Nessuno, banale dirlo ma evidentemente bisogna ancora dirlo, dovrebbe essere prigioniero per le proprie idee. E, tantomeno, morire in carcere per esse.
Io non conoscevo, sono onesto, Liu Xiaobo né ho mai letto nulla di suo ma vedere la consegna del nobel per la pace a una sedia vuota è stato triste e deprimente.
Dopo di che, per quel poco che ne ho letto ora, non sono d’accordo con le sue posizioni sull’Iraq e probabilmente nemmeno su quasi tutto il resto, come d’altronde manco mi piace il nobel per la pace e i norvegesi, ma tutto ciò non conta niente: non si deve morire prigionieri per delle idee.
Non di ciò che vedi: di ciò che vorrebbero che vedessi.
Lo dico? La realtà è bellissima, nasconde un sacco di sorprese e non ha alcun bisogno di essere sempre saturata, riempita di colori di tendenza, filtri ed effetti della minchiella, né tantomeno ha bisogno di essere illuminata in ogni sua parte. Se no, diventa irrealtà.
Non è nemmeno il caso, per la propria salute mentale, di far finta di vivere in un mondo di aurore boreali perenni e di unicorni che cagano arcobaleni, altrimenti il risveglio nel proprio letto diventerà sempre più difficile di mattina in mattina.
Ecco qualche foto social – nel senso che è stata scattata con l’apposito fine e poi finisce dove sappiamo – ovvero una signorina in atteggiamento campestre:
Persone coraggiose che raggiungono posti sperduti e fanno cose molto rischiose:
Altre due signorine in pregevole contesto naturale e dalla bellezza soffusa che si sono, evidentemente, fatte degli autoscatti:
La gioiosa atmosfera delle foto del matrimonio, quando piove fresca rugiada dal cielo in un mattino primaverile:
Un po’ di still life a scopo commerciale, in particolare le auto e le ambientazioni funzionano parecchio (qui però siamo al confine della fotografia ben fatta):
E, infine, un’elfona che invece di stare nelle pianure boschive sta al primo piano di fronte al karaoke. E non pulisce di certo i vetri.
La realtà bisogna trattarla con attenzione, bisogna volerle bene e averne cura, non fingere che sia diversa. Pazzi.
Essendo gli Who i più grandi di tutti, si potrebbe fare una rubrica con canzoni solo loro. Una tra le più belle in un disco tra i meno riusciti: They are all in love.
«Where do you fit in (fare il rumore della scorreggia con la bocca) magazine / Where the past is the hero and the present a queen / Just tell me right now where do you fit in / With mud in your eye and a passion for gin». Bellissima, tre minuti meravigliosi, se avete un cuore non potrà che andare in estasi. Se non l’avete, il problema è – chiaramente – un altro. [Qui la scena di Roadies, chi sa sa].
A destra o a sinistra? Statista ha pubblicato la mappetta con i paesi che guidano a destra e quelli che, pazzi, guidano a sinistra.
Si sa, la maggior parte sono ex colonie inglesi e, di conseguenza, guidano strano. Alcuni, come per esempio la Svezia, hanno nel tempo cambiato lato, uniformandosi alla maggioranza, senza poi tanti problemi.
Perché il lato giusto è la destra, no? Voglio dire, sia perché la sinistra è il lato del demonio ma anche storicamente, no?
E invece no. Tutte le antiche civiltà, egizi, greci, romani, assirobambini guidavano a sinistra. Per alcune semplici ragioni: al centro della strada era più asciutto e pulito, era più comodo impugnare la spada in caso di problemi con chi sopraggiungesse, salire a cavallo da sinistra è più comodo per un destro con spada a sinistra e così via. Quindi: sinistra. Pare sia poi con la rivoluzione francese che si sia adottato il lato destro, visto che nel tempo il lato sinistro era rimasto privilegio dei cavalieri e dei carrozzati, mentre i poverelli dovevano arrabattarsi sull’altro lato, sul wild side. Quando uno non se l’aspetta, proprio.
Filip Hodas è un illustratore 3D ceco e si diverte a immaginare le icone pop in un futuro non troppo lontano.
