minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: tre, verso l’interno, su un altro pianeta, un popolo diffuso

Che in certi paesi il maiale, porello, sia del tutto bandito non è una novità. Cioè, buon per lui chiaramente. Nei paesi privi di maiale e privi di pascoli, esso viene sostituito dall’agnello, raramente, e soprattutto dal maledetto pollo. Maledetto perché io non lo posso mangiare. Se se ne stesse lì, visibile, identificabile, sarebbe facile: lui è lì, io lo vedo, lo evito e amici come prima. Ma no, spappolato e frullato e disciolto sta dappertutto, il fottuto pollo. Ed è così che sono caduto su quella che pareva un’innocente zuppa di pesce. Amen, quante insidie nascondono i viaggi.

Inutile piangere sul pollo versato, qui c’è da trottare verso sud, verso il deserto, verso la vita a un’altra velocità, verso le corriere se e quando partono. Solita manciata di datteri in tasca, che così si incolla tutto, e pezzettone di pane, che è ottimo e devono avere appreso dai francesi. Senza l’uso dell’ascella. Prima tappa, la città più ricca e grande della romanità in Tunisia e, probabilmente, del Maghreb: El Jem. Ma dovrei andare in Libia per esserne certo. Città con non uno, non due ma ben tre anfiteatri, di cui uno talmente colossale da essere un Colosseo – anfiteatro flavio – con tre posti in meno, il terzo dopo Roma, appunto, e Capua.

A sud dell’anfiteatro, è stato scavato un quartiere di ville nobiliari che ha restituito un tesoro di mosaici di altissima qualità e spesso di grandi dimensioni. I mosaici tunisini sono rinomati per essere tra i più belli e sofisticati del mondo romano, il museo del Bardo a Tunisi ne è la raccolta più importante. Anche il museo di El Jem, una decina di sale le cui pareti sono tutte ricoperte da enormi mosaici pavimentali, è strepitoso, le soluzioni artistiche sono di grande rilievo. Resto a bocca parecchio aperta.

Mi tocca andare a Sfax, una città industriale la cui la produzione chimica di fosfati ha rovinato gran parte della costa, dormirci per poi andare agevolmente a Gabes, porto fenicio di grande ricchezza citato da Plinio il vecchio, poi declinato lungo il medioevo per rinascere sotto la dinastia ottomana dei Morabiti nel sedicesimo secolo. Oggi è nota per il mercato delle spezie, dei melograni e dei cappelli, sono esposti grandi cumuli di polvere verde che mi spiegano essere hennè. Notevoli le ceste di bucce di melograno e arancio, utili per produrre le acque con cui aromatizzare tè, bevande, cibi, per esempio le fragole, e lavarsi mani e faccia.

Ora comincia la parte più avventurosa e meno comoda del viaggio, verso il deserto. Mi serve una mappa dettagliata per affrontare tutto al meglio, una mappa con indicazioni puntuali e aggiornate. Per fortuna la trovo, posso partire.

La strada si inoltra verso l’interno, pian piano le poche piante spariscono, sostituite da cespugliotti e ovviamente sabbia. Prima sassosa e poi, anche qui gradatamente, diventa farinosa. Il territorio in cui sto andando è quello storicamente dei berberi. Che, esattamente come i barbari e per esattamente le stesse motivazioni, non andrebbero chiamati così, giusto. Il nome corretto è amazigh, uomini liberi, e in tutto il Maghreb sono circa trentasei milioni, farei conto. Man mano che il deserto diventa più deserto io guardo fuori e ho tempo per scrivere un paio di cose sui berb… amazigh. Con l’adesione di gran parte degli amazigh all’Islam si creò una religione islamica sincretista rispetto a quella ortodossa di Baghdad. Non tutte le tribù però si convertirono e lo scontro tra i convertiti e non, ovvero tra tribù e tribù, è durato fino al colonialismo francese. I territori che attraverso, dunque, sono riferibili a tribù differenti in epoche diverse e, come detto, persino di convinzioni religiose diverse. Mentre mi dirigo a Matmata, riporto le due cose che so sulla zona – niente rete e connessione, mai, avanti con le opinioni e col tono convinto. La località più nota in zona è Tataouin, e ora che l’ho scritta so che qualcuno avrà già pensato a qualcosa di specifico. È così. Tataouin era chiamata ‘l’inferno’ perché è dove i francesi condannavano ai lavori forzati, a spaccar pietre nel deserto, chi ritenessero.

