magari, a Bruges e Anversa.
No, te pare? Martedì prossimo simulazione di allarme:
Martedì 19 settembre alle 12 i telefoni cellulari in Lombardia saranno raggiunti da un messaggio di test IT-alert, il nuovo sistema di allarme pubblico nazionale.
Tutti i dispositivi agganciati a celle di telefonia mobile nella nostra regione suoneranno contemporaneamente, emettendo un suono distintivo diverso da quello delle notifiche a cui siamo abituati.
Blurp. Squott. Kazamm. Questo per la Lombardia, altrove è già successo o succederà. Poi tranquillizzano:
Chi riceve il messaggio di test non ha nulla da temere e non dovrà fare nulla tranne leggere il messaggio.
Io temo di NON riceverlo, questo temo. Che poi c’è la radiazione e a me non lo dite. A che servirà? A questo:
(…) informare direttamente la popolazione in caso di gravi emergenze imminenti o in corso, in particolare rispetto a sei casistiche di competenza del Servizio nazionale di protezione civile: maremoto generato da un terremoto, collasso di una grande diga, attività vulcanica (per i vulcani Vesuvio, Campi Flegrei, Vulcano e Stromboli), incidenti nucleari o emergenze radiologiche, incidenti rilevanti in stabilimenti industriali o precipitazioni intense.
Il maremoto generato da Godzilla o asteroide no, non compete. Siccome il timore è però una valanga di telefonate al 112,
un gruppo di ricercatori, dottori di ricerca e liberi professionisti nel campo della psicologia e dello human factor ha redatto alcuni messaggi, variando leggermente contenuto, registro linguistico e termini da sottoporre a una platea sufficientemente significativa di persone, per poi analizzare i feedback ricevuti e constatare quali messaggi venissero compresi meglio.
E questo è un bel tema, son proprio curioso di leggere. Comunque, io un avviso così l’ho già ricevuto tre settimane fa in Polacchia, era un avviso meteo:
Bravi, in inglese per telefoni stranieri. In Polacchia il genere di alerts è invece i giorni pari per sconfinamenti russi, in quelli dispari sono i tedeschi. Vabbè, che spirito.
Poi mi dico, ma pensa, dico pensa se il 19 succede qualcosa per davvero. Non è un test, non è un test, è un vero allarme. Seeee. No, cazzo, davvero DAVVERO, i messaggi. Mavaaaa. Certo che se poi dovessero cominciare a usarlo per le allerte meteo, vedi precipitazioni intense, toccherebbe pure bloccare il numero. Dai, lo so che non c’è il numero, era per amor di battuta. Interessanti anche le sperimentazioni per temi, i primi due suggeriti lasciano temere qualcosa:
l’esecuzione di alcuni test che hanno riguardato l’implementazione tecnologica, l’invio e la ricezione dei messaggi in vari formati, l’analisi dei primi feedback, come avvenuto durante le esercitazioni di protezione civile “Vulcano 2022” e “Sisma dello Stretto 2022”.
Suggerisco a seguire “Crollo Ponte sullo Stretto 2028”, “Anormalizzazione Vannacci 2024”, che poi fossi sulla subsidenza ai Campi Flegrei un po’ di scaramanzia la spalmerei sulle parti molli.
Sarebbe in definitiva molto bello infiltrarsi nel sistema e mandare qualche messaggio di quelli che dico io. Tipo: “Cosa stai facendo?”. Mmm, bello, questo già lo sognavo ai tempi dei pannelli a messaggio variabile in autostrada. “Guarda che ti vedo”, così, debbotto. E uno dall’altra parte a chiedersi, guardandosi attorno un po’ ansioso, non male.
Marie Curie o, come diciamo noi che cerchiamo di liberarci del patriarcato a costo di slogarci la lingua, Maria (Salomea) Skłodowska, visse pochino a Varsavia. Ci nacque, ci studiò un po’, poi andò a servizio dagli Zorawsk «a tre ore di treno e quattro di slitta da Varsavia» e poi, saggiamente, alla prima occasione se ne andò a Parigi a studiare e far fortuna, a ventiquattro anni nel 1891.
