minidiario scritto un po’ così al di là de «il discendente»: due, mettiam su il gruppo, a sud, a ovest

La prima collisione è con Mamdouh, simpatico e spiritoso autista-guida che aggancio con facilità mai vista prima. Si vede subito che i turisti si sono dissolti da un anno a questa parte, dai fatti di Israele. E me lo conferma subito, dai cinque viaggi al mese che faceva di media, adesso ne fa a malapena uno, è a mia disposizione e mi accompagnerà ovunque io voglia. Mai vista una cosa così, l’offerta è evidentemente troppa per una domanda molto scarsa, vengo addirittura disputato tra due autisti ma per fortuna la spunta Mamdouh, ex portiere professionista e padre di sei figli perché, volendo una femmina, ha avuto prima cinque maschi. Forte, già chiacchieriamo come amici grazie al suo inglese migliore del mio. La stessa R., altra collisione fin dall’aeroporto, viene accaparrata da un altro autista e per andare nello stesso posto facciamo una specie di corteo presidenziale fino al centro di Amman. Poi naturalmente si aggiunge subito il giordano che ha vissuto trent’anni a Napoli facendo il pizzaiolo e sposando una di lì con figlio annesso che ciacola con buffo accento partenopeo di come italiani e giordani una fazza una razza, mi diverto molto. E che poi scende in mezzo al niente, chissà. La guerra incombe, l’instabilità che procura danni a tutti, ci tengono tutti a dire come qui sia sicuro e a garanzia specificano convinti che se fosse pericoloso se ne sarebbero già andati, che non è un granché come motivazione. Turisti zero o quasi, gli immancabili giapponesi che non si spaventano di fronte a nulla, qualche francese, profughi molti, la stessa Giordania si fonda sui profughi palestinesi fuggiti nel 1948, e ancor più indietro al 1921, quando la Giordania è nata dalla Palestina, tutto per ora appare tranquillo. Ci sarà tempo per parlare di politica più seria.

La terza collisione è Samir, architetto al Politecnico di Milano e qui guida, che si aggiunge a me e Mamdouh per un giro di qualche giorno della Giordania. Mano alla mappa, mai stato così facile e immediato, la ragione che adducono entrambi è che “a casa si stufano”. Beh, allora andiamo. Ci muoviamo verso sud, a Madaba, città storica da sempre, nota per una clamorosa mappa a mosaico del sesto secolo che rappresenta, quel che resta, città e territori dal delta del Nilo fino alla Siria. Salendo sulle alture, dal monte Nebo son più emozionato a vedere Jericho, le sue possenti mura crollate al suono dei corni, il mar Morto e Gerusalemme al di là della valle del Giordano che per il luogo in cui morì Mosè, per carità. Vide la terra promessa di là come la vedo io ora e poi morì. Io no, credo. Un monastero francescano ricco di bei mosaici greci e di pietre miliari romane ne custodisce la memoria. Ma il discorso torna sempre sul vicino ingombrante, ritenuto a torto o a ragione l’espressione colonialista americana ed europea nella macroregione della Grande Siria, Israele ovviamente. Che ha sì un trattato di pace con la Giordania tanto solido quanto sbilanciato, per esempio sulla gestione delle acque del fiume Giordano che scorre ai piedi delle colline dove sono ora e che viene diverto in maniera ineguale per ragioni di agricoltura. In effetti le colline di qua sono desertiche con qualche rara oasi qua e là, di là sono abbastanza verdi di ulivi e coltivazioni. La strada e la cosiddetta strada del deserto, va giù dritta ad Aqaba, l’unico porto giordano, e fu costruita dall’Iraq ai tempi della guerra con l’Iran per poter usare lo stesso porto. Tre corsie per carreggiata, dritta tirata con un filo, attorno deserto deserto che se parlo con Mamdouh è meglio che magari mi resta sveglio. Per movimentare la cosa qualcuno supera a destra, qualcuno buca, la polizia ferma a caso. Samir ne ha per tutti, ha espressioni colorite per chiunque, paesi, figure politiche, governi, salta pure fuori che condusse una trasmissione sul mondo arabo su radio Popolare nei primi anni Ottanta. Io abbonato, vediamo se riusciamo a combinare un viaggio, allora.