L’immagine credo renda abbastanza, l’ho scattata dal tetto di una stanzetta da tè in un villaggio amazigh mentre il vecchio gestore parla in lingua e mi mostra l’alfabeto, particolarissimo. Matmata, che è poco distante, è nota per le case sotterranee, scavate nella terra argillosa andando giù fino allo strato di roccia, così insieme da nascondersi e avere frescura. Allora i taluni chiamati Romanes non hanno inventato nulla a Bulla regia. Esatto. Tra le numerose case sotterranee ce n’è una che è stata poi il set di un film molto famoso, chi lo sa ha già intuito. Sì, Guerre stellari, l’episodio in qui l’Enterprise arriva… D’accordo.

Ovviamente il posto, che oggi è un albergo, è tutto pieno di spostati. Direi che Lucas e sceneggiatori abbiano pescato parecchio da qui dell’estetica e topografia del ciclo cinematografico. Queste case, furbe da ogni punto di visita, sono state battezzate dai francesi ‘trogloditiche’, nulla di più lontano. Oltre a suggerire una certa qual primitiva funzione, e così non è perché sono circa dall’anno mille in poi, si direbbero prive di ingegno e altrettanto non è, visto anzi che si tratta di una serie di soluzioni strepitose. Una signora, evidentemente esasperata dalle visite dei turisti, si è costruita una casa tradizionale, villetta in cemento armato col primo piano costruito a metà, a fianco della casa sotterranea e ci guarda da lì, turisti deficienti.

Lo stile calabresizzante è dovuto anche qui a ragioni di tasse, finché la casa non è finita non si paga. E indovina? Esatto. Nella foto qui sopra un particolare: i tipici mattoni cotti tradizionali della zona sono obbligatori, oggi, per ricoprire ogni costruzione, a patto ovviamente che sia finita.


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minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: due, lo spiegone iniziale, un caffè, grazie, tanto non ho né soldi né documenti

Uhm, qui tocca pigliare il sacco in cima e fare un po’ di ordine per sommissimi capi sulla conquista degli arabi musulmani del nordafrica, altrimenti non mi ci raccapezzo. Milleduecento anni in un soffio.

Tutta al presente, saltare i prossimi due paragrafi in caso. Poco dopo la morte del profeta Maometto e la divisione tra sunniti e sciiti, il califfo Omar, due generazioni dopo, espande il califfato verso la Persia e verso occidente, Siria, Palestina, Egitto, nel biennio 641-42, il Maghreb, che in arabo significa ‘il luogo in cui cala il sole’, fino al Marocco alla fine del settimo secolo. E poi l’Andalusia, che è quel pezzettino di storia che conosciamo sommariamente. L’espansione procede per fondazioni di campi fortificati, simili ai castra romani e chi non aderisce alla fede islamica paga la protezione per mantenere le proprie abitudini. Adesso la taglio male e grossa, sicuro al quarantotto per cento di quel che vado dicendo: il Maghreb, occupato a quell’epoca da cristiani, romani, berbero-punici, in parte si converte all’Islam sunnita e in parte si forma una posizione terza, i kharigiti, cioè i fuoriusciti. L’eresia islamica del kharigismo si diffonde nelle zone isolate del nordafrica, molti berberi si convertono a essa. Essi però contestano l’autorità dei califfi, per cui da Damasco, ormai capitale, e poi con le dinastie successive da Baghdad, vengono inviati generali per reprimere i ribelli e nominato un governatore di tutta la zona del nordafrica, Aglab, dal quale ha inizio una dinastia di emiri che governerà la regione per un secolo. E che conquisterà la Sicilia nel nono secolo e qui qualche eco risuona. Califfo là, emiri qua.

