Che in certi paesi il maiale, porello, sia del tutto bandito non è una novità. Cioè, buon per lui chiaramente. Nei paesi privi di maiale e privi di pascoli, esso viene sostituito dall’agnello, raramente, e soprattutto dal maledetto pollo. Maledetto perché io non lo posso mangiare. Se se ne stesse lì, visibile, identificabile, sarebbe facile: lui è lì, io lo vedo, lo evito e amici come prima. Ma no, spappolato e frullato e disciolto sta dappertutto, il fottuto pollo. Ed è così che sono caduto su quella che pareva un’innocente zuppa di pesce. Amen, quante insidie nascondono i viaggi.
Inutile piangere sul pollo versato, qui c’è da trottare verso sud, verso il deserto, verso la vita a un’altra velocità, verso le corriere se e quando partono. Solita manciata di datteri in tasca, che così si incolla tutto, e pezzettone di pane, che è ottimo e devono avere appreso dai francesi. Senza l’uso dell’ascella. Prima tappa, la città più ricca e grande della romanità in Tunisia e, probabilmente, del Maghreb: El Jem. Ma dovrei andare in Libia per esserne certo. Città con non uno, non due ma ben tre anfiteatri, di cui uno talmente colossale da essere un Colosseo – anfiteatro flavio – con tre posti in meno, il terzo dopo Roma, appunto, e Capua.
A sud dell’anfiteatro, è stato scavato un quartiere di ville nobiliari che ha restituito un tesoro di mosaici di altissima qualità e spesso di grandi dimensioni. I mosaici tunisini sono rinomati per essere tra i più belli e sofisticati del mondo romano, il museo del Bardo a Tunisi ne è la raccolta più importante. Anche il museo di El Jem, una decina di sale le cui pareti sono tutte ricoperte da enormi mosaici pavimentali, è strepitoso, le soluzioni artistiche sono di grande rilievo. Resto a bocca parecchio aperta.
Mi tocca andare a Sfax, una città industriale la cui la produzione chimica di fosfati ha rovinato gran parte della costa, dormirci per poi andare agevolmente a Gabes, porto fenicio di grande ricchezza citato da Plinio il vecchio, poi declinato lungo il medioevo per rinascere sotto la dinastia ottomana dei Morabiti nel sedicesimo secolo. Oggi è nota per il mercato delle spezie, dei melograni e dei cappelli, sono esposti grandi cumuli di polvere verde che mi spiegano essere hennè. Notevoli le ceste di bucce di melograno e arancio, utili per produrre le acque con cui aromatizzare tè, bevande, cibi, per esempio le fragole, e lavarsi mani e faccia.
Ora comincia la parte più avventurosa e meno comoda del viaggio, verso il deserto. Mi serve una mappa dettagliata per affrontare tutto al meglio, una mappa con indicazioni puntuali e aggiornate. Per fortuna la trovo, posso partire.
La strada si inoltra verso l’interno, pian piano le poche piante spariscono, sostituite da cespugliotti e ovviamente sabbia. Prima sassosa e poi, anche qui gradatamente, diventa farinosa. Il territorio in cui sto andando è quello storicamente dei berberi. Che, esattamente come i barbari e per esattamente le stesse motivazioni, non andrebbero chiamati così, giusto. Il nome corretto è amazigh, uomini liberi, e in tutto il Maghreb sono circa trentasei milioni, farei conto. Man mano che il deserto diventa più deserto io guardo fuori e ho tempo per scrivere un paio di cose sui berb… amazigh. Con l’adesione di gran parte degli amazigh all’Islam si creò una religione islamica sincretista rispetto a quella ortodossa di Baghdad. Non tutte le tribù però si convertirono e lo scontro tra i convertiti e non, ovvero tra tribù e tribù, è durato fino al colonialismo francese. I territori che attraverso, dunque, sono riferibili a tribù differenti in epoche diverse e, come detto, persino di convinzioni religiose diverse. Mentre mi dirigo a Matmata, riporto le due cose che so sulla zona – niente rete e connessione, mai, avanti con le opinioni e col tono convinto. La località più nota in zona è Tataouin, e ora che l’ho scritta so che qualcuno avrà già pensato a qualcosa di specifico. È così. Tataouin era chiamata ‘l’inferno’ perché è dove i francesi condannavano ai lavori forzati, a spaccar pietre nel deserto, chi ritenessero.
L’immagine credo renda abbastanza, l’ho scattata dal tetto di una stanzetta da tè in un villaggio amazigh mentre il vecchio gestore parla in lingua e mi mostra l’alfabeto, particolarissimo. Matmata, che è poco distante, è nota per le case sotterranee, scavate nella terra argillosa andando giù fino allo strato di roccia, così insieme da nascondersi e avere frescura. Allora i taluni chiamati Romanes non hanno inventato nulla a Bulla regia. Esatto. Tra le numerose case sotterranee ce n’è una che è stata poi il set di un film molto famoso, chi lo sa ha già intuito. Sì, Guerre stellari, l’episodio in qui l’Enterprise arriva… D’accordo.
Ovviamente il posto, che oggi è un albergo, è tutto pieno di spostati. Direi che Lucas e sceneggiatori abbiano pescato parecchio da qui dell’estetica e topografia del ciclo cinematografico. Queste case, furbe da ogni punto di visita, sono state battezzate dai francesi ‘trogloditiche’, nulla di più lontano. Oltre a suggerire una certa qual primitiva funzione, e così non è perché sono circa dall’anno mille in poi, si direbbero prive di ingegno e altrettanto non è, visto anzi che si tratta di una serie di soluzioni strepitose. Una signora, evidentemente esasperata dalle visite dei turisti, si è costruita una casa tradizionale, villetta in cemento armato col primo piano costruito a metà, a fianco della casa sotterranea e ci guarda da lì, turisti deficienti.
Lo stile calabresizzante è dovuto anche qui a ragioni di tasse, finché la casa non è finita non si paga. E indovina? Esatto. Nella foto qui sopra un particolare: i tipici mattoni cotti tradizionali della zona sono obbligatori, oggi, per ricoprire ogni costruzione, a patto ovviamente che sia finita.