minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 64

When I’m sixty-four. Oggi. Sessantaquattro giorni, bel numero per la matematica, bel numero per noi anche se, tutto sommato, se la situazione non precipita, abbiamo parecchi sprazzi di vita quasi normale. Per esempio, oggi il primo caffè al bar. Oddio, detta così non è che corrisponda molto alla realtà dei fatti: si è trattato di mettermi in coda, nella formazione ormai consueta del persona-duemetri-persona-duemetri, aspettare il mio turno, interloquire con il barista sulla porta sbarrata del bar, fare l’ordinazione, aspettare, ricevere un bicchierino di plastica con dentro il caffè, una bustina di zucchero e una palettina. Non solo: da consumare rigorosamente non lì, magari in macchina o, magari, visto che io non ero in macchina, nascosto dietro qualche angolo furtivo. Oserei dire che il gusto si è un pochino perso. Perché il bello, parlo per me, è appoggiarmi al banco, magari fare due chiacchiere, sentire sfiatare la macchinona del caffè, guardarmi in giro e magari sparare una minchiata. Da bar, appunto. Così no, si perde tutto il bello, infatti non saprei dire come fosse il caffè: bevuto in fretta camminando e bon, fine. Nemmeno loro, intendo i baristi, hanno ancora preso la mano sulla cosa, tendono a essere un po’ legnosetti nella gestione degli ordini e della fila. Per carità, con il tempo, è pur vero che abito in una città che dell’aver la testa dura, nel senso di dura ma anche di lenta, ne ha fatto manifesto, ma mi permetto di dare due suggerimenti al volo, da profano consumatore: a) prendere gli ordini in una volta sola di due/tre persone in coda velocizza di molto la faccenda, peraltro come di solito già facevano al bancone; b) preparare bustine e palette alla porta del bar, dove si prendono gli ordini, armonizza le operazioni. Ecco, giusto per rendermi utile. O no, in realtà lo faccio per me. Perché lo ammetto: odio fare la coda. O-d-i-o. Non da oggi, da sempre. Piuttosto vado alle quattro del mattino ma stare in coda è una cosa che mi riesce difficile. Non è l’attesa, nel senso che posso aspettare un autobus per un’ora senza grandi problemi, credo sia proprio la coda: delle persone, davanti, che fanno domande o si perdono via, facendo aspettare me. Sì, è l’elemento umano che mi disturba, finisce che sto lì ad ascoltare e invariabilmente se uno davanti a me fa una battuta non rido (e penso andiamocene fuori), se fa una domanda viene da rispondere a me (no, ha finito?), se è indeciso sceglierei io al posto suo (quello, finito!). Lo so, poco simpatico. E sarà bene che me ne faccia una ragione perché, come dicevo, la coda sarà il fattore caratteristico dei prossimi tempi. Lo è già e lo sarà ancor di più. Nel frattempo, oggi quasi ottocento nuovi contagiati, ed è un numero basso, considerando che è una quantità che non si vedeva dal 6 marzo, pre lockdown. In questi giorni i dati sui contagi e i decessi sono sempre preceduti dall’avverbio «solo», nel senso che sono in costante diminuzione, anche se riferito ai decessi suona sempre sgradevole. La locuzione esatta è: «Oggi solo».

Domenica di sole e, visto che è possibile uscire, sono uscito. E sono uscite anche le persone in reclusione stretta, dopo la prima timida uscita del 4, questa settimana hanno preso confidenza. La cosa buffa cui assisto è che coloro che sono stati in clausura osservante non hanno appreso le modalità di distanziamento sociale che noi, che più o meno siamo usciti nei due mesi scorsi, invece ormai consideriamo quasi scontate. Per esempio, quindi, vedo persone uscite da poco che tendono, invariabilmente, ad avvicinarsi troppo mentre si parla o a non pensarci. Oppure, hanno l’impulso di un gesto di affetto, un abbraccio, una stretta di mano, o di amicizia, una pacca sulla spalla, un buffetto, che ancora non trattengono perché non si sono ancora educate ai gesti della distanza. Non è un bene, intendiamoci, essere assuefatti a non toccarsi e a non scambiarsi alcunché. Per esempio, la mia mamma, con gesto affettuoso, ha preso delle fragole e me ne ha porte alcune dalla sua mano gentile (e nuda). Posso biasimarla per questo? Ovviamente no. Sono i tempi, da biasimare, eccome, tutto il resto è solo da apprezzare.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 63