A Varsavia, appena fuori dalle mura della città vecchia, c’è la casa in cui nacque. Una bella casa, perché il padre Władysław fu scienziato, educatore e traduttore, la famiglia della piccola nobiltà terriera. Oggi la casa, ampia per ospitare la famiglia numerosa, è adibita a Museo Maria Skłodowska-Curie, eccola qui:
Bella, per carità, tutta ristrutturata a beige, forse con i fondi europei. Peccato, però, perché fino a qualche anno fa, la vidi per la prima volta nel 2015, la casa era non solo un po’ sgarruppata come si conviene alla vecchia Europa ma aveva in facciata, colpo di genio, disegnati due impertinenti radio e polonio che scorrazzavano come matti, liberati dalla provetta della scienziata.
Se il radio, Ra, 88, fu così nominato dal radius latino, il polonio, Po, 84, fu così chiamato per ragioni geopolitiche, per porre l’attenzione alla lotta per l’indipendenza della Polonia, alle prese per l’ennesima volta con l’occupazione russa. Nel 1911, Maria Skłodowska fu insignita del nobel per la chimica proprio per la scoperta e l’isolamento dei due elementi, dopo il primo nobel per la fisica del 1903. Intenzionalmente, non depositò il brevetto internazionale per il processo di isolamento del radio con la volontà di agevolare la ricerca scientifica, consapevole e delle potenzialità dell’elemento e della sua insita pericolosità. Che, tra l’altro, fu tra le cause della sua morte e del fatto che, ancora oggi, le sue spoglie sono chiuse in una bara di piombo al Pantheon e le sue carte conservate in scatole dello stesso materiale e possono essere consultate solo con una tuta protettiva.
Tornando alla casa, mi piaceva di più prima, con quei due cosi a correre tra le finestre. Per carità, non che lei, Maria (Salomea) Skłodowska, fosse una burlona, tutt’altro – ma tralascerei di menzionare i commenti di Einstein al riguardo, sicuramente eccessivi e dettati da una certa qual scadente consapevolezza dei rapporti tra i generi – e, quindi, forse il museo richiede maggior serietà ma è pur vero che qualche guizzo in più, anche gratuito, rende più attrattiva la scienza per noi poveri profani ignoranti.
Poco riuscito è il monumento poco lontano, che se si capisce cosa tenga in mano tutta la parte della tunicona meno, sempre in tema polacco mi ricorda la statua orinale del papa a Termini. È quel che succede, di solito, nei posti che celebrano chi se n’è andato presto e ha fatto fortuna altrove, vedi Salisburgo con Mozart, i ricordi sono un pochetto pretestuosi e mal riusciti. Val piuttosto la pena risegnalare un ricordo di Maria Skłodowska molto più valido, ovvero il film di Marjane Satrapi, Radioactive, dal fumetto di Lauren Redniss. Ne avevo parlato qui, insisto, proprio bello e commovente. Che così, guardando il film, si impara pure che Maria Skłodowska fu anche militante per tutta la vita e durante la prima guerra mondiale si pigliò su la figlia Irène, Nobel pure lei e io mi sento proprio idiota, attrezzò un’auto con una macchina per le radiografie portatile e se ne andò al fronte per salvare più vite possibile. Al fronte, capito?
Il Kunsthaus Graz, il blobbone di Cook e Fournier, ovvero il museo di arte contemporanea di Graz che di notte e durante gli avvenimenti si illumina variamente. Chiamato anche friendly alien, amichevolmente.
Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più cachinnica dell’isolato, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.
Novanta chilometri a sudest di Lublino, raggiungo Zamość con un regionale che ferma continuamente nel nulla. Finalmente, la mia destinazione era un segnalino verde sulla mappa delle cose da vedere ormai da parecchio, in effetti per raggiungere questo angolino di Polonia bisogna proprio averlo deciso. La storia è che Zamość è una di quelle città ideali fondate puntando il dito e tirando le vie con il righello. Palmanova, per esempio.