All’inizio del decimo secolo gli aglabiti vengono attaccati dai fatimiti, una fazione di sciiti che seguiva un altro Imam, cioè la guida spirituale, con riferimento a Fatima, figlia di Maometto. Sono detti anche ismailiti, dal nome dell’Imam. Il proselitismo dei fatimiti si caratterizza per la presenza di missionari che si recano in tutto il califfato, per convertire gli sciiti ortodossi con il messaggio del ritorno del Mahdi, il profeta. I berberi aderisono in massa, formando di fatto un grande esercito con il quale i fatimiti conquistano tutto il nordafrica. Ecco, qui dovevo arrivare perché quelli che noi chiamiamo ‘gli arabi’ in questo caso sono i fatimiti, che danno forma e impronta alla dominazione araba sul Maghreb. In Tunisia essi, i fatimiti, fondano Mahdiyya, la città santa, che farà da modello a molte altre città tra cui il Cairo, fondata sempre da loro nel decimo secolo. Di fatto, dunque, essi fondano un altro califfato nel decimo secolo, ed esso durerà per due secoli, fino a Saladino. La conquista andalusa, invece, di carattere prettamente berbero, costituirà il terzo califfato, rispetto a quello ortodosso di Baghdad.

Uff, questi sono baratri, voragini che mi si spalancano sotto i piedi, anche solo riassumere in poche righe quel che cerco di intuire non rende minimamente la complessità di questi mondi sovrapposti e affiancati. Ho tralasciato decine e decine di -ismi e sette e popoli e varianti che non ho mica capito dove stiano. E vorrei sottolineare come tutta ‘sta cosa mi tocchi spiegarla senza rete, non essendoci alcuna connessione, voglio dire. Comunque, spiegone fatto e almeno qualche punto l’ho messo. Passo la mattinata a Monastir, l’antica Ruspina, sulla costa nel Sahel. È una località marittima e turistica rinomata, oggi c’è vento e il mare ha uno splendido colore, complici le onde. Il mausoleo di Bourguiba, il primo presidente dall’indipendenza e padre della patria, racconta questa figura di innovatore laico e moderno, paragonato ad Ataturk per il progetto di progresso del paese. Vedo le scarpe, il telefono, l’agenda, il cappello di Bourguiba. Molto più interessante il Ribat, costruzione religioso-militare islamica medievale, una specie di convento fortificato come alcuni dei nostri, abitata da monaci guerrieri. In teoria la Sicilia dovrebbe esserne stata piena, al tempo della conquista.

Proseguo lungo la costa per Mahdiyya, la capitale del regno della dinastia dei fatimidi. Costruita su una penisola rocciosa che mi ricorda subito l’Ortigia, si caratterizza per la medina fortificata al centro, il forte ottomano verso il mare e l’impressionante porto punico, anzi i porti, quello militare e quello commerciale. Secondo i cartelli, il primo poteva contenere fino a quarantacinque navi da guerra.

Nel museo, grandi esempi di architettura e arte fatimita, tra cui molta Palermo, quella che noi chiamiamo con grande precisione ‘araba’. Il duomo di Monreale, per esempio, o la cappella palatina, da non confondersi invece com l’architettura di committenza normanna, Federico II, con manovalanza fatimida, ovviamente posteriore alla  riconquista. Tutta tutta un’altra cosa. Mahdia, scritta semplice, è proprio bella, verrebbe da fermarsi qui per un po’ a bere caffè sotto le piante, ho già trovato il posto.

Ma no, proseguire. Registro un intoppo minimo, ossia ho dimenticato passaporto e soldi-euro a Tunisi, nell’accidenti di cassaforte dell’albergo. E me lo dico sempre di non usarle, che poi non ci penso. Poco male, comunque, la carta di credito ce l’ho, quella di identità pure, recupererò tutto alla fine, quando tornerò a Tunisi. La preoccupazione maggiore sarebbero le difficoltà in questura in Italia per il rilascio, mica qui. Figuriamoci. Il resto prossima parte, che per oggi ho cosato abbastanza.


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minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: uno, verde e più verde, città cedute e prese, case con sotto case

La conversazione con Habib scivola sugli ultini decenni di governo tunisino, in particolare gli anni dopo la primavera araba del 2011, la più riuscita di tutto il nordafrica. La Tunisia, infatti, è senz’altro il paese più laico e democratico di tutta la regione, il presidente finalmente eletto con libere elezioni, la parità di genere maggiore che negli altri paesi, la libertà d’espressione non sono ancora in grado di valutarla, nemmeno superficialmente. Faccio presente ad Habib come la svolta dal 2020, post covid, sia stata letta in senso reazionario in Europa e non a caso Meloni è qui giorno sì giorno sì. Ribatte, lui, che il presidente si sia trovato in conflitto con un apparato statale profondamente corrotto, e non stento a crederlo, e che le leggi speciali servano a rimuovere uomini e settori resistenti al cambiamento. È preparato, Habib, non è, non sembra, allineato né timoroso di esprimersi, e anche quando sostengo che la liquidazione del parlamento mi paia un pessimo segnale in senso oppressivo mantiene la sua linea. Troppo presto per capirci qualcosa compiutamente, è un fatto però che le ragazze e le donne senza velo siano la maggioranza e che sia di fatto ormai una questione culturale e familiare.

