Twitter sospende definitivamente l’account di Trump.
Ora, per quanto niente possa contare, ci sono almeno due motivi per cui la cosa mi dà fastidio. Primo, perché è un rigore peloso, Trump ha violato le regole di twitter, della netiquette e della decenza mille e mille volte in questi quattro anni, ma evidentemente solo adesso che è in uscita dalla Casa Bianca può essere sanzionato. Perché prima non conveniva farlo. Secondo, perché oggi è Trump e allora va bene, tutti contenti o quasi, ma domani può essere chiunque, anche qualcuno che conduce una battaglia sacrosanta. Perché i social sono aziende e ragionano in termini di profitto e di convenienza, spesso ipocrita, per cui non bisognerebbe usarli per dibattiti pubblici o comunicazioni istituzionali o quasi. Ma questa cosa pare non capirla quasi nessuno. Vogliamo imporre delle regole (anche fiscali) a questi o continuiamo a farci del male?
Il tentativo, politicamente corretto, di essere rispettosi delle identità di genere e di utilizzare, se possibile, la neutralità di genere nel linguaggio spesso producono mostri. Dai «bambine e bambini, ragazze e ragazzi» che precede ogni inizio di documento di certe associazioni di sinistra al democratico Emanuel Cleaver che pochi giorni fa, in seduta alla Camera dei Rappresentanti a Washington, ha concluso il discorso con un improbabile «amen» e, per essere rispettoso, con un ancora più improbabile «awomen». Essendo pastore, nel senso delle anime, era stato incaricato di chiudere la seduta con una preghiera – e già qui qualcosa da dire ci sarebbe – ed evidentemente è stato preso da un irresistibile afflato paritario. Auomen, qui il video.
Sempre attratti dalle figure di merda, i compagni del PD, stavolta di Palermo, hanno ben pensato di sventrare il sostantivo «militante» facendone una questione di genere. Essendo un participio presente (da «militare», che anche se non sembra è anche un verbo), ha il brutto vizio di essere insieme maschile e femminile. Pardon, femminile e maschile. Anvedi. I dizionari dicono: «agg. e s. m. e f.».
Per cercare di porre rimedio a questo sfacelo, scusate: sfacela e sfacelo, segnalo un ottimo articolo della sociolinguista Vera Gheno, dal titolo esplicativo: «La questione dei nomi delle professioni al femminile una volta per tutte». Utile, molto. Oddio, utila, anche. Scusate, scusate tutte.
Il catalogo di Netflix offre, al momento, 2.490 film, 1.295 serie tv e 531 documentari. Quello di AmazonVideo consiste in 6.469 tra film e serie tv. Disney+ ha un catalogo approssimativamente di circa settemila episodi di serie tv e all’incirca cinquecento film. E questo per stare ai competitori più ingombranti dello streaming video, perché poi ci sono RaiPlay, Infinity, DAZN, Now TV, TIMVision, YouTube Premium, Chili, Apple TV+ e così via, solo per stare all’Italia. Una marea. Certo, poi gira e rigira buona parte dei contenuti offerti è sempre quella, che spunta un po’ di qua e un po’ di là, e un’altra fetta non piccola è fatta di prodotti francamente scadenti, ciò nonostante tra produzioni originali e cataloghi acquisiti ciascun servizio di cui sopra offre un catalogo ampiamente superiore alla capacità di intrattenimento di una persona durante una vita di durata media. Considerando poi che un certo numero di famiglie ha Netflix per le serie, Disney+ per i bambini e per guerrestellari, Amazon perché ha Prime comprando le ciabatte, RaiPlay perché è gratis, l’offerta si allarga ancor più. Una bella scelta, no?
Sì, in teoria sì. Ma in pratica no, perché poi alla fine guardate quasi tutti le stesse cose. Lo so, sono passato al ‘voi’ chiamandomene fuori. Vero. Ma lo posso fare, credo, perché non ho nessuno di questi servizi, non pago abbonamenti per farmi intrattenere e, spesso, perdere tempo, a meno che non sia musica. Quello sì, la pago, ma non la considero intrattenimento allo stesso modo. Comunque, essendone fuori, mi capita di notare (e quasi chiunque abbia a che fare con le piattaforme me lo conferma di volta in volta) come alla fine le persone tendano a guardare ciò che le piattaforme stesse promuovono come novità o scelte adatte al cliente. Perché le dimensioni amplissime dell’offerta fanno sì che la scelta richieda molto tempo, ricerca e selezione, di fatto vanificando l’offerta stessa. Le compagnie lo sanno benissimo e, infatti, una bella fetta del catalogo è lì solo per far quantità, perché costa poco e per ingolosire gli abbonandi.