Jan Zamoyski, figura centrale nella Polonia della seconda metà del Cinquecento, divenuto tra le mille cariche anche ciò che oggi chiameremmo segretario di Stato del re di Polacchia, già possessore di svariate terre e città, decise di fondare una propria città secondo i canoni architettonici militari e di armonia del Rinascimento. Poiché aveva studiato a Padova, peraltro convertendosi al cattolicesimo e diventando rettore di una delle facoltà di giurisprudenza, apprezzava lo stile espresso dalla città e decise di portarlo al nord. Assunse un architetto padovano, per l’appunto, Bernardo Morando, cui commissionò il progetto della città e alcuni edifici rilevanti di essa. Zamość è una classica città rinascimentale con cinta di mura circolare, fossati e bastioni possenti, all’interno una piazza rettangolare circondata da palazzi di uguali proporzioni e grande bellezza e dominata dall’odierno municipio, strade a reticolo tutte della stessa larghezza e percorse da portici, alcuni edifici funzionali come la cattedrale, la caserma, l’arsenale e così via.
Qui la chiamano ‘la Padova del nord’ per ovvie ragioni. Ho dimostrato in un altro mio viaggio polacchico come sia invece Cracovia la Padova del nord, scritto qui, mentre Zamość è senz’altro avvicinabile a Sabbioneta, davvero simile anche per dimensioni. E come a Sabbioneta, una giornata intera è persino troppo, fatto il giro delle mura, percorsa ogni via del reticolo, osservata la cattedrale con attenzione, non resta che sedersi e mangiare. Anche perché come non è agevole arrivarvi, non lo è nemmeno andarsene. Comunque, sono contento di averla vista, essendo peraltro del tutto conservata e lo sviluppo contemporaneo avvenuto fuori dalle mura. Ed è qui, in questo angolino di Polonia a pochi chilometri dal confine ucraino che il mio viaggio ha la sua ultima destinazione, ora è tutto ritorno, a Lublino e poi di conseguenza. Per carità, ora un paio di giorni a Varsavia sono in programma ma è soggiorno finale, non più viaggio. Tutto facile, tutto comodo. E poi ci sono già stato, ne ho un buon ricordo nonostante, povera città, sia stata rasa al suolo prima, sovieticizzata poi e oggi si ritenti di darle una fisionomia decente. Ho anche un ricordo personale, ricevetti una bella notizia che poi, purtroppo, rimase notizia e non divenne fatto. Di Varsavia sicuramente è da ricordare, e celebrare, la sollevazione del ghetto contro i nazisti, una rivolta coraggiosa soffocata dall’aeronautica, troppa la sproporzione e per questo ancora più memorabile. La ricostruzione avvenne anche grazie ai quadri di Bellotto, precisi casa per casa, il centro storico oggi è così, rispettoso anche dei colori dei quadri. Ma, insomma, di Varsavia ho poco da dire, questa non è una guida e le informazioni si trovano facili. Oh, comunque: è una bella città, vivace. Non vorrei trasmettere un giudizio dimesso.
È stata, questa mia, ancora una volta un’esplorazione di una zona d’Europa che conoscevo poco, il filo conduttore l’essere a est e, per buona parte del viaggio, afferire culturalmente e storicamente all’impero austroungarico. In questo senso, l’ascolto di 1914 di Luciano Canfora è stato più che opportuno. A un certo punto, ho realizzato che stavo ripercorrendo le tratte dei prigionieri dall’Italia allo Spielberg, poi ho proseguito per quelle zone centrali d’Europa che sono molto più centrali, da sempre, di quel che riteniamo noi, periferici del sud. Tra le città viste, spicca senz’altro Graz per bellezza e completezza, poi notevoli Brno, Lublino, Ljubljana, dò per scontate Vienna e Varsavia, Zamość un piccolo gioiello, Maribor bella per contesto e posizione, Ostrava stupefacente per le dimensioni colossali dell’industria metallurgica di stampo sovietico.