Per quanto Samir provi a darsi un tono, dura poco: colpa di Israele, colpa degli americani, degli inglesi, a volte dei tedeschi, a volte degli europei tutti. L’ho detto degli israeliani? Poi, per carità, ci si può ragionare, più dal punto di vista storico, interreligioso, umano ed etico ma se si tocca appena uno tra i circa diciottomila argomenti sensibili, e non è che proprio su tutti abbia torto, risorse più che altro, allora riparte: israeliani, americani, inglesi e così via. Mamdouh è più serafico ma parla anche meno. Parliamo parecchio, attraversando il deserto e la Giordania verso sud, poi pranziamo con altre persone, di cui uno mi viene presentato come facciadiculo, piacere caro, poi deviamo verso ovest, attraversiamo villaggi abitati e non, qualche fabbrica di cemento e, in questa zona, di fosfati, tra i migliori mi dicono; poi salendo sulle colline pecore, pastori, resti di fortezze crociate e ben più antiche, si aprono gole e valli di roccia, mi mostrano i sistemi di raccolta e conservazione dell’acqua, perlopiù antichi perché la gente si sposta in città a fare il terziario avanzato, e poi ciao, mica è un diario vero, questo. Un ottimo formaggio molto salato e, come sempre in questo posti, pani e sfoglie strepitose.


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minidiario scritto un po’ così al di là de «il discendente»: uno, perché e percome, avvicinamento, colpa degli aerei

Non si può dire che sia un fiume grande o, meglio, lo è per certo visto che scorre nel deserto e per ciò che costituisce per le terre che attraversa. Un tempo era però molto più grande, miliardi di metri cubi, oggi oltre il novanta per cento dell’acqua viene deviato per bagnare i campi seminati e così i suoi laghi, o mari come il chiamano qui, pian piano scompaiono. Niente di nuovo, ho visto accadere lo stesso al Nilo e all’Amu Darya, per restare ai mesi scorsi, si potrebbe estendere a tutti i corsi d’acqua della terra. Ma è la storia che fa grande questo fiume, l’Eden stava senz’altro sulle sue rive, Mosè lo attraversò per raggiungere la terra promessa, per non parlare dei battesimi di Giovanni, e per quanti millenni, fino a ora, ha fatto da confine tra le nove tribù, al di là, e le due e mezza di qua, fino a oggi, tra Siria, Israele, Giordania e Cisgiordania. È il Giordano, ovviamente, già di per sé toponimo dei paesi circostanti, che affluisce e defluisce da nord tra il mar di Galilea, il vecchio lago di Tiberiade dei pani e dei pesci, il mar Morto e il mar Rosso alla fine, a sud. Tutto attorno, terre promesse da molti dii e profeti, che Federico II stupor mundi ancora se la ride: “Allorché vide la Terra promessa che Dio tante volte aveva esaltata chiamandola la terra dove scorrono latte e miele e terra di tutte la più pregevole, Federico affermò che Dio non doveva aver visto la terra del suo regno, ossia la Calabria, la Sicilia e la Puglia, perché altrimenti non avrebbe lodato in questo modo la terra che promise e diede ai Giudei”, racconta fra’ Salimbene da Parma. E mica sbaglia, a parte il verde attorno al fiume il resto son sassi.

Perché sono qui? Perché ora? Perché voglio vedere e voglio capire, capire anche se e cosa io possa fare di utile. La Giordania è il posto sicuro più vicino al tragico carnaio che sono la striscia di Gaza, il Libano, la Cisgiordania, la Siria, l’Iran e l’Iraq da decenni, da un anno a questa parte in modo crudele, in una spirale demenziale di affronti e vendette che si perde nell’Antico Testamento. Non ho ricette per questo, non ho soluzioni, se non che butterei a mare gli uni e gli altri, senza remore. Ma questo è un minidiario non un confessionale per cui alcune cose non vanno raccontate, vanno fatte. Il resto sì, ciò che vedrò in questi pochi giorni sì, lo racconterò, perché comunque certe cose andrò a vederle, in compagnia di persone che mi spiegheranno ciò che non so e non comprendo. Ne verrà fuori un minidiario turistico? Non saprei, può darsi, serve rispetto e pudore anche nei racconti, non sono un corrispondente, ce ne sono molti e bravi. Vediamo che ne verrà, io mi atterrò al mio, qui.