Alcune brutte notizie e una buona di questi giorni: sono deceduti, purtroppo e tra gli altri, Little Richard, che aveva pure la sua veneranda età ma avendo in sostanza inventato il rock ‘n’ roll io gli sono riconoscente in eterno, poi Piero Gelli, fine filologo gaddiano e direttore editoriale di Einaudi e Garzanti, tra le altre, e infine Franco Cordero, di cui parla meglio di me Federico qui sotto. La buona è che, dopo 536 giorni, è stata rilasciata Silvia Romano. «Che Italia troverà?», si chiedono alcuni pensando alla pandemia, «la solita Italia del cazzo», rispondo io pensando alla pletora di merdine sparpagliate in rete che si chiedono aggressive quanto sia stato pagato di riscatto «con i nostri soldi». Naturalmente, fossero stati rapiti loro pretenderebbero il pagamento eccome, ma non c’è pericolo: dato che nulla fanno per rendersi utili all’umanità, possono stare tranquilli sul divano a commentare. Bentornata Silvia, finalmente. Così al volo: il TAR della Calabria ha bocciato, surprais!, l’iniziativa della presidente Santelli di riaprire i ristoranti fin da subito, si sapeva e nel frattempo lei ha avuto le sue due paginette di notorietà. Altrimenti le toccava darla a Berlusconi, capisci bene che meglio spararne una grossa. Il Ministero ha comunicato che gli orali della maturità cominceranno il 17 giugno con cinque studenti interrogati al giorno, e qui si intende di persona, davanti alla commissione. Mi pare giusto, alla fine è una tappa importante e vale la pena che sia la più normale possibile. Meno normale, a proposito di esami, invece sono quelli che ho visto gestire alla mia amica T. stamane, in diretta in videoconferenza: a parte un senso della puntualità discutibile, alcuni di loro erano sì e no usciti dal letto da poco e il letto, sfatto, era ben visibile dietro di loro. Accomodati alla meno peggio, si sono presentati per sostenere l’esame. Ora, purtroppo il fatto è che ormai, in parecchie istituzioni scolastiche del paese – quelle equiparate, diciamola chiara – i figlioli non sono discenti e, quindi, cazziabili ma clienti e, in quanto tali, vanno incoraggiati e coccolati. La frustrazione di T. era visibile e palpabile, mi spiace. Anche per i pischelli, cui mancherà un pezzo davvero importante dell’istruzione superiore, quello che ti insegna a stare al mondo. Un caffè di Milano ha installato per primo, o tra i primi, delle divisorie di vetro o plexiglas in mezzo a ogni tavolo, per separare i due commensali altrimenti troppo vicini. Bene, proviamo. La cosa buffa è che il titolare sostiene, convinto, che «ai clienti piace» e qui la mia credulità un po’ vacilla, perché l’effetto Poste è francamente inevitabile e a chi piace prendere un’insalatina di avocado allo sportello delle Poste? Mah, a questo punto devo provare pure questa. Alle Poste, intendo, non al caffè di Milano.

La notizia seria è che, tra i vari parametri monitorati dalla Regione Lombardia, basati quasi tutti su dati inesistenti se le abitudini non sono mutate nelle ultime notti, uno abbastanza certo (il condizionale è sempre d’obbligo con questi) sono i ricoverati in terapia intensiva: ecco, con cinquecento nuovi casi, la Regione ha dichiarato che si richiude e si torna a panificare a casa. Sono un po’ deluso, lo ammetto, speravo in qualcosa di un filino più sofisticato: un complesso incrocio tra il valore di R0, cioè il numero di riproduzione di base, e la durata della contagiosità dopo l’infezione di una persona, la probabilità di infezione e soprattutto il tasso di contatto, il tutto riparametrato su base demografica, sociale e tassonometrica. Invece no, io ti lascio uscire ma se ti fai male poi le prendi. Ma se stiamo a 499 tutto a posto? Birretta sui navigli? E se quelli malati che puntano la terapia intensiva li abbattessimo? Via puliti, tutti fuori. O anche solo nasconderli, senza fargli del male, basta convincerli a ritirarsi in un qualche albergo nel bosco. Però valgono solo quelli che in terapia intensiva ci finiscono per covid-19, eh, non facciamo scherzi. Che qua siamo tesi.

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idioti? Dipende dal punto di vista

La notizia in questi giorni che procura più click sui siti di informazione è quella degli assembramenti (si chiama clickbait): foto o video di gente che se ne frega e si assembra, appunto, senza criterio. La cosa è interessata, visto che a più click corrisponde un aumento delle tariffe delle inserzioni pubblicitarie.
Ora: come accennavo nel minidiario di ieri, è abbastanza facile scattare fotografie o video furbetti allo scopo di creare la notizia dove notizia non c’è. Ecco qualche esempio, per capirci (le foto sono precedenti agli obblighi di mascherina, quindi nessuno ce l’ha; i credits delle foto sono di EPA / Philip Davali / Olafur Steinar RyE).