Quindi, tanta tanta scelta e molte piattaforme e, alla fine, sembra di stare ai tempi di Rai Uno. Infatti, nelle ultime settimane moltissimi utenti hanno visto ‘L’incredibile storia dell’Isola delle Rose’, ‘La regina degli scacchi’ e, negli ultimi giorni ‘Sanpa’. Le persone ne parlano durante la pausa caffè, i giornali ne discettano ampiamente, la tv in un qualche modo autoreferenziale pure, da fuori colpisce. E non è un caso che siano tutte proposte di Netflix che, in questo, ha preso abbastanza il posto di Rai Uno. Perché non sono film o serie eccezionali, sono prodotti medi, ben costruiti per il pubblico con trama non troppo complessa ma nulla più, potrei citare seduta stante cinquanta serie tv migliori di queste, tutte a portata di telecomando. Eppure? Tutti a guardare le ultime novità proposte. Come ai bei tempi del monocanale o del monopolio televisivo. E poi mi chiedono: ehi, hai visto Sanpa? E io mi devo pure giustificare, ma che mi frega di San Patrignano? Oppure commentano la serie in rete o al bar dando per scontato l’universalità della visione. Ed è proprio così, nei fatti.
Alla fine, questa cosa di guardare tutti le stesse cose, evidentemente, piace. Perché se no non si spiega. Piace probabilmente il non dover decidere, il fatto che un servizio a pagamento proponga cosa vedere, il poterne parlare con chiunque il giorno dopo, avere la sensazione di non perdersi nulla di importante. Naturalmente non è così, là fuori è pieno di film, serie tv, documentari meravigliosi che, però, in buona parte vanno scovati. ‘La casa di carta’ è l’esempio eclatante: scadente, al limite della presa per il culo nella seconda stagione, vera fotocopia della prima (ah no, beh, certo, là era la Zecca qua la Banca di Spagna, diversissimo), tutto piuttosto copiato da ‘Inside man’ di Spike Lee di dieci anni prima. Eppure, un trionfo. E le persone che la consigliano, pure, sacrificando tempo ed energie proprie nella promozione di Netflix. Mah.
Vabbè, il mainstream e il conformismo non li scopro certo io oggi. E no, Sanpa non lo guardo né lo guarderò. Di San Patrignano mi basta ricordare gli abusi e le violenze negli anni Ottanta, il ruolo tremendo di Muccioli, vero padre-padrone e santone, quasi che la legge non potesse entrare nella comunità, l’appoggio incondizionato della politica, la Moratti su tutti (eccola là, di nuovo), i suicidi, le botte, i soprusi e un sacco, ma davvero un sacco di soldi che finivano là. E il dolore delle famiglie, lo sfruttamento dello stesso, l’affare del recupero dei tossicodipendenti.
Tra le cose che Sanpa non dice, c’è il PART di Rimini: un polo museale sovradimensionato rispetto alla città che lo ospita e costituito da una ricchissima collezione di arte contemporanea. Che è la collezione di San Patrignano. Beecroft, Chia, Hirst, Isgrò, McCarthy, Paladino, Pistoletto, Schifano, Schnabel, Vezzoli, per dirne alcuni. La presidente della Fondazione San Patrignano, Letizia Moratti (ancora!), spiega che «abbiamo intrapreso la via della collezione di opere d’arte contemporanea come riserva patrimoniale». Alla faccia. E la collezione girerà, diventando mostra itinerante in molti altri musei d’Italia. Non male per una comunità di recupero di tossicodipendenti, no?