Viaggiare in questo modo, di dettaglio se in Europa, e in queste zone, le meno comprensibili per quel che sappiamo noi in Italia, è un modo per sapere di più del mondo in cui vivo. Ed è una cosa che, è ovvio, mi piace. Non pretendo di essere capito in questo, ovviamente c’è chi capisce e condivide ma la maggior parte delle persone non dice nulla per gentilezza e si vede che non comprende. O non gli importa, è giusto. Telefonata, oggi: mi scusi ma sono in vacanza. Ah, mi faccia invidiare: dove? In Polonia. Silenzio. Ma per lavoro? Ahah. Anche al ritorno, qualcuno chiede come si fa dopo le vacanze e alla mia risposta poi tace. Se dicessi Bali chiederebbero. Anche per questi miei raccontini, me ne rendo conto, serve interesse per l’argomento, altrimenti devono essere ben noiosetti. La cosa buffa sarà quando tra alcuni giorni, a una pizza con amici, qualcuno racconterà di essere andato a Budapest e verrà ascoltato come l’esploratore eroe avventuroso, certi meccanismi mi restano davvero oscuri. Sarà che son curioso di tutto, sarà quello. Oppure che ne so, mica le devo capire io tutte le cose.
Ora è davvero il momento di andare a fare il tramontista sulla Vistola con i miei nuovi amici e celebrare la golden hour in compagnia. Perché ben concludere un viaggio è importante quanto ben iniziarlo.
Alla prossima, quindi, quando ci sarà occasione.
uno | due | tre | quattro | cinque | sei | sette | otto | nove |
Lublino. Con la elle. Ci arrivo attraversando un pezzo di Polonia orientale, ancora punteggiata qua e là di bei boschi di conifere e di pianura coltivata. Più su si possono visitare parti ancora intatte della foresta primordiale europea, abitata dal bufalo europeo, e qui, figliolo, nulla di quello che vedi sarà mai tuo: per restare agli ultimi duecento anni, fu Austria dal 1795, poi Napoleone ricostituì il granducato di Varsavia ma fu operazione breve, nel 1815 divenne Russia per un secolo, tornò Polonia nel 1918 per poi venire occupata dai nazisti nel 1939. E fu così che uno dei centri più importanti della presenza ebraica in Europe, sede di una scuola chassidica di studio del Talmud di grande tradizione, dodici sinagoghe in città, fu spazzata via in pochi anni. Dei quarantamila ebrei di Lublino, più di un terzo della popolazione cittadina, ne restarono decine, essendo diventata la Polonia meridionale e orientale il centro dell’operazione Reinhard. Il ghetto di Lublino non fu inizialmente chiuso ma le condizioni in cui quarantamila persone vivevano furono terribili perché strette in uno spazio estremamente ristretto. Poi, come a Varsavia e Lodz, le cose peggiorarono.
Nel 2005, le scuole della città si organizzarono e chiesero a tutti gli alunni di scrivere una lettera a Henio Zytomirski, un ragazzino ebreo deportato e ucciso nel campo di concentramento di Majdanek, simbolo del milione e mezzo di bambini assassinati nell’Olocausto. L’iniziativa ebbe grandissimo successo e ancora oggi, ogni 19 aprile, data della memoria, l’invito è a scrivere a Henio al suo ultimo indirizzo conosciuto, in via Kowalska, 11. L’idea di fondo del progetto è spiegata da Tomasz Pietrasiewicz: “Non si può chiedere alle persone di ricordare i volti e i nomi di 40.000 persone. Si può però chiedere loro di ricordarne uno: il suo timido sorriso, la camicia bianca con il colletto, i pantaloncini colorati, il taglio di capelli laterale, le calze con le righe… Henio”. L’aspetto particolare del progetto è che ogni lettera, ogni disegno, ogni pensiero viene rispedito al mittente con il timbro ‘Destinatario sconosciuto’, così che ci si confronti materialmente con l’assenza di Henio e di tutte le vittime della Shoah. Henio non c’è più, non leggerà le lettere, Henio è stato spazzato via dalla terra con la sua gente, inutile far finta non sia così. L’idea del ritorno al mittente la trovo davvero sorprendente, priva della facile emotività che spesso le operazioni di memoria hanno e che è facile riversare sui ragazzini. La storia di Henio oggi rientra nei programmi scolastici e il progetto, grazie anche alla rilevanza mediatica, è stato studiato sia dalla storiografia che dalla memorialistica internazionale. Fatelo e fatelo fare, ovviamente senza dire come andrà a finire, che si spiegherà poi.
