In ambito natalizio, una miniselezione di presepi casalinghi. I chiodi, per amanti del Brico e del fai da te:
E quello fatto da noi, in ufficio, con il babbo-colla, la mamma-gomma, la montagna della pizza e il figlio informatico, sotto l’attenta supervisione della Grande Scheda.
Se vivete in pianura padana o in città che fanno parte del network in tutta Italia, allora siete in grado di ascoltare Radio Popolare.
Radio Popolare è una radio importante, perché è l’unica radio italiana davvero a carattere informativo (per esempio, è l’unica che apre davvero i microfoni agli ascoltatori senza rete) e, proprio per fare questo, è una radio senza padroni.
Infatti, la radio è sostenuta in buona parte con gli abbonamenti degli ascoltatori (tra i tanti, anch’io) e da poca pubblicità.
L’obbiettivo del 2018 è passare da quindicimila a ventimila abbonati (nota bene: su un bacino di duecentomila ascoltatori giornalieri!), un impresa eccezionale, che va sostenuta e incoraggiata, a parer mio. Le vie sono molte: abbonamento, tessera, donazione e via così. Perché la radio è in difficoltà e gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, aiuti alle imprese in difficoltà) stanno finendo.
Dai, fate un bel regalo per natale a voi, a tutti noi e alla libertà di informazione.
Anche Diabolik ed Eva Kant ascoltano Radio Popolare e sono naturalmente abbonati.
In fondo alla Spagna, giù giù, c’era una volta il West. Quel West in cui Clint Eastwood puntava il fucile contro il Brutto nel cimitero, in cui avvenivano gli indimenticabili trielli e Terence Hill era la mano destra del diavolo: Almeria.
Era un West che costava meno ed era più raggiungibile per chi al western mescolava gli spaghetti. Ecco cosa resta oggi dei set costruiti per tutta l’epopea western degli anni Sessanta, Settanta e un pochino di Ottanta.
Tutte le fotografie sono di Mark Parascandola, fotografo americano che ne ha tratto anche un libro.
Nello sport, di questi tempi, bisogna far finta che accada per caso e cogliere tutte le occasioni che si presentano.
Briante Weber dei Los Angeles Lakers e Emmanuel Mudiay dei Denver Nuggets, 4 ottobre, Citizens Business Bank Arena di Ontario, California (Jayne Kamin-Oncea-USA TODAY Sports/LaPresse)
Harlee Dean del Brentford e Craig Conway dei Blackburn Rovers, Sky Bet Championship, Brentford, Inghilterra, 7 maggio (Justin Setterfield/Getty Images)
Negli ultimi anni Amburgo è diventata una destinazione importante per un sacco di turisti a causa del Miniatur Wunderland, ossia un posto tutto pieno di plastici, trenini e miniature varie. Bello, per carità, ma insomma (palloso). A parte quello, il sentire comune del cittadino europeo non pone Amburgo tra le destinazioni appetibili, e questo è – augh io dico – un errore.
Ecco dunque: tre motivi validi per andare ad Amburgo.
Motivo uno: Sankt Pauli.
In tutta la Germania vi diranno che il posto più malfamato del paese, dove di sicuro verrete rapinati, è St. Pauli, un quartiere (una volta) popolare e a luci rosse di Amburgo (Reeperbahn). Ho superato il terrore e ci sono andato e ho trovato un quartiere più pulito e in ordine di quello in cui vivo io (e chiunque di voi, sicuro). Un bel po’ di clab a luci rosse, va bene, parecchi ubriachi ma ubriachi tedeschi, che quando finiscono di bere gettano la bottiglia nella raccolta differenziata (e in Germania raccolgono il vetro per colore, molti di noi non ce la farebbero da sobri). Non esattamente il Bronx. Un quartiere popolare, certo, gradevole e caratteristico, oggi preda della gentrificazione e dell’assalto degli hipsters maledetti, che lo ridurranno a breve nel quartiere più costoso di tutta la città.