Nonostante attorno ci si spari a vista, quando va bene, il fiume resta sacro, ancora oggi gli eredi della corona inglese vengono battezzati con acqua del Giordano, figurarsi. Mentre sono qui a scrivere queste righette, in attesa del pullman per Amman, ho a fianco tre agenti di Frontex, la guardia di frontiera e costiera europea, lineamenti mediorientali, inglese fluente, mangiano una specie di lasagne con calma, probabilmente devono prendere un aereo. Il che mi porta già in una delle dimensioni attuali, la gestione dell’immigrazione, qui declinata in particolare sui profughi, in fuga da Gaza, Libano e Cisgiordania in uno dei pochi posti sicuri di tutta la macroregione. Che distanza, poche ore fa facevo colazione seduto a fianco di Anna Foglietta – il colpo di culo del giorno – in un baretto del rione al sole caldo e se mi avesse detto fuggiamo a Formia ci sarei andato e, ora, il contrasto è davvero stridente, brandelli di un mondo complesso che mi passano a fianco come meteore dirette chissà dove, alla ricerca di chissà cosa. Come sono io, del resto, è una faccenda di collisioni occasionali.


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un altro film, stavolta su telepatie, barzellette, corna sparse in ogni dove e l’occhio non della madre

In un’epoca successiva ad una guerra atomica che ha annientato buona parte degli esseri umani e ha provocato la nascita di uomini e animali mutanti affetti dalle radiazioni, un gruppo di persone, tra cui un geologo, il criminale Tony e la sua fidanzata ex spogliarellista Ruby, cercano di sopravvivere tra le montagne al riparo delle stesse radiazioni in un rifugio costruito da Jim, un ex militare.
E fin qui, tutto bene: ci sono un criminale, un geologo, una spogliarellista, un militare in un rifugio antiatomico, tutti gli ingredienti sono a posto. Ma cosa potrà andare mai storto?

Ovvio. Ad un certo punto si troveranno ad affrontare un essere mostruoso che riesce ad entrare in contatto telepatico con Louise, una sopravvissuta del gruppo. Ma chi sarà? Ma chi? Forse, dico forse la spogliarellista? Ma no, che vado a pensare. Niente niente male. È “Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended)” del 1955 diretto da Roger Corman, grande classico. Il mostro è stato creato ed interpretato dall’esperto di effetti speciali e make-up Paul Blaisdell ed è qui che volevo arrivare, perché il mostro suscita eccome la mia meraviglia e non posso non riportarlo qui:

Naso aquilino che denota intelligenza, occhio frontale che, si sa, suggerisce saggezza e perspicacia, occhio pallato che infonde bontà, cucciolone. Si capisce che ha un cuore grande anche se fa un sacco paura. Obbiettivo pienamente raggiunto, capo.

un film d’amore, mistero, indagini e morti, no, morsi assassini

Una breve sinossi della spericolata trama: a New York City, il detective gay Luigi Mackeroni viene chiamato ad indagare su alcune strane cose accadute all’Hotel Quickie: i clienti maschi dell’hotel sono stati tutti morsicati al pene. Mentre si trova sul luogo del crimine, decide di usufruire dei servizi concessi da Bill, un bellissimo giovane gigolò.

Fin qui il mistero e la distrazione, poi che succede? Siccome fino a pochi anni fa nessuno aveva paura degli spoiler, chissà come ci è venuta poi, andiamo avanti con la clamorosa e appassionante vicenda: poco prima che i due abbiano un rapporto sessuale, vengono interrotti da un preservativo assassino che morde i testicoli di Mackeroni. Deciso a vendicarsi, il detective inizia la sua indagine intenzionato a porre fine all’invasione nella città di questi profilattici assassini.

Udo Samel è Luigi Mackeroni, il fumetto e la sceneggiatura di Killer condom, originale Kondom des Grauens, di Ralf König, ovviamente c’è dietro la Troma Entertainment, per chi desiderasse approfondire, imperdibile il saggio di Otto Sander, “When Condoms Go Bad: From Safe Sex to Five Microns to Killer Condom“.
Seratona garantita per chi si fida.

resistenza: il munuocchin’ uorldbag men contro il fassista che salta fuori all’improvviso

A Gattatico – dove se no? – il 25 aprile il m.u.m., ovvero l’uomo che tenta di fare moonwalking nel mondo sempre con la stessa borsa, l’uomo che con la danza porta la giustizia e sconfigge i malvagi, attraversa i pericolosi campi annidati di fassisti pronti a saltar fuori quando il m.u.m. meno se lo aspetta.

Ma nulla lo può fermare, nemmeno il fiero alleato Musolesi, nessuno può. E il fassismo sarà sconfitto, di nuovo. E anche se il video è di dieci anni fa il senso non cambia, e della danza e della lotta. Grazie m.u.m.


Tutti i m.u.m.