Un altro aspetto cui non avevo pensato e cui contribuiscono numerosi progetti in tutto il paese è la riconciliazione tra il popolo ebraico e quello polacco. In effetti, sebbene con evidenza siano entrambi vittime dell’occupazione nazista, dal punto di vista dello sterminio le vicende furono molto diverse e non senza responsabilità individuali e collettive del secondo. Come insegna Barbero nelle sue conferenze, a eliminare persone, peste o fucile, si liberano risorse, case, lavoro, soldi, cibo, anche solo spazio. Spazio è quello che c’è oggi attorno al castello di Lublino, un curioso neogotico che mi fa venire in mente il palazzo ducale di Stettino. Spazio vuoto, un giardino, uno svincolone, un parcheggio per gli autobus, un mercato, ed è dov’era il ghetto, l’ultimo. Ai margini, è rimasto un antico cimitero ebraico non più utilizzato dal 1829 se non dai nazisti, con il loro macabro senso dell’umorismo, per le esecuzioni degli ebrei non deportati. Oggi si registra in città un certo turismo di discendenti dei sopravvissuti o delle vittime ebree, allo scopo di ricostruire le vicende e i luoghi dei padri e dei nonni. La comunità ebraica oggi in città è davvero minima, appena possibile andarono via tutti.
Il campo di concentramento di Majdanek è in città, ci si arriva a piedi, è uno dei campi grossi e di recente annoverato dalla critica storiografica tra i campi di sterminio e non di concentramento. Il campo è importante per svariati motivi. Il primo, come detto, è che era in città, nessun camuffamento formale come Buchenwald o Auschwitz, il campo era ed è perfettamente visibile, impossibile quindi non sapere. Secondo, il campo fu liberato dell’armata rossa nel luglio del 1944, ben sei mesi prima di Auschwitz. Quindi, il campo si mantenne ed è oggi perfettamente visibile in tutti i tragici dettagli perché i nazisti dovettero arretrare in fretta e furia e non riuscirono a far saltare nulla. Più importante, però, è considerare che nel luglio del 1944 l’Olocausto era in pieno svolgimento, il ghetto di Lodz non ancora liquidato, Auschwitz a pieno regime. Chiedersi, quindi, perché non si sia intervenuti prima, magari bombardando Auschwitz, è una legittima domanda alla quale, allo stato delle cose, io e non solo io non ho risposta convincente.
È una bellissima giornata, le nuvole si muovono veloci e il contrasto è molto forte. Si visitassero i campi a febbraio, con il gelo e la pioggia, il cuore si accorderebbe con l’esterno. Ricordo la visita a Buchenwald durante una delle più belle giornate di primavera io abbia mai visto, la foresta attorno era di una bellezza straziante al confronto e non riuscivo a immaginare la pena dei prigionieri a fronte di ciò che era irraggiungibile. Oppure, chi lo sa, era di loro conforto sapere che la vita andava comunque avanti e che ci sarebbero state altre primavere? difficile dirlo. Dentro le baracche fa un caldo asfissiante, è tutto il giorno che il sole scalda i tetti di metallo e, soprattutto, non hanno finestre. Le baracche delle SS le si riconoscono perché, appunto, hanno le finestre e, sul tetto, anche i camini per il riscaldamento. Il campo è davvero intatto, si possono vedere i depositi di zyklon B, le latte, tutto è lì. Non sono previste visite guidate, il campo si gira da soli; l’apparato di spiegazioni è davvero molto ben fatto, dettagliato, preciso e dilungato al punto giusto. Mi chiedo però se sia giusto vedere posti del genere senza una guida o, meglio, senza un pensiero guidato. Per dare una relazione credibile con i numeri dei reclusi e delle vittime, vengono esposte le scarpe, come ad Auschwitz, quattrocentotrentamila paia. Prendi una persona, la infili in un paio di scarpe ed ecco una moltitudine inaccessibile alla mente. Manca l’aria, mi gira la testa, ho la nausea e sono solo un turista. Attorno, la città, ci sono migliaia di persone che quando vanno in bagno vedono il campo, come si fa? Come si può?