Una coda davvero malfatta, distanziatevi perdio!

Ah no, mmm.

Anvedi ’ste stronzi, tutti appiccicati. E staccateve!

Pardon, mi hanno frainteso.

Vigiliiiiiii.

Mi danno addosso perché sono una persona scomoda.

La mia amica fotografa T. potrebbe farne anche di più sensazionali. Quindi, come sempre, prima di parlare provare a farsi almeno una domanda.

minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 62

Il problema dei due metri di distanziamento sociale è che sono, ovvio, in tutte le direzioni, due metri tridimensionali. Ergo, nel caso di una platea di poltroncine, i posti liberi attorno a una persona devono essere parecchi, di fianco, sopra e sotto. Per questo motivo, le ipotesi in discussione per i cinema, le sale concerto e gli ambienti simili è, dunque, di ammettere il venti per cento della platea, seduta a intarsio. Bene, non sarà entusiasmante per chi sta sul palco né per chi assiste ma pazienza. Però: come gestire i costi? Aprire un cinema o un auditorium per una o mille persone ha grossomodo lo stesso costo. Di conseguenza, alcune ipotesi: facilmente, il biglietto potrebbe costare il quintuplo, cinema sessanta euro, concerto tre-quattrocento; oppure l’artista potrebbe ridurre sensibilmente il proprio cachet; oppure, ancora, l’esercente dovrebbe ridurre il proprio margine e, insieme, il distributore nel caso del cinema. Probabilmente, anche stavolta la soluzione starà nel mezzo: un po’ di rinuncia per tutti. Lo spettatore paga di più, l’artista prende meno, il proprietario della sala incasserà meno. Questo per quanto riguarda i settori meno esosi, quelli che invece storicamente sono meno disponibili a compromessi si rifaranno sul cliente. Sto pensando, per esempio, alle compagnie aeree: i biglietti aumenteranno di parecchio, i servizi ridotti di molto. I treni, da quel che vedo finora, idem. I biglietti, ora, costano il doppio di prima, piuttosto facile risolvere la cosa in questo modo. Un ulteriore problema è però questo: mentre alcuni settori prima della crisi pandemica erano in crescita e facevano profitto, altri settori, i cinema più di tutti, erano già in grande difficoltà. Arduo, dunque, pensare di affrontare la situazione aumentando i prezzi o riducendo i servizi, se già le persone tendevano a preferire il salotto di casa alla sala, continueranno a farlo. Se poi non c’è nemmeno il popcorn, figuriamoci, o nemmeno ci si può sedere con gli amici a commentare il film, ovvero manca l’aspetto sociale di tutta la faccenda, sarà dura. Non so se ci fosse ancora qualcuno che andava al cinema per limonare, ma adesso sicuro che non si può. I ristoranti condividono con questo tipo di strutture alcuni aspetti e non altri, di certo la menomazione del grado di convivialità, fattore non del tutto trascurabile. Con l’asporto e la consegna a casa si potrà mettere una toppa alla diminuzione di clientela. Ogni settore dovrà trovare la propria soluzione, o mix di soluzioni. Fino all’artista di strada che dovrà, necessariamente, imparare a cantare con la mascherina, magari suonare con i guanti e inventarsi qualche modo creativo per spingere le persone a donare la moneta.

Nella vita quotidiana, ho ripreso alcune consuetudini. Per esempio, sono stato in ferramenta: ci siamo salutati calorosamente, come dei reduci. Aggiornamento sui due mesi, stati di salute di congiunti e affini, si percepisce il sincero piacere di rivedersi e ricominciare la vita di sempre. Vorrei del grasso per una porta scorrevole, per rimettere in moto tutte le cose. In lavanderia, per le camicie, la stessa cosa, mi raccontano che hanno dovuto chiudere un punto vendita, troppi costi. E questa sarà una costante, insieme alla coda. In forneria, comprare qualcosa di sfizioso, un po’ per festeggiare. Certo, poi qualche idiota in giro senza mascherina a bere l’aperitivo si vede, eccome, ma sono isolati, non ho percezione di ampia trasgressione. Anche perché il controllo sociale è piuttosto serrato, più per la paura di richiudere che di ammalarsi, direi. Se mi tocca tornare in casa per colpa tua, ti vengo a prendere. Chiaro che poi ogni zona è a sé, nella parte lombarda più colpita il timore è più forte. Milano meno. Non bisogna comunque fidarsi troppo delle immagini che girano in televisione o sui giornali, troppi reporter cercano solo la notizia o la fotografia che testimonii la trasgressione ed è anche piuttosto facile farla, basta cogliere l’angolo giusto. Per esempio, i navigli milanesi qualche giorno fa: vero, tanta gente e mica tanto distanziata, qualche gruppetto di ragazzi come se nulla fosse, ma se si aprono luoghi notoriamente di incontro, si apre alla possibilità di acquistare qualcosa da bere e mangiare e invochi la responsabilità dei cittadini come bussola del comportamento, dando peraltro spesso comunicazioni confuse, direi che un po’ di assembramento devi metterlo in conto. Altrimenti quei posti li tieni chiusi, coraggio. Inutile aprire e poi fare la paternale con i vigili. Una di loro, peraltro, commenta riguardo il controllo: «È come raccogliere il brodo con un cucchiaino», beh, dai, pensavo peggio, pensavo fosse il mare. Allora sì che sarebbe stata davvero difficile.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 61