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minidiario scritto un po’ così di una scappata inglese: due, le privatizzazioni, fine del carbone, big Willy, i fiumi-fiumi

Dopo centoquarantadue anni, chiude l’ultima centrale a carbone nel Regno Unito, a Ratcliffe-on-Soar, tra Derby e Nottingham. Si chiude davvero un’epoca e quale posto migliore in cui essere per questo? Oddio, non che si percepisca, ma se il ragionamento di questi giorni è sull’Inghilterra industriale allora ha senso, come ha senso ricordare lo sciopero dei minatori inglesi contro la Thatcher che durò un anno, prima che dovessero capitolare. A proposito di Thatcher, sempre sia maledetta: tra le altre cose, per la privatizzazione delle ferrovie nazionali. Dalla British railways, una, si è passati a non dodici, non diciotto ma venticinque compagnie, ne dico un po’ che secondo me oggi sono anche di più: Anglia Railways, Chiltern Railways, Arriva Trains Merseyside, Arriva Trains Northern, c2c, Thameslink, Caledonian Sleeper, Wales & West, Central Trains, Connex South Central, Connex South Eastern, First Great Eastern, Elizabeth line e amen gloria. Il che vuol dire, però, che non si sa mai una tratta, che so? Birmingham-Stratford per restare a me oggi, a chi appartenga. Di conseguenza, è molto difficile fare un biglietto online in maniera agevole: tocca capire la tratta di chi sia, scaricare l’app o andare sul sito, registrarsi, comprare. Moltiplicare per otto, dieci, venti app o siti se si gira un po’ il Regno Unito. Se non altro, da un po’ esiste un portale riassuntivo, condivido: National rail, che, almeno, aiuta nel primo passaggio. Spero che, anche per questo, tu sia all’inferno, Thatcher.

Nel mio caso di oggi, si tratta della TransPennine Express e vado in gita a Stratford. Sì, quella Stratford sull’Avon, quella di Shakespeare, amichevolmente big Willy per quelli di lì. Sia chiaro, è un bel paesotto su un bel fiume, l’Avon appunto, come ce ne sono mille nel Regno Unito, piazza con monumento, municipio, cattedrale, qualche edificio medievale conservato e più o meno ricostruito, rive del fiume passeggiabili e verdi, imbarcadero, servizi pubblici e privati, sale da tè, caffè, supermercato, negozio di souvenir e pizzi, sala scommesse. L’ovvia differenza è che gli edifici medievali conservati e più o meno ricostruiti sono la casa natale di Shakespeare, la scuola di Shakespeare, la seconda e terza casa di Shakespeare, il cottage di Anne Hathaway, non l’attrice, la cattedrale ha al suo interno la tomba di Shakespeare e congiunti, oltre ai registri di battesimi e morti con il nome di, appunto, Shakespeare. E i negozi di souvenir vanno moltiplicati per un tot, un bel tot, con negozi dedicati interamente, cui va aggiunta la peculiarità del luogo, un teatro di dimensioni ragguardevoli, dovute ovviamente a Shakespeare. Parliamo di circa due milioni e mezzo, tre, di visitatori all’anno in una cittadina che ne fa, a malapena, trentamila. Ovvio gettarsi nell’economia locale, sia che si possieda un negozio, una casa, un parcheggio.

Uhm, non che io sia un esperto ma alcune cose non mi convincono.
Ci si intenda, la cittadina è gradevolona, in particolare la parte lungo il fiume che mi gusto particolarmente con una lunga camminata tra prati e boschetti davvero piacevoli. Non mi raccapezzo sul fiume, l’Avon, che bello placidone ho già incontrato a Salisbury e a Bristol, possibile sia così lungo? No, infatti, grazie alle comode funzioni di ricerca dell’infosfera giuliniana mi ci raccapezzo e scopro che, solo in Inghilterra, i fiumi Avon sono sette e quelli che io conosco sono i cosiddetti Bristol Avon, Salisbury Avon e questo, detto lo Shakespeare’s Avon. E nessuna intersezione o comune paternità tra loro. Cercando ancora, l’arcano si scioglie, Avon, abona, è la parola che nel protobritannico significava ‘fiume’, quindi il tautologico fiume-fiume ricorre sovente a questo punto senza più sorpresa.