Sì, l’ho fatto. Or ora. Perché va fatto oggi. E io l’ho fatto. Subito, appena passata la mezzanotte. Come ogni anno. Sì. L’ho fatto entrare. Esatto, lui. Magnifico. Non oggi, da oggi. L’ho fatto. Ho fatto entrare Ascanio. Oggi. Ora.
Fallo anche tu.
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Aggiornamento delle 16:36
Ecco, a forza di urlare nei gomitoli, ho appena scoperto di essere diventato così.
Per chi non avesse afferrato, la canzone è realmente iraniana. La cosa che fa ridere è che invece sembra in italiano sbilenco. Fa ridere me, almeno. E un miliardo di altre persone con il senso dell’umorismo molto molto sviluppato. Ehm.
Ieri nel pomeriggio irruzione di qualche centinaio di sostenitori di Trump al Campidoglio per interrompere i lavori di proclamazione del nuovo presidente. Non parlerei di colpo di Stato. Ora, a parte il folklore, perché in effetti sembrano i Village People che assaltano il Congresso, a parte l’accozzaglia di destroidi raccolti sotto la protesta pro-Trump, per cui si è vista anche una maglietta inneggiante ad Auschwitz, a parte la galassia populista, iperreligiosa, fascista, sovranista, suprematista che si è manifestata nell’occasione, mi chiedo cosa spinga una veterana dell’Us. Air Force a credere alle balle di Trump al punto di lasciarci le penne.
Perché va bene, possiamo anche ridere della sgangherata compagnia di idioti di ieri, ma i morti sono quattro e sono stati scontri veri, tra l’altro occupando per la prima volta nella storia degli USA un’aula di governo (cosa che in Europa è accaduta più spesso). Mi ha colpito il totale ritardo dell’intervento della Guardia nazionale e della polizia, immobili per alcune ore, specie dopo aver visto, invece, gli schieramenti imponenti durante le manifestazioni di Black Lives Matter. Appunto: e se fossero stati afroamericani, ieri, invece che bianchi armati? Per carità, quattro o più stronzi disposti a sacrificarsi in nome di qualsiasi causa di destra li si trova sempre, vedi i serenissimi di San Marco di qualche anno fa da noi, le ampolle leghiste, i sostenitori di Berlusconi in piazza per la nipote di Mubarak, i gilet arancioni, il popolo dei forconi, i vaffanculo day, e quattro anni di aizzamento da parte di Trump sono poi la causa principale della sceneggiata di ieri. Ciò che, credo, sia significativo è che i “Proud Boys”, così si chiamano, sono tanto contro il partito democratico quanto contro quello repubblicano. Il che significa, secondo me, che da adesso in poi non sarà più accettabile una destra che – anche da noi – occhieggia e ammicca a chi sta fuori dal sistema repubblicano democratico, stimolandone gli istinti più bassi. Chi ambisce a governare un paese non deve più avere atteggiamenti ambigui, questo non sarà più accettato, né da destra né da sinistra. O così dovrebbe essere, d’ora in poi.
Buon anno nuovo. Sì? Alle otto e trenta ricevo il messaggio, Tiziocaio è positivo. Ah bene, ottimo. Ha appena fatto un tampone rapido, sta aspettando i risultati di quello completo. Io però l’ho visto poco, abbiamo mangiato insieme una fetta di pizza a pranzo in ufficio il 29 dicembre, venti minuti al massimo. Già. E quindi? Basta? No, non basta. Io avrei anche fatto un tampone il 22 dicembre, la cosa comincia a diventare ripetitiva. Trivigante, c’è poco da fare: altro tampone. Altrimenti, ti conosci, poi resti col pensiero e oggi devi portare le spese a casa delle persone, non si scappa. D’accordo, però: tampone rapido. Un po’ perché dovrebbe essere più che sufficiente, un po’ perché vorrei provare, un po’ perché domani è festa e ciao, poi. Rifletto, 8:37: cosa so, io, dei tamponi rapidi? 8:38: niente. Ho letto però che nelle regioni civilizzate – l’Emilia – li fanno gratuitamente nelle farmacie. Vado a chiedere nella farmacia sotto casa, suscitando peraltro un po’ di agitazione negli altri clienti, ma niente, non li fanno. E, mi dicono, forse c’è una farmacia in un comune limitrofo che li fa ma sa più di diceria e leggenda che di fatto dimostrato e, comunque, di sicuro in città no. 8:45: faccio una breve ricerca in rete, trovo un poliambulatorio, casualmente vicino a casa, che pare li faccia. Non prenoto, non telefono, vado. 8:51: passo all’isola ecologica, lo dovevo fare, sono uscito con i sacchi pieni di carta. Ore 9:02, entro nell’ambulatorio. Eeeeh, salve, lo so, non ho prenotato, vorrei fare un test rapidooo, ecco, mmm. Me lo fanno. Ma pizzicata-al-dito o tampone rapido, mi chiede la signora allo sportello? Non so, qual è il più affidabile e, insieme, il più piacevole? Tampone-dritto-nel-naso, va bene. 9:07: pago quaranta euro – Fontana, sappi che tengo i conti, ci vedremo alla fine – e non faccio in tempo a sedermi che vengo chiamato nella stanzetta. Ci credo, non c’è nessun altro. Mi siedo, solito stecchino ficcato nel cervello, due volte per simmetria, ore 9:09 sono in sala d’aspetto in attesa del responso. Ore 9:17: negativo.