In Francia analizzano il sangue di un paziente affetto da polmonite a dicembre, poi guarito, e scoprono che aveva già il covid-19. Alla faccia di noi italiani untori. Poi un italiano nazionale militare di scherma racconta di come durante i mondiali militari, a ottobre, già lui e molti altri avessero tosse e sintomi respiratori simili a quelli poi riscontrati nelle infezioni da covid-19. Dov’erano i mondiali? A Wuhan. Coincidenze. E siamo a ottobre. Andando indietro di volta in volta, scopriremo che il covid-19 è tra noi dal 1993, nientepopodimeno. E che ciò che sembrava una discesa in campo in realtà era in realtà un contagio. Lo chiameremo Futura, ah no, covid-93. Il Regno Unito diventa il paese europeo con il maggior numero di morti, i famosi «cari» a perdere di Johnson che, furbastro, l’ha scampata e ha pure avuto l’ennesimo figlio dopo il ricovero. A malattia fatta, si è reso conto della gravità della cosa. Bravo, vedo che la capacità di astrazione preventiva è sempre ben distribuita, pensavamo scherzassero quelli che gridavano che la situazione era drammatica. A proposito di pirla, la Lega in Piemonte ha chiesto ieri in consiglio regionale che la Regione faccia causa alla Cina per chiedere un risarcimento «per le migliaia di morti e per i danni economici senza precedenti a causa della pandemia». Fatela, poi noi facciamo causa a Fontana e alla Lega stessa. Il Piemonte è il Missouri italiano. Siamo a circa trentamila morti riferibili alla pandemia, di cui circa la metà in Lombardia. Immagino siano molti di più, fa effetto constatare però che a oggi la cosa non fa molta presa su tutti noi: solo centottanta morti oggi in Lombardia? Bene, va bene. Anche i giornali riportano stancamente. Certo, ci si abitua, è vero che il dato è in decelerazione, bene, ma pensarci un secondo fa impressione. A oggi, prenotare in ospedale qualunque tipo di visita o esame è davvero difficile, la risposta non solo è che ci vorrà molto tempo ma che non riescono proprio a ipotizzare date utili. Anche per casi piuttosto seri. Gli ambulatori sono ancora chiusi o comunque smobilitati, i reparti sono sottosopra, gli ospedali stessi sono stati riorganizzati per l’emergenza e, giustamente, si aspetta un momento prima di fare finta che vada tutto bene. I malati seri, negli ultimi due mesi, si sono sentiti davvero abbandonati, molti hanno saltato cicli di chemioterapia, spero ci si prenda cura di loro il prima possibile, il pensiero mi angustia.

Che poi, con le mascherine, è pure difficile riconoscersi. Incontro uno che sembra, mah, mi pare, forse è un mio conoscente, non sono sicuro, ha pure gli occhiali scuri, lo riconosco dai capelli e dalle scarpe plausibili. Io ho il casco, quindi è impossibile per lui. Magliette con i nomi? Simpatici cartellini? App che oltre a indicarti i contagi ti indica anche le persone che conosci? Utile. Ci fermiamo a fare due chiacchiere dopo, piuttosto buffo, esserci scambiati le generalità, per essere sicuri. Manco i carabinieri.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 60