Un altro mistero risolto, potrebbe dire la coppia di investigatori locali della serie tv omonima, Luella Shakespeare e Frank Hathaway e chi coglie, coglie, non è difficile.
Una commossa visita alle sepolture di big Willy e dei suoi parenti nella chiesa, in posizione preminente e sorvegliata da premurosi volontari chiacchierini, e viene l’ora per me di tornare a Birmingham con la bislacca compagnia ferroviaria, tornando così alle mie consuetudini serali locali, ovvero un po’ di tempo al The Old Joint Stock con qualche cibo annesso, due chiacchiere con qualche avventore, una sosta per strada tornando a casa all’Anchor Inn, bella tana per disastrati, una freccetta e via all’unico albergo accessibile in città, un Ibis Budget al di sotto delle centocinquanta sterline per notte, va’ a capire come campi qua la gente. Io per oggi e per questo giretto ho dato. Mi mancherà tutto questo domani.


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minidiario scritto un po’ così di una scappata inglese: uno, il seguito dei canali mancuniani, bacon&beers, blobitecture e pies a qualsiasi ora

Mesi fa, mentre leggevo eccitato del nuovo tour dei Jet e del singolo e del disco, mi interrogavo su quale data sarebbe stata più piacevole per tornare a sentirli: le comode Milano e Roma? Bristol? Londra? Belfast, Glasgow, Manchester, Nottingham? Posti in cui sono già stato, a Nottingham ci andrò a dicembre a sentire Paul Heaton – caravanovlooov, per chi sa -, allora opto per l’unica restante: Birmingham. Me l’ero promesso a novembre dell’anno scorso, «Birmingham, un’altra volta». Che poi, se averli sentiti a Manchester nel 2018 aveva completamente senso, Birmingham non è da meno, essendo la città di Spencer Davis Group, Traffic, The Move, The Moody Blues, Judas Priest e Black Sabbath, Robert Plant e John Bonham, ci siamo capiti, Martin Barre, Electric Light Orchestra e Wizzard, Joan Armatrading, Duran Duran, Fine Young Cannibals e Dexys Midnight Runners, grandi, Charlatans, Ocean Colour Scene, Editors. Sì, li volevo dire quasi tutti. E bisognerebbe indagare meglio la relazione tra musica e città industriali, forse evasione?
Poi me ne dimentico.
Poi passano mesi, come accade di solito, viene ottobre e il mio calendario mi ricorda l’appuntamento. Beh, pronti. Nonostante un micidiale ritardo dovuto alle fottute compagnie low cost che non sono più low cost ma che mantengono il servizio low, sei ore e un vago cidispiace molto poco sentito, arrivo a Birmingham e mi preparo all’esplorazione, osservando a tarda notte un bel mural di Peaky Blinders con la facciona di Oppenheimer. Fortuna che mi attende una full english breakfast come si deve davanti alla New Street Station, un millecinquecento calorie per affrontare la giornata con animo sbarazzino, bacon spesso del nord, sausages, fagioli, omelette, fette di pane cotte nel burro e pomodoro e funghetti che danno l’illusione della verdura. Ripetere poi per altri due giorni consecutivi, fatto, anche in caso di allucinazioni e tachicardia. È che mi dicono: «Hi, goodtoseeya» con tono caloroso già dalla prima volta e niente, io rapito da tanta cordialità sconosciuta nel nordest-produttivo-locomotiva-deuropa-seee e quindi poi torno riconoscente.

Va bene, ora le calorie c’è da consumarle. E cosa di meglio del vero motivo per cui sono qui – i concerti sono l’innesco -, ovvero la parte industriale di Birmingham, soprattutto i canali? La zona delle midlands e il nord, quindi Liverpool, Manchester, Birmingham, Leeds, Sheffield furono i centri della rivoluzione industriale, le macchine utensili e le macchine motrici, le industrie tessili e l’industria pesante, metallurgica e meccanica, il carbone, fino a Engels e poi Marx e l’impero e insomma, mica è una guida questa e non devo fare tutto io, qui. Ma il carbone e poi le merci e le materie prime bisognava trasportarle e così la parte centronord del paese fu disseminata di una formidabile rete di canali navigabili che esiste tutt’ora, dal Birmingham Canal, il mio obbiettivo, che si immette e riceve, per dirne alcuni, da Coventry Canal, Grand Union Canal, Staffordshire e Worcestershire Canal, Stourbridge Canal, Worcester Canal e ne ho detti un po’. Il mio personale filo conduttore, quindi, inaugurato a Manchester e la sua poderosa industria, proseguito a Liverpool e i canali artificiali che le collegano, prosegue qui, a Birmingham.
La camminata mattutina lungo i canali e le diramazioni e le isole è davvero strepitosa, ha anche smesso di piovere, si affaccia il sole e non c’è quasi nessuno, io adeguo il respiro al passo, sgombro la mia mente affollata, mi godo la brezza, osservo e ascolto musica, raccolgo stimoli e prendo le strade che più mi ispirano.