Il pullmino corre verso nord-ovest tra colline molto più verdi e coltivate di quanto mi aspettassi. Certo, Sallustio me l’aveva detto, terre fertili, il granaio dell’impero, ma io pensavo meno. Gran campi di grano, uliveti a non finire – il piano governativo di raggiungere i cento milioni di piante, otto per ogni tunisino, è a buon punto -, qualche pineta di conifere appena si sale, papaveri, fondi qua e là e fattorie a presidiare il territorio. Non molti alberi, quello potrebbe già dipendere dalla pesante modifica che taluni chiamati Romanes imponevano ai territori occupati. Mucche multicolore, molte pecore, qualche paesello in lontananza. Uno straniero può acquistare una casa in Tunisia ma non la terra, quella la deve prendere in affitto.

In questa zona si raggruppano i bacini artificiali del paese per la conservazione dell’acqua, essendo il resto più a sud fondamentalmente desertico. Nonostante le forti piogge d’aprile, alcune abbastanza disastrose, il livello delle acque resta al trenta per cento della capacità complessiva e si prevede, anche qui e anche quest’anno, un’estate di siccità. Come gli altri anni, è facile prevederne il razionamento: dalle sei di sera alla mattina ciccia. Chissà che qualcuno da noi ne deduca qualcosa.

Salendo sulle colline dell’interno, quasi fino a seicento metri, in posizione preminente che domina tutto il territorio, uno di quei posti in cui uno punta il dito e dice: qui, arrivo a Dougga, l’antica Thugga. È certamente oggi la città romana meglio conservata e completa in Tunisia, grande e ricca, dominata dal tempio dedicato alla divinizzazione di Alessandro Severo e ovviamente dal grande foro. Città punica prima, da cui il nome, poi fortezza bizantina: il tempio è oggi circondato da un enorme muraglia costruita accumulando pietre delle abitazioni e monumenti romani. Non avendo terre argillose o comunque non manodopera esperta, la città è di pietra e non di mattoni, anche se usata alla maniera del mattone. Il colore giallo della pietra, il terreno, il verde degli ulivi e l’azzurro del cielo si combinano mirabilmente. Insieme, essendo il 21 è festa, non tanto per la fondazione di Roma quanto per la giornata internazionale del patrimonio, l’accesso è gratuito e la città romana è quindi popolata di persone che visitano, fanno picnic, suonano e cantano. Si sente spesso quel vocalizzo acuto e ripetuto che fanno le donne in oriente per far festa. La città è sontuosa e ci vuole qualche ora per percorrerla in buona parte, un mausoleo misto punico, romano, orientale, berbero domina la valle.

Oggi è giornata di città prima puniche e poi romane, quindi risalgo su un piccolo pullman e vado a Bulla Regia. Alle pendici di una splendida rupe rossastra, Bulla – anche qui nome punico integrato dai Romani – è una città ricchissima e splendidamente lasciata sotto campi di papaveri e, dove scavata, per nulla protetta. Se camminare su magnifici mosaici di duemila anni fa per qualcuno potrebbe essere un’esperienza, sicuramente dal punto di vista della conservazione è un disastro. E a me mette più a disagio che ad agio. Bulla, città di ricchi mercanti, è ricolma di splendide ville di grandi proporzioni, con tutti gli armamentari del caso, colonnati, fontane e magnifici mosaici, e ce ne sarebbe per decenni di campagne di scavo.

La prerogativa della città è che le grandi ville hanno una parte corrispondente, sale da pranzo, da riposo, per triclinii, fontane sotto terra, per ragioni di fresco. Sotto, dunque, alcuni ambienti colonnati con apertura per la luce sono ricoperti di mosaici che adornavano le sale da pranzo, per pigri e piacevoli pranzi e pomeriggi estivi, immagino. Aggiungere uve, olive, fichi d’india, formaggi, il gorgoglio dell’acqua, forse un po’ di musica, mi sta già venendo sonno, quello placido da estate di cicale sul Mediterraneo.