Segni di ripresa. Il mio vicino, che lavora in un azienda di medie dimensioni a circa quaranta chilometri di distanza, durante la reclusione ha scoperto non solo che riesce a lavorare bene da casa, non solo che probabilmente lavora di più e meglio, ma che gli piace pure di più. Fatto presente la cosa all’azienda, e molti come lui immagino, la risposta è stata no. Da domani, al posto di lavoro. Con tutte le complicazioni dal toccare le maniglie – oggetto che senz’altro dovrebbe entrare nei memorabilia del periodo – a sedersi a fianco gomito a gomito. Probabilmente è ancora presto, ora serve riaprire anche in modo tangibile, quindi con i dipendenti presenti, immagino che più avanti il discorso dello smart working possa essere di nuovo affrontato. Di certo, lui uscirà domani mattina non esattamente contento. Nel frattempo, oggi riapre l’aeroporto di Orio al Serio, finora disponibile solo per voli sanitari e di emergenza. Per curiosità faccio un paio di ricerche sui voli e constato che tanto non ci sono: Ryanair, per esempio, niente prima del 22 maggio. Si può quindi andare in aeroporto a comprare profumi e sigarette, immagino. In Svizzera è ora obbligatorio per i ristoranti raccogliere nomi, cognomi e recapiti telefonici di tutti i clienti e conservarli per almeno quattordici giorni, così da poterli avvertire in caso di contagio. Italo mi segnala che d’ora in poi i posti in treno saranno disposti secondo un «assetto a scacchiera per garantire la distanza di sicurezza tra i passeggeri». Molto bene, sarò sincero: io questa cosa l’avrei sempre desiderata. Troppo vicini per i miei gusti, troppo poco spazio per le gambe nei viaggi lunghi, fastidiosi quelli al telefono anche in galleria (ma come fanno? Che compagnie hanno? Io ho già problemi in movimento…). Dopo di che, anche in questo caso provo a fare una ricerca sulla tratta più comune per l’alta velocità, la Milano-Roma, e non ci sono treni. Niente. Trenitalia va un pochino meglio, ci sono due treni al giorno e i prezzi sono decisamente superiori a un tempo. Facile la scacchiera, così, se ogni biglietto costa il doppio.

E sono sessanta, cifra tonda. Sessanta giorni dal lockdown. Ragionavo: vero, siamo nella cosiddetta «Fase Due», ora è possibile uscire secondo determinate regole, molti sono tornati al lavoro, alcuni negozi sono aperti, a certe condizioni, i controlli sono decisamente scarsi, quindi si potrebbe dire che il momento della chiusura rigida sia finito. È però altrettanto vero che per molti non è cambiato granché: chiusi in casa prima, chiusi ora. Parlo di chi ha più di sessantacinque anni, per esempio, per i quali le prescrizioni mediche non sono cambiate. O per chi non rientra nelle categorie ammesse al lavoro, o chi è troppo piccolo per riaprire a queste condizioni. Non si può dire, dunque, che si sia tornati a un certo grado di normalità. Per questo motivo, il mio minidiario prosegue conteggiando progressivamente i giorni dal fatidico otto marzo, il giorno della chiusura della Lombardia. Sessanta, appunto, oggi. Mi chiedo, però, quali condizioni si dovranno verificare perché io possa considerare concluso il periodo di lockdown: forse la riapertura dei ristoranti? Quella delle scuole (oddio, dovrei scrivere fino a settembre)? Un uragano? Quali potrebbero essere i marcatori, gli indicatori della fine della situazione anomala in senso stretto e della ripresa di una moderata normalità? La mia piena ripresa lavorativa? Seee, sto fresco. Un volo aereo? Un concerto? Un cinema? Una cena a casa di amici? Ecco, quella magari. Forse.

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la musica al tempo della pandemia: lockdown session

Dopo DaBaby, che è un tizio che ha messo per primo, per quanto mi è dato sapere, una mascherina in copertina del suo disco (due settimane fa, vedi qui), ora – com’era ovvio – la pandemia è diventata argomento anche di dischi, come già dei libri e di ogni altra attività umana del periodo, compresa questa mia. Il primo che vedo è il disco di Andrew Taylor, che inaugura il genere con la «The lockdown session». Era solo questione di tempo.

Taylor descrive il processo creativo che ha portato al disco: «Writing took place on 11th April in a quick, creative burst with recording at home in my garage, East Lothian, Scotland on 12th and 13th April. The home recordings were mixed on 14th April». Ecco perché «sessione al singolare». Non so se, poi, la pandemia sia presente anche nei testi o sia stata l’occasione per la scrittura e la registrazione, come il titolo sembra suggerire. La seconda che ho detto, mi sa. Bisogna quindi aspettare ancora per un disco il cui argomento sia proprio la pandemia, una riflessione sul tema in forma musicale.

minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 59

Bene, partiti. Altro che percossa e attonita, la terra sta in auto e in giro, altroché. E riemergono pure i sepolcri imbiancati: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo» tuona, insomma, tuonicchia Ratzinger, con il fare tipico del nonno rincoglionito in fondo alla tavola del pranzo domenicale. «Ai tempi miei…» quando già si sta parlando di altro argomento, al massimo qualche cognato gentile che non distoglie lo sguardo per qualche secondo, annuendo con la testa. Poi il papa emerito capisce e dice: «Mi vogliono eliminare», immagino lui intenda «zittire», e invece io qui devo dire che ha ragione: lo vogliamo eliminare. Eccome. Specie se continua a prodursi in tali uscite non richieste, né dal Vaticano né, tantomeno, da me. Momento adatto, tra l’altro, per portare l’attenzione sui matrimoni gay e sull’aborto, dato che non si hanno argomenti di dibattito al momento. Nell’ambito delle iniziative solitarie non ho parlato, qualche giorno fa, della sortita della Regione Calabria, nella figura della sua governatrice, minuscolo voluto, Santelli, quella che «non l’ha mai data» al presidente emerito di Fininvest. Bene, per smarcarsi dall’angoletto geografico e politico in cui si ritrova, ha annunciato con delibera depravata che in Calabria i ristoranti e i bar sarebbero stati aperti fin da subito. Ottima idea, giustificata peraltro dalla situazione solida della sanità calabrese, che permette qualunque iniziativa in questo senso. Il governo diffida e lei si è guadagnata la pagnotta, conquistando i titoli per qualche giorno. La cosa da segnalare, è che i cittadini pur legittimati i bar e i ristoranti non li hanno aperti, vuoi per calcolo economico, spese a fronte di assenza certa di clienti, vuoi per buon senso civico e sanitario. Sarà come al solito un po’ e un po’, mentre Santelli pende tutta da una parte sola. Nel frattempo, bailamme dimenticabile: la Lega scende ancora, ammesso che questi sondaggi abbiano un senso, e finisce sotto il 25, il PD che come le lancette del famoso orologio è rimasto fermo, lo tallona a due punti. Potrebbe esserci pure il sorpasso, se il centrosinistra riesce a stare fermo. Ma non è scontato. Trump va a visitare una fabbrica di mascherine senza la mascherina (neanche gli altri ce l’hanno, a onor del vero). Johnson spiega come ci fossero dei piani in caso lui non ce l’avesse fatta in terapia intensiva, «come con Stalin», dice improvvidamente, essendo ben altra la statura. Sciocchezze.

Una signora con un bel mazzo di fiori come icona saluta cordialmente Salvini di prima mattina.

I dati dicono che i morti e i contagi continuano a calare e noto che la notizia non tiene più la testa dei giornali: ora è a metà delle pagine online o ancora più in basso. Attenzione, verrebbe da dire, perché è vero che parliamo di un futuro ancora imprevedibile ma quel futuro, che forse cominceremo a vedere tra due o almeno tre settimane, potrebbe essere già tra noi. Che, a esser precisi, stiamo ora guardando il passato. Spero di essere stato comprensibile, parlo di contagi e di incubazione, diciamo quattordici giorni. Nel frattempo si parla di maturità, di alberghi che non riaprono, di test sierologici che chi può fa a pagamento per scoprire che la malattia già se l’è fatta a dicembre, di tamponi in numero crescente, di come la moda ha intenzione di coccolare le donne dopo questo periodo di reclusione brutto e di come Dolce e Gabbana dicano che è il momento del FattoinCasa (magari fino al 4 sì, ora sarebbe proprio il momento del FattoFuori, ma cosa ne capisco io di moda?) e di proposte a vanvera o meno su come concludere tutto ciò che non si è concluso o come svolgere tutto ciò che non si è potuto svolgere. Esempi: campionati vari (partite più brevi, calcolo della classifica eccetera), giri ciclistici, olimpiadi e così via. La società di basket con cui sono abbonato – e mi devono parecchie partite – mi scrive per sapere se ho intenzione di devolvere la quota non usufruita del mio abbonamento alla società stessa, ai fini della (loro) ripartenza. Ve lo sognate, carini, col binocoletto.
Al momento è solo baccano, il pollaio si è aperto ed è starnazzamento. Beh, non era difficile da immaginare, bravo chi pratica il silenzio e fa quel che deve.