Torno a piedi in centro per riprendermi, sono quattro chilometri, un po’ barcollo. Lublino, il centro storico, è una città davvero bella. In un’ora si vede quasi tutto, con calma. Piccola, arroccata su una collinetta e ancora murata, ruota tutta attorno a tre piazze ma si è conservata, l’impianto è medioevale e gli edifici rinascimentali e barocchi. Tutte le case sono affrescate e dipinte, l’atmosfera è davvero piacevole. Il che che contrasta ancor di più con quello che tutte le città polacche e galiziane hanno subito durante le occupazioni, quella nazista in particolare. Non riesco a scindere le cose e non è giusto farlo anche se, in nome delle primavere che vengono e verranno, è giusto vivere questi posti con la bellezza e la fortuna che ci è concessa oggi. Ancor più perché cinquanta chilometri più in là non è così.
Ed ecco dove non abita più Henio.
Infine, un suggerimento che c’entra solo un po’ ma che non posso non ridare anche qui: Destinatario sconosciuto.
uno | due | tre | quattro | cinque | sei | sette | otto | nove |
Sono in stazione a Ostrava chiaramente in preda a un robusto sequestro ematico. Una camminatina di un’ora sotto il sole a picco di Ostrava dopo il pranzo di carnazza è stata un’ottima idea. Mentre bevo acqua a più non posso, il mio vicino sta bevendo un tè caldo. Prendo il treno verso nord e scavallo in Polacchia, dalle corone agli zloty, che mi fa sempre pensare al mercato nero. E adottatelo ‘sto euro, che tempo ne avete avuto. Il carbone, che non guarda in faccia nessuno, si trova anche di là, nella Slesia polacca, le miniere e le acciaierie pure. E le città industriali anche, Katowice è la prima grossa che si incontra e ha attorno alcune città satellite, per esempio Tychy, costruite negli anni Cinquanta per dare sistemazione ai lavoratori. I quartieri sono in ordine alfabetico, a reticolo, e sono stati pensati per centomila persone, oggi di più. Va da sé che qua attorno l’unica città di grande bellezza è Cracovia. Io svolto e intendo andare a Rzeszów, città con grandi trascorsi commerciali con la lega anseatica, aveva una connessione diretta con Danzica, poi annessa all’impero austroungarico durante la prima spartizione del paese e tornata alla Polonia solo dopo la prima guerra mondiale. Il voivodato odierno è quello dei precarpazi ma la regione storica è la Galizia, che si estende da qui a Leopoli. Data la poca distanza, centosettanta chilometri e ottanta al confine, oggi Rzeszów è il centro logistico da cui passano tutti i rifornimenti all’Ucraina in guerra, armi comprese, e da cui fuoriescono le persone.
Ma le intenzioni sono una cosa e i fatti un’altra: al confine il treno si ferma quasi due ore ed essendo un intercity sigillato dentro fa un caldo significativo, fermi nel nulla. Nel mio scompartimento una famiglia di tre guarda al pc una serie tv coreana sottotitolata in polacco, lei comunque muore. Spoiler. Poi è Polonia, a tarda serata. Rzeszów, dicevo, oggi fa parte del network delle città europee emergenti, con Poznań nel paese, alti redditi e qualità della vita, come tutto l’est europeo ne ha passate di ogni dagli ottomani in poi e, in particolare, in Galizia l’olocausto è stato più terribile di dove già lo era. Grotowski era di qui, mio padre sapeva chi fosse, anzi io so chi sia per lui, mia madre più ferrata sulla Galizia, proprio questa, non la comunità autonoma spagnola.