Che meraviglia. Non c’è nulla che supporti un turista, a parte un bagno e un negozietto, c’è un enorme generale militare che sotto un ulivo mangia una bric, una specie di omelette ripiegata, e non ci sono nemmeno turisti. Mangio un piatto di piatto tipico della zona, uno spezzatone di cinghiale – dovremo cominciare a mangiarli anche noi, insieme alle nutrie -, bevo un caffè dal cui fondo potrei trarre auspici per anni e ripiglio le mie carabattole e torno a Tunisi, che domani voglio andare sulla costa.


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minidiario scritto un po’ così di una breve campagna punica: zero, un salto di là, fragole in Numidia, tutti tranne me. Finora.

E per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità. Se quest’altra velocità lo sia effettivamente, e ancora, è tutto da vedere e l’unico modo, banalmente, è vederlo. Però io ci arrivo bello veloce, sorvolando un mediterraneo azzurro estivo, spumeggiante per il vento ed è impossibile non pensare ai fenici di allora e ai barconi di oggi, a Ulisse, all’Achille Lauro e a tutto ciò che c’è stato in mezzo e attorno. Se sulla metà settentrionale del gran mare vado forte, quella inferiore la sto completando, piano piano. Ed è per quello che sto atterrando in un posto che tutto si potrebbe dire tranne l’aeroporto: Cartagine. Delendo è ‘sto aeroporto, attenti voi.

Un’ora di volo ed è Africa, Maghreb, Tunisia, Tunisi, dal grande al piccolo, ed è luogo di relazione stretta con l’Italia da sempre, luogo di nascita di tanti, Claudia Cardinale la mia preferita, e luogo di fuga di pregiudicati italiani. Stranamente preferisco Annibale, i Barca, i fenici, Didone e tutto quello che scoprirò nei prossimi giorni. Eh, son fatto così.

Berberi, considerati autoctoni ma che qualcuno, forse Erodoto, faceva provenire dall’oriente, Numidii e Libii, poi i fenici, sempre proiettati nella fondazione di nuove basi commerciali nel Mediterraneo, i cosiddetti fenicio-punici, poi, ovvero la commistione con le popolazioni locali, per arrivare alla grande epoca di Cartagine, dal nono secolo avanti cristo, fino ai secoli di accordo con Roma e poi la fase del conflitto, sfociato in sei secoli di dominazione romana; a essa, senza soluzione di continuità, di fatto, seguì l’invasione vandala, porelli, e la riconquista di Giustiniano, di Bisanzio dunque, e poi quella araba, alternata poi ad avanzate e recessioni andaluso-spagnole, esistono ancora villaggi andalusi in cui si suona la musica tipica, il malouf; l’impero ottomano per arrivare in seguito al colonialismo francese dei giorni nostri che segna la nascita della Tunisia odierna, stato inesistente fino al 1811. Insomma, tutti o quasi sono passati e restati e andati in questo pezzo di nordafrica, unito a Libia e Algeria in una stessa macroregione storica, il che fa di queste zone uno dei luoghi da visitare. Eccomi qua, infatti: come sono incredibilmente più interessanti le zone di confine, di sovrapposizione, di mescolamento, come l’Europa dell’est, la Spagna, la Turchia, la Siria, l’Egitto e tutto il Mediterraneo. orientale. Per restare in zona.

Arrivo a Tunisi il sabato sera, domenica di fatto per i musulmani, si aggiunge una partita della coppa tipo Champions League d’Africa in cui gioca una squadra tunisina contro una, forse, del Niger, tira una certa arietta fresca per cui non è che per le strade non si cammini. Un pescetto alla brace, una zuppetta con qualche cereale, una salsina piccantosa immersa in olio, qualche dattero fresco, due fragole nei baracchini – cose che non bisognerebbe fare secondo la guida del turista debole di intestino – e via, domani sono pronto a muovermi verso l’interno, la Numidia di Sallustio, Giugurta, Massinissa e Sant’Agostino.

I ragazzi, intanto, guardano la partita.