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E quindi uscimmo per non riveder più le stelle. Accendi, accendi, accelera, dai, dai, che devo andare di qua e poi di là. Non tanto la quantità delle macchine in giro, comunque un bell’incremento, secondo me siamo all’ottanta per cento del normale, quanto più la velocità: mi trovo incolonnato più volte e siamo sempre ampiamente sopra i limiti. Avanti, avanti. Tra l’altro, bisogna darsi da fare: comprare tutto quello che non si è comprato in questi due mesi, dire, fare ma assolutamente non baciare. Un po’ è la disabitudine, nel senso che negli ultimi due mesi, nonostante le strade fossero del tutto vuote, si guidava a tre all’ora perché c’era una pattuglia ogni cento metri e già tocca contar balle ci manca l’infrazione. Di conseguenza lo zang tumb tumb di oggi colpisce, anche se devo essere onesto: niente di isterico o, almeno, non troppo. Quasi tutti fuori, sì, ma in modo per maggioranza composto. Tranne, meglio cavarsi il dente fin da subito, il primo incidente visto di persona, ore 9:10. Ben fatto, uno svolta e l’altro va dritto. Il primo «vaffanculo» al semaforo, poco prima, la prima clacsonata, seguita poi da molte, la prima coppia con la mascherina calata sotto il naso, il primo senza, il primo fruttivendolo senza nemmeno i guanti, la prima coppia che pretende un cono in una gelateria con un cartello grosso così «solo asporto». Com’era quella cosa sul mondo vario? Mah. Fuori da mediaworld la coda. Dentro mediaworld la coda per parlare con gli addetti. Poi la coda per pagare e la coda per uscire, riprendendo le borse. Amazon ringrazia. La cosa stupenda è che, appunto in coda da mediaworld perché se non compro un mouse sono fottuto, ho dietro un ragazzo che si sta comprando un LP dei Devo. E basta. Cioè lui ha atteso cinquantotto giorni, ha resistito alle sirene delle vendite online, ed è uscito finalmente per comprarsi, come prima cosa, un disco dei Devo. Gli esprimo la mia, sincera e inesausta, ammirazione. Fuori dal fornaio, dalla gelateria, dalla cartoleria, alla fermata dell’autobus, dalla farmacia, la coda. Prepariamoci, questa sarà la vera costante dei prossimi tempi: la coda. Uno alla volta, dentro, e fuori ad aspettare distanziati. Non era così, prima, perché i pochi esercizi aperti consegnavano per lo più a domicilio. Non pensate di averci già fatto l’abitudine. Ora le persone vanno direttamente a prendersi le cose, positivo, ma la conseguenza ovvia è la coda. E lo sarà per un bel po’. Che ironia, anzi che sarcasmo ha il Caso: costringere alla coda la popolazione al mondo che è più incapace di farla. Se questo non è genio io davvero non so cosa altro sia. Viva il Caos! Ehm, il Caso.

La signora T., i signori C. e D., la signora H., il signor E. e il signor F., tutti fuori. Una passeggiata, lunga o breve, ma fuori. Dopo due mesi, è pure una giornata splendida, qualcuno in salita, qualcuno in piano e breve, qualcuno in piano e lunga, qualcuno in bici. Ma, ripeto: fuori. A trovar congiunti? A far del moto? A far di necessità urgenza? Non importa, l’importante è uscire. Fuorire, anzi. Fluttuare tra le mille attrattive desiderate che stavano tutte fuori, erano lì e si potevano vedere ma non toccare. Ora sì, quindi qualcuno che torna con un mazzolino di fiori, e manda fotografie, qualcuno è andato dal fornaio perché è la prima spesa autonoma da molto, qualcuno ha effettivamente visto qualche congiunto, qualcuno ha scoperto che non si è rattrappito poi tanto. Anche stavolta non avevo capito, pensavo sarebbe stata una timida riapertura per cui non avremmo avuto grandi differenze da prima – qualcuno scherzava: la Fase Due è come la Fase Uno ma con la suocera – e facevo da pompiere a chi diceva che «dal 4, ah sì, tutti liberi». E invece no, era proprio così. Molte volte in questi mesi ho fatto previsioni, ho letto decreti, ho immaginato sviluppi e, in sostanza, visti gli eventi mi sono accorto una volta di più di non capire un accidenti. Le previsioni errate, i decreti non compresi, gli sviluppi mai sviluppati, magari tolgo «analista» dal curriculum. Le stelle, torno all’inizio di questo minidiario, pian piano ci lasceranno, almeno noi condannati padani, sepolte gradatamente sotto una coltre di smog che ci metterà poco a tornare. Non sto dicendo che la quarantena era meglio, sto dicendo – e non da oggi – che sarebbe bello un mondo attivo, vivace, produttivo anche, in cui si possano vedere, comunque, le stelle. Impossibile?

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 57

Oggi è l’ultimo giorno. Da domani si riapre. Che succederà? Tutti fuori, accoppiamenti selvaggi, combattimenti tra cani con mascherina, feste clandestine tra asintomatici e immuni e violenza gratuita grazie a due mesi di Latte+? Chi lo sa. Siamo passati da quel 20 febbraio a Codogno, quando il contagio apparve anche da noi, a oggi, più di due mesi dopo e con 57 giorni di lockdown, almeno in Lombardia, e purtroppo oltre quattordicimila morti. I camion dell’esercito che partivano da Bergamo carichi di bare perché non si sapeva più dove metterle fanno parte di un’immagine che resterà nel nostro ricordo e immaginario collettivo. Abbiamo poi scoperto davvero la commistione tra sanità pubblica e sanità privata lombarda, «la libertà di scelta del cittadino» di Formigoni, e il carico fin da subito è stato calato su quella pubblica, non certo su quella privata, alla quale al massimo sono state chieste alcune strutture. E la privata è esattamente la metà della sanità in Lombardia, giova sempre ricordarlo.