La Polacchia è un bel paese, vario e grande, se non fosse così pieno di polacchi. A parte la battuta, di polacchi iperreligiosi e ultranazionalisti. Oddio, sul nazionalismo un minimo di ragione storica bisogna dargliela, contando le spartizioni che il paese ha subito, stretto tra rompicoglioni di prim’ordine, tedeschi, prussiani e russi. Per decenni il paese non è proprio esistito, a più riprese. Dodici ore che sono qui, però, e son già di nuovo stufo di Solidarność e Giovanni Paolo II. Voglio dire, persino nei parchi.
Rzeszów è graziosa e molto vivibile, si vede. Ne ha passate di tutti i colori e si vede, le glorie passate sono visibili sì e no. Un’enorme residenza settecentesca costruita sui bastioni di un castello difensivo rimanda, imparo, a una famiglia di rango principesco fondamentale per la storia polacca, i Lubomirski, che io sento per la prima volta e la cosa sembra grave. Poi si parla dei Tatari e bon, non mi ci raccapezzo proprio. In piazza questa sera c’è, credo, un evento elettorale: dopo quaranta minuti di Metallica dalle casse, ora una signora parla con toni abbastanza accesi di cose importanti, sembra, strappa qualche applauso e dietro di sé ha una sua grande immagine con lo spazio siderale come sfondo. Da quel che posso interpretare con le mie categorie politiche italiane, direi destra ma non è facile dirlo, specie se sono cose locali. Dietro c’è un tizio grosso grosso in giacca sportiva e cravatta che dev’essere il protagonista. Io bevo una birrona seduto, a volte applaudo a volte faccio buu. Tanto fisicamente sono come loro e dalla frequenza con cui mi chiedono informazioni, deduco che si ingannino spesso, quindi non vengo percepito come estraneo. No, lei, Karolina Pikuła, è qui a fare endorsement per lui, il candidato locale alle, boh, regionali della Moravia, voivodato, cose così. Sparano anche fiamme e la seconda cosa che leggo sul profilo Twitter, ehm, X, di lei è ‘Mama’, quindi capisco di non aver sbagliato. La città è piuttosto turistica, di turismo interno, e anche qui quando una pizzeria italiana o presunta usa i Ricchi e poveri per far capire che la pizza è buona giro largo. Nessuna traccia di guerra o segni di, nessuna percezione che l’Ucraina sia appena al di là del fiume, qualche adesivo e cartello ma come in tutto il paese. In fondo, probabilmente nemmeno nella parte occidentale dell’Ucraina si ha una percezione diretta del conflitto, secondo quel che mi dice un’amica.
Saluto il bel municipio in forme vicine alle gotico-baltiche che rimanda agli scambi di una volta, raccatto di nuovo le mie cose e vado verso nord. Pronto a fare il solito sforzo delle stazioni, ovvero capire la piattaforma, il binario, il settore spesso senza tabelloni o indicazione, con annunci sì frequenti ma in polacco stretto e poca gente che parla inglese. Gli intercity, a volte e non si capisce se ci sia un criterio, invece di sei posti per scompartimento ne hanno otto a parità, ovviamente, di larghezza e devo ammettere che per me sono un po’ sotto la soglia di vicinanza fisica che voglio avere con le altre persone. In generale, non polacche o galiziane. Se poi, e c’è sempre, c’è una vecchia che chiede di chiudere il finestrino e fa un caldo dell’accidenti, allora il viaggio diventa, oltre che molto allegro, lunghetto. Quel bel teporino tra coscia (mia) e coscia (sua).
uno | due | tre | quattro | cinque | sei | sette | otto | nove |