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la fine dei tempi

Raccontavo qualche giorno fa dell’abbazia di Viboldone e del suo giudizio universale, di quel meraviglioso particolare dei due angeli che a destra e sinistra sono intenti ad arrotolare il tempo della storia.

Si è arrivati al giudizio, bon, si chiude e si impacchetta il tutto. Poi sarà Gerusalemme celeste e finita lì, a dio piacendo altri esperimenti e tentativi con la vita.
Il soggetto è strepitoso, perché lo è l’idea che è sottesa: il rassetto quasi domestico di ciò che è materiale, il cielo, la terra, i tappeti, i maglioni negli armadi. Si fa pacchetto, si copre tutto, si mette via.

Il soggetto, lo dicevo, non è nuovo, aveva già alcune attestazioni. Il presunto autore del giudizio di Viboldone, Giusto de’ Menabuoi, era stato a Padova e aveva certo visto Giotto e la cappella degli Scrovegni e là, presumibilmente, aveva tratto ispirazione per il dettaglio. Infatti, anche nella cappella giottesca due agnolotti ripiegano il cielo dalle due estremità, uno dalla sera con la luna e uno dall’altra parte, dove c’è il sole.

Dietro di loro, porte e pareti ricolme di gemme promettono delizie ultraterrene ma quella lunotta col nasone non può che suscitare simpatia e nostalgia, altroché, per ciò che sta finendo ed è consumato, per la vita terrena in definitiva e per tutte quelle belle cose e sciocchezze e sublimità che abbiamo avuto e ci siamo inventati quaggiù.

concerti mancati pt. 5

Marò, i Marillion.
Chiariamo, come se servisse dirlo: con Fish, gli unici Marillion che io conosca. Ovvero: Script for a Jester’s Tear, Fugazi, Misplaced Childhood e Clutching at Straws. E Real to Reel e The Thieving Magpie, cioè cinque anni scarsetti.

Chiaro che genesiseggiavano, bella scoperta, e che lui gabrieleggiava, indovina. E allora? Tutti inventori di cose nuove? Ovviamente no, l’impianto era davvero solido, musicalmente, vocalmente e dal punto di vista compositivo, mica per caso si chiamò neoprogressive. Diciamo sentirli nel 1984 a Sheffield, quando annuncia una nuova canzone intitolata Fugazi, oppure all’Hammersmith Odeon nel 1986 ma certo non butterei via Edimburgo nel 1987.

Di concerti ne ho visti tanti ma ne ho mancati molti, molti di più.
10.000 Maniacs, Crosby, Stills and Nash, Dire Straits, Marillion, Natalie Merchant (recuperato, tre volte), No Doubt

la musica delle stagioni, inverno 2023

Finisce l’inverno e la cosa importante non è la luce, il caldo, le foglie, i fiori, l’amore: la compila.
Ecco le settantasei canzoni della stagione appena conclusa, quasi una al giorno e, se dovessi azzardare una valutazione, direi boh. Vivo proiettato verso il futuro, che ne so io del passato? A me piace, ovvio, ci mancherebbe non lo facesse, sarei stolto: si apre con un classico dance settanta, però nella versione rock Blue Man Group con la grande Venus Hum, per chiudere con una nuova uscita, il singolo dei Vampire weekend. E si pregusta un tour, immagino. In mezzo c’è anche roba truzza, come sono io sovente.
A proposito: concerto della mia stagione è stato senz’altro Alison Goldfrapp al Barrowlands Ballroom di Glasgow, che divertita con gli amici scozzesi, che indigestione di paillettes. Magari racconto.

Praticamente cinque ore, quanto ci si può mettere da Roma Termini a Fiumicino stando quattro ore e mezza al bar a sentire la musica.

Le compile vere e proprie: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore) | estate 2022 (42 brani, 2,33 ore) | autunno 2022 (71 brani, 4,5 ore) | inverno 2022 (70 brani, 4,14 ore) | primavera 2023 (74 brani, 4,23 ore) | estate 2023 (53 brani, 3,31 ore) | autunno 2023 (92 brani, 6,9 ore) | inverno 2023 (76 brani, 4,5 ore) |

Bravo me, mi dico, che apri le orecchie e sei meno talebano di un tempo. Si migliora, crescendo, eccome. Dentro, almeno, e questo mi basta per compensare. Bon, avanti, allora, che con la primavera siamo già a tre brani e l’estate è là in fondo che già rompe.