Il trentottenne di Codogno che era andato a correre la mezza maratona da infetto all’inizio non fu considerato un paziente a rischio covid-19 (che allora non si chiamava così, ma «coronavirus» e basta), perché lo erano solo quelli che tornavano dalla Cina. Per un’intuizione gli fecero il test e vualà, avevamo il nostro paziente uno. Perché il paziente zero erano già migliaia ma allora non lo sapevamo. Cominciò così il contenimento, la procedura per cui si istituiscono delle zone rosse attorno ai focolai nelle quali non si può entrare né uscire: fallì, come sappiamo. Il protocollo del 22 gennaio, che era molto severo e imponeva di testare tutti i soggetti sospetti di contagio, fu sostituito dal protocollo del 27, in cui si prescrivevano le analisi solo a coloro che avevano avuto contatti diretti o indiretti con la Cina: ovvero, niente semimaratoneta di Codogno. Chiaro che messa così il grado dell’allarme era piuttosto blando, infatti noi ci dilettavamo a scoprire quante persone passassero ogni giorno da Codogno. Tante, tantissime, chi l’avrebbe detto? Qualcuno pensò di ripescare i nostri piani pandemici, risalenti a parecchi anni prima ma, soprattutto, a un mondo teorico che una pandemia l’aveva vista solo in alcuni film: e lì la pandemia, se va male, dura due ore. Il piano, l’ho scritto il 31 marzo, giorno 24, prevedeva un comodo utilizzo di ottantamila mascherine al mese per la Lombardia. La realtà, che come al solito tende a metterci volutamente in difficoltà, ci ha mostrato che ne servono trecentomila ma, ahinoi, al giorno. Si capì che era tardi per fare gli ordini e che gli ordini fatti al volo erano stati fatti a produttori di giocattoli, così scoprimmo che le mascherine devono pure essere certificate. In Veneto, puntarono sui tamponi. Perché lo fecero? Perché, ammissione dello specchiato capo dei virologi dell’ospedale di Padova, non ascoltarono le indicazioni della politica e si mossero autonomamente come comparto sanitario regionale. Si produssero da soli i reagenti per produrre i tamponi in casa e comprarono già alla fine di marzo una macchina olandese (olandesi con cui litigheremo poi per questioni di fondi europei e sostegni incrociati) che processava migliaia di esami al giorno. I rapporti tra le due regioni maggiormente colpite dal contagio si fecero presto chiari: 2 a 1 per la popolazione, 4 a 1 per i contagi e 10 a 1 i morti. Tutti in favore lombardo. Tra il 22 e il 23 si chiusero i comuni del lodigiano, nel senso che non fermavano più nemmeno i treni e io già non ci credevo, e alcuni comuni del padovano, il curioso Vo’, mai mai mai sentito. E il 10 marzo, in tre settimane, a Codogno non c’era più un positivo. Ma ce n’era uno in provincia di Bergamo e fu così che la Regione, invece di riproporre la felice soluzione, e il governo insieme, bisogna dirlo, decisero di creare una zona arancione che coincideva con il territorio regionale. Perché nel frattempo, dopo Codogno, era mutato il vento e, in maniera del tutto trasversale, Sala e Salvini invitavano caldamente a riaprire tutto e a partire di gran carriera, che avremmo di certo distanziato il virus, mentre Zingaretti prendeva l’aperitivo sui navigli facendo bella mostra di sé e venendo castigato poco dopo proprio dal cattivo virus. Fu così che il pronto soccorso di Alzano Lombardo fu chiuso, sanificato malino e riaperto in poche ore. Alzano e Nembro non furono chiusi in isolamento perché si ritenne che ormai il contagio fosse inarrestabile e la regione prima e il paese poi entrarono in lockdown. Ovvero dove siamo ancora oggi. Ma da domani no, da domani si ricomincia, dal 4 maggio tutti fuori. Altro che 5, il Manzoni e lo spiro, lo scudetto perso dall’Inter, d’ora in poi il ricordo in Italia sarà per il 4.
Ma staremo affà mica ‘na cazzata? Solo il tempo lo dirà, con la certezza che più è grossa e prima lo scopriremo. Con le porte che si richiudono. Il resto della storia, compresa quella futura, nei prossimi giorni.

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