Il ragasso poi è giovane e, quindi ha una visione particolare sui videogiochi e gli anni Ottanta per lui devono risalire a una certa preistoria. Il mio preferito, per ragioni affettive.
Il mio vicino di banco in ufficio sta sempre al telefono. E mi disturba.
Mi deconcentra, mi confonde, mi stanca. Avrei bisogno di isolarmi, di restare tranquillo, di avere un posto mio in cui io possa lavorare in silenzio.
Cambiare ufficio? Fare mobbing al mio collega finché non se ne va? Tappi per le orecchie? Creare il vuoto in ufficio? Niente di tutto questo.
La risposta è solo una: Helmfon. Il casco per isolarsi.
Signore, ti prego, fa’ che diventi realta: io voglio avere Lord Casco in ufficio, per sempre. Già così non riesco a smettere di ridere.
Il giorno dell’Indipendenza è una festa ad alto grado di patriottismo negli Stati Uniti e una cosa piuttosto seria. Si festeggia, eccome, ed è concesso un pochetto di spirito ma non troppo. O, almeno, non internamente ma solo verso gli altri paesi.
Ed è allora che il genio di qualcuno prende il largo, per fortuna.
Alcuni altri modi meno brillanti e molto americani per celebrare la ricorrenza, alcuni davvero ghei, diciamolo, e altri che condurranno a morte certa.
Nicki Bluhm, insieme ai Gramblers, è una musicista americana in giro da una decina d’anni a un certo livello: con una band di ottimi musicisti fa tour all’incirca da duecentocinquanta serate all’anno e se le merita tutte. Tutta sostanza, niente vaccate, tuning o campionamenti, solo tanta voglia di suonare e ottimo rock, in giro con gli amici, su e giù da un palco. Per intenderci, basta ascoltare Little Too Late, dal disco omonimo del 2013: qui nella versione pubblicata.
Ma non è su disco che danno il meglio, come dicevo: è dal vivo. Quindi, bisogna ascoltare dal vivo. Vualà, dal vivo nello studio.
Ma ancora non è abbastanza. Perché sì, suonano benone e Nicki guida il tutto ottimamente, ma ancora non sono al massimo. Perché il massimo lo danno tra una data e l’altra: viaggiando. Già, ma come si fa? Si piazza un telefono sul cruscotto e, guidando, si suona e si canta (in questo caso Hall and Oates), tanto la strada è dritta e non c’è un cacchio di nessuno.
Sì, sono le Van Sessions, e io l’ho amata fin dal primo secondo di assolo di kazoo. E via così, divertendosi per il gusto di farlo, quindi vanno benissimo Whitney Houston e George Michael, o le più serie (ahah) Stuck in the middle e Days like this. Quasi tutte le Van Sessions stanno qui e, finora, sono circa venticinque.
Da questa Van Sessions, poi, ne sono state tratte alcune performans più strutturate, all’interno di un grosso furgone, fermo, e la cosa è diventata una specie di marchio ricorrente per parecchie band in giro, le Jam in the van. Una cosa così.
Ma il meglio lo danno viaggiando per conto loro, tra uno stop e una serata, ed è così che è divertente ascoltarli, per me. In attesa di vederli il 6 ottobre a Venezia. Posto strano per la loro musica ma a me va benissimo, in attesa di andare a San Francisco, prima o poi. Easy.
E a volte non serve nemmeno una band o un cantante, basta un pezzo buono e un pubblico all’altezza.
E accidenti se lo sono, a Hyde Park. (Per chi ha bisogno di dettagli, il pubblico in attesa del concerto dei Green Day sentendo Bohemian Rhapsody dagli altoparlanti gli è andato dietro). Da brividi tutto e in particolare da 4:04.
Tanto mica è sua, no? Sarà di qualche amico che paga, perché in vacanza non si sta a guardare chi paga cosa. Godo.
Tra l’altro, trovo la spiegazione degli invasori («Anche i nostri figli hanno diritto a una vacanza») davvero ineccepibile.
facciamo 'sta cosa
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