Le due cose per cui viene ricordato sono: è il quartiere nel quale, grazie ai piccoli clubs, debuttarono i Beatles e molti altri della musica del tempo, e ha una squadra di calcio, il Fußball-Club St. Pauli von 1910, che è stata la prima a bandire i tifosi di destra dalla curva, ha come simbolo la bandiera dei pirati, il jolly roger, la società ha nel proprio statuto la lotta al razzismo, al fascismo, al sessismo e all’omofobia (e spesso prende posizione) e, infine non ultimo, apre le proprie partite con Hells Bells degli AC/DC e celebra ogni gol con Song 2 dei Blur. Basta? A me sì.
Motivo due: il porto.
Dopo Rotterdam, che vale il viaggio, Amburgo ha il più grande porto commerciale europeo e vale la pena visitarlo: basta prendere uno qualsiasi dei battelli che organizzano il tùr del porto (giro breve-giro lungo, a piacere) e guardarsi attorno. Bellissimo, per chi apprezza il genere, si ammirano gru incredibili e muri di containers altissimi. Un video dimostrativo fatto da me alcuni mesi fa.
Motivo tre: i magazzini del porto.
Nell’ultimo quarto dell’Ottocento furono costruiti 17 enormi magazzini vicino al centro della città, con lo scopo di servire il porto. Le dimensioni sono tali che si parla di “città dei magazzini”, Speicherstadt, ed è talmente bello tutto il complesso che oggi è patrimonio Unesco e vale da solo una visita. I magazzini sono alti almeno sette piani, tutti costruiti in mattoni e sono oggetto del desiderio di architetti, designers e chiunque altro apprezzi i posti molto molto fichi. Trent’anni fa nessuno li avrebbe voluti, nemmeno in regalo, ci scommetto. Ecco un altro mio video che ci mette molto poco a convincere di quello che sto dicendo.
In complesso, la città è vivace e molto vivibile, capace di rinnovarsi e darsi un’anima nuova (vedi, per dirne una, l’Elbphilharmonie), i voli costano poco perché, certo, non è considerata una destinazione appetibile (ma lo diventerà, ne sono certo), senza dubbio non vale città maggiori della Germania (anche a causa del fatto di essere stata pressoché rasa al suolo nel ’43) ma ha temperamento e (almeno) tre cose per cui vale la pena fare il viaggio. Ah, alcune informazioni utili al volo: non sanno cosa siano gli hamburger e non ci sono galletti, appunto, amburghesi; i cittadini di Amburgo si ritengono dei gran buongustai per cui non troverete molta cucina tedesca tipica a parte lo sbobbone di aringa tipico della città; il reddito pro capite è il doppio di quello dell’UE per cui le stanze d’albergo e i pernottamenti sono in generale piuttosto cari. Vualà, ecco fatto.
Oggi alle 17:28 comincerà l’inverno, finalmente, la declinazione negativa raggiungerà il valore massimo, dando a questo punto inizio all’estate australe. Buona estate australe a tutti i meritevoli.
Vittorio Emanuele III, Sciaboletta per i detrattori, fu un re sciagurato, è bene ricordarlo mentre viene rimpatriata la salma.
Appoggiò bene o male, per incapacità o per convinzioni vergognose, tutte le scelte del fascismo, dopo averne consentito l’ascesa: lo scioglimento di partiti e sindacati, la soppressione delle libertà individuali e collettive, l’avventura coloniale in Etiopia, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali, la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia, la successiva proditoria aggressione alla Grecia eccetera.
Inoltre dopo l’armistizio scappò: il che avrebbe avuto anche un qualche senso, ma non certo lasciando l’esercito allo sbando senza direttive e il paese in mano alle scorribande dei tedeschi.
No, quindi, al rientro e tantomeno no a quanto possa essere in favore della sua figura. È già molto che sia stato consentito ai Savoia di tornare in Italia, schifosi.
