gli anni novanta in trentotto pezzi facili

Il decennio dei miei vent’anni, da quel che ricordo penso di non averlo passato in casa. Mi pare. A ogni modo, è stato un periodo splendido per la musica, uscivano dischi eccellenti senza soluzione di continuità, e a ben pensarci c’è un sacco di musica che risale al periodo che, in qualche modo, ha segnato un’epoca.
A memoria, mia, ecco qualche pezzo esemplificativo del tempo, senza troppa uniformità. Così, per fare una bella corsa:

Tante cose.

laccanzone del giorno: Cake, ‘Short Skirt / Long Jacket’

I Cake sono un gruppo eccezionale: eclettici, bravissimi, spiritosi, innovativi ma allo stesso tempo – eccezionali per questo – stranamente compassati, stralunati, a volte poco comprensibili, completamente inadatti allo showbiz.
Dal 2011 non pubblicano un disco, è dal 2014 che non li si sente, la volta che li ho visti a Milano dal vivo hanno cercato, a un certo punto del concerto, di regalare una pianta a una fortunata spettatrice, non riuscendoci del tutto. Insomma: decisamente al confine, labilissimo, tra genio e incomprensibile follia.
Come questo video: grandissima canzone, un video bello ma del tutto inutile, visto che la canzone la sentono bene solo le persone con le cuffie (qui per sentirla meglio).

Perfettamente Cake.
Ogni loro disco è ottimo, perfettamente ascoltabile senza sorprese negative, tutta la loro discografia è di rara compattezza e coerenza e spazia senza difficoltà dalle influenze mariachi a quelle della musica folk iraniana. Inarrivabili.
(Oh, il lettore cd portatile, manca solo il dinosauro…).

woo-hoo

Quanto sono bellissimi i documentari in generale e in particolare quelli musicali? Lo sono, sono bellissimi. Parlerò più avanti di Soundbreaking, di Sonic Higways, di Supersonic, di Soul of America, di Miss Sharon Jones, o magari no, comunque qualche sera fa ho finalmente visto questo.

Che è del 2010 ed era, quindi, ora. Che dire? Che per me tutto quello che vien fuori dai Blur va sostanzialmente bene e questo documentario non fa eccezione. Certo, è molto molto centrato sulle ragioni dell’uscita di Coxon dalla band e sui motivi di risentimento tra lui e Albarn, sulle riflessioni di James, il bassista che ha scritto anche un libro sul suo periodo nei Blur, e molto poco sulla parte per me più interessante, ovvero la scrittura dei pezzi e degli album, la vita in una band catapultata nel bel mezzo di una guerra commerciale e il successo spropositato. Pochino, da quel punto di vista, pazienza.
Al documentario si accompagna il videone del concerto della reunion a Hyde Park nel luglio 2009 e quello sì che è trascinante da guardare, come lo sono da ascoltare i dischi dal vivo usciti allora. Perché i concerti dei Blur sono strepitosi, divertenti ed esagitati, io ne ho visto uno in Belgio in una notte d’estate del 2013 e ancora me lo ricordo come bellissimo, sicuro nella top faiv delle cosone dal vivo. Ecco qua un pezzo che rende l’idea di quella notte.
Un’idea abbastanza precisa di come sia un concerto dei Blur si può avere qui, dal concerto di Hyde Park del 2012, eccezionale. Ma bisogna guardare il pubblico saltare tutto insieme ed essere lì in mezzo per saperlo davvero.

Il documentario è integralmente visibile qui.

toponomastica poco positiva (desolation row)

Legata a ragioni colonialistiche, piuttosto che storiche o accidentali, esiste tutta una toponomastica minore fatta di stragi, disperazione e pessimismo.

Unfortunate Cove, Cook’s Harbor, Canada

Suicide Bridge Road, Hurlock, Stati Uniti

Nowhere Else, Tasmania, Australia

Disappointment Island, Nuova Zelanda

Little Hope, Texas, Stati Uniti

Damien Rudd si è dedicato prima alla raccolta e poi, come è ovvio, al libro.