Se non è bello questo, non so. Passo sotto al Black Sabbath bridge, sì è per quello, e rientro nella parte della città fatta di strade e di zone meno perfette, la famosa biblioteca postmoderna, la piccola cattedrale, la blobitecture dei magazzini Selfridges – a proposito: c’è una bella serie su questo -, il campus universitario, enorme e verde e accogliente, i centri commerciali del centro a ridosso delle stazioni nel pezzo più disastrato del centro città. Come tutte le città industriali ottocentesche, oggi è piuttosto disarticolata, gli anni sessanta e ottanta hanno rimpiazzato l’esistente senza scrupolo né decenza, i novanta e gli zero hanno scavato solchi e fossati nel tessuto urbano, grattacieli fatti per non durare, oggi un po’ e un po’, qualcosa si recupera. I servizi hanno rimpiazzato le armi, le auto, i gioielli,

Qualcosa però resta e tra ciò una magnifica salona prima biblioteca nel 1862, poi banca e poi, adesso, pub con annesso teatro e, il pub, cucina aperta da mezzogiorno alle nove di sera ininterrottamente. Sebbene l’atto di mangiare sia ampiamente sopravvalutato, poterlo fare a qualsiasi ora ha un che di scandalosamente appropriato, alla faccia dei rigorosi riti mediterranei. E siccome posti così bisogna onorarli e contemplarli con calma e posa, una birra e una pie alle cinque del pomeriggio non me le toglie proprio nessuno.

Anche perché io tra poco scendo in pista, ho il concerto, ho la semirissa con gli amici inglesi, devo essere pronto. Che bella abitudine hanno, tra l’altro, di bere le cose fino a un terzo e poi tirare contenuto e bicchiere dove capita, proprio bella. Ma è così, è un concerto rock, questa è l’attitudine, come dicono loro. Quindi, adeguarsi, dentro nella bolgia sapendo che, comunque, alla fine sono leali, e un sorriso e un abbraccio alla fine degli urti, degli spintoni, dei bicchieri volanti e delle grida, arriva sempre senza bisogno di metter mano al coltello come invece faremmo noi italiani. Oh, look what you’ve done / You’ve made a fool of everyone / Oh, well, it seems like such fun / Until you lose what you had won. E poi questi hanno tutti la mia età, sopra e sotto il palco, lo scontro è pari. Fatevi avanti.


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dai dai dai che ci siamo

«Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonche’ la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?». Sì, cazzo, sì.

Manca pochissimo, qui.

Ore 16:26: è fatta. Dai.
(ore 17:03 siamo a 514.431, magnifico). Già sento le lagne sulle cinquecentomila firme che sono poche.

la musica delle stagioni, estate 2024

Finalmente è finita l’estate e con essa la compila estiva, ventisettesima personale parlando di stagioni. I brani sono cinquantasei e la durata tre ore e tredici minuti, ovvero non per il caso il tempo esatto che io ci metto a correre il chilometro lanciato.

Aprire con i Kinks e chiudere con i Simple minds già non è di per niente male, inserendo sia qualche brano di gente che sono andato a sentire quest’estate, Simple minds appunto, Suzanne Vega, Bombino, I hate my village e così via, oltre alle nuove belle scoperte. Non vuol dire necessariamente nomi nuovi, vuol dire canzoni finora sfuggite o riascoltate con sorpresa. A partire dalla prima.

Fermo restando che non ci sia musica migliore dell’elettropop balcanico, preferibilmente jugoslavo, qualche altro pezzo decente qua e là in effetti c’è, magari ci ho preso con qualcuno, Daria Zawiałow o Jain o Laura Marie.

Le compile vere e proprie: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore) | estate 2022 (42 brani, 2,33 ore) | autunno 2022 (71 brani, 4,5 ore) | inverno 2022 (70 brani, 4,14 ore) | primavera 2023 (74 brani, 4,23 ore) | estate 2023 (53 brani, 3,31 ore) | autunno 2023 (92 brani, 6,9 ore) | inverno 2023 (76 brani, 4,5 ore) | primavera 2024 (59 brani, 3,4 ore) | estate 2024 (56 brani, 3,1 ore) |

E l’autunno si preannuncia goloso, come sempre, con Les negresses vertes, Jet, Paul Heaton, Zutons già belli pronti sui piatti per me. E la compila è già partita. Dai che va tutto bene.