Per formare il genitivo singolare, il polacco aggiunge una desinenza in fondo, a seconda si tratti di un sostantivo o di un aggettivo. Nel caso del sostantivo singolare, qualora sia maschile e animato la desinenza da aggiungere è -a, -a/u nel caso in cui sia invece inanimato; qualora il sostantivo sia femminile o neutro, la desinenza sarà -y/i (se il nome finisce con -k, con -g o con -j) o -a.
Tutto ciò genera dei buffi effetti per noi italiani, come per esempio piazza Wagner che diventa, effetto asilo, Wagnera. Insomma, tutta ‘sta sbrodolatina per presentare finalmente il memorial polacco dedicato all’indimenticabile tastierista dei Deep Purple, Jon Lord.
La elle col taglietto, al momento, non so bene come affrontarla. Più avanti, magari.
Omioddio, questa cosa la devo scrivere perché è troppo preziosa per non condividerla con tuslemond.
Parliamo di windows, di quelle cartelle (o files) che per ragioni note solo a windows stesso è impossibile cancellare perché, dice il sistema, è «Impossibile trovare l’elemento». Bella merda, poi uno sta anni con queste cartelle (o files) – che ‘sto pistola di sistema invece fa rinominare e non cancellare va a sapere te perché – piazzate da qualche parte senza poterle eliminare. Niente da riga di comando, niente con unlockers o sbrinatori vari, niente nemmeno pregando Ganesh.
Eppure.
Eppure si può. Ed è pure semplice.
Ecco come: basta avere winrar, tasto destro sulla cartella/file, selezionare il comando “Aggiungi ad un archivio…” e nella finestra delle opzioni spuntare la voce “Elimina i file dopo l’archiviazione”, come da freccina qua sotto nell’immagine.
Fatto. Lo so, anche io ci sono rimasto secco. E ho ancora il batticuore per l’emozione.
Funziona anche con 7zip, medesimo procedimento. Anni sprecati nella più ampia sofferenza di fronte a quelle cartelle e ora non ci sono più. Piango lagrime di gioja.
Un ringraziamento deferente a questi signori che mi hanno indicato la via: servo vostro, per sempre.
Aggiornamento delle 9:50
Vedi le coincidenze, stamattina mi trovo a lottare contro un file che per una qualche ragione (client del cloud, fanculo) contiene un carattere proibito (/) nel nome. Windows, di conseguenza, non cancella e non rinomina, a causa sempre del fatto che è «Impossibile trovare l’elemento». Il metodo winrar qui sopra non funziona (a causa del carattere che viene interpretato come percorso) e nemmeno da prompt (rd nomecartella /s) sono riuscito a fare nulla.
In questo caso ho risolto utilizzando lo strumento “Controllo errori” su disco di windows, che è riuscito da solo a normalizzare il nome e rendere, quindi, il file cancellabile. Ecco, sempre in caso servisse a qualcuno.
La biblioteca di scienze della città di Görlitz è un posto molto affascinante, non solo per la simmetria e la prospettiva.
È uno di quei luoghi che, esteticamente, paiono un set perfetto per un film di Wes Anderson. Ce ne sono molti altri, uno particolarmente interessante è l’Hotel-Restaurant Belvédère al Furkapass.
Bellissimo. Non è un caso che abbia iniziato con Görlitz: nella città tedesca al confine con la Polonia è stato girato Grand Budapest Hotel, tutto torna in qualche modo.
Qualcuno (accidentallywesanderson), condividendo questo tipo di curiosità, si è messo a raccogliere immagini di luoghi che potrebbero, nel senso che non lo sono stati ma che avrebbero potuto, essere dei magnifici scenari per film di Anderson. E sono bellissimi da vedere, uno a uno, perché in effetti l’estetica di W.A. è davvero notevole e molto molto piacevole da guardare.
facciamo 'sta cosa
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