Bravo, trivigante. Crisi risolta a tempo di record, isolamento evitato e, non ultimo, bravo perché anche stavolta, pare, non ti sei contagiato. E hai pure buttato i rifiuti in scioltezza, poi dicono degli uomini. Che poi, mi avrebbe dato più fastidio ammalarmi da Tiziocaio, che francamente sopporto poco, piuttosto che pigliarlo in sé. Anzi, mi avrebbe proprio scocciato, preferirei, se proprio, prendere il virus da persona simpatica e civile, piuttosto che da uno che non so dove sia stato o cosa abbia fatto. Metti che ha fatto il mona a capodanno in una festa abusiva, in barba alle regole, se poi infetta me mi girerebbero parecchio le balle. Quella festa sul lago di Garda, per esempio, a ballar da stronzi e credersi migliori e più furbi, pubblicando poi foto e video in rete, nonostante sul tavolo ci fosse un bel foglio grande che invitava, appunto, a non farlo. Svegli, proprio. O, metti, al bar. Due giorni fa entro timidamente in un bar per acquistare un caffè da asporto, apro la porta di una vetrina tutta appannata e dietro un tavolino, che serve a far barriera per gli avventori, almeno dieci ultrasettantenni, tutti chiaramente senza mascherina, impegnati in: compilazione della schedina del superenalotto; grattamento di ‘turista per dieci anni’ non vincente; sorseggiamento di bianchino di modesta qualità; partitina alle macchinette truccate; mano di briscola; tempo lieto di belle battute da bar. Giurerei anche di aver visto in un angolo, là in fondo, la Morte ghignante con la falce ma potrebbe essere una suggestione, in effetti. Tanto, anche se vincete danaro è inutile.
La barista, giovane, non si rende conto che sì, così sta incassando qualche misero euro in un momento difficile ma che sta, anche, sterminando la propria clientela futura, condannando così il bar al fallimento sicuro. Ma non basta: il marito della barista, lo so per certo, lavora in una residenza per anziani. Magnifico, e così il cerchio si chiude. Game-set-match. Resta da vedere da che parte prenderà fuoco la miccia, in questo caso. Andrà dal bar all’RSA o viceversa? O si scontreranno a metà, a casa della barista e dell’operatore? Magari si scambieranno due varianti diverse, facendo così doppio contagio e bingo su tutta la linea? Basta restare sintonizzati.
◼ Lo stato dell’Ohio, sì, quello delle elezioni, cioè il suo dipartimento della salute ha pubblicato uno spot per chiarire l’importanza del distanziamento tra le persone. Con quell’oggetto tipico americano che noi non abbiamo, ovvero la trappola per topi.
Quante volte avranno rifatto l’ultimo lancio per riuscire a non colpire nulla?
☀ In Francia Le Monde ha calcolato che le vendite di auto sono tornate a quelle del 1972. In assoluto, invece, auto elettriche +350% e ibride +206,7. Magari stavolta miglioriamo, in questo.
◼ Da ieri il Portogallo guida la presidenza di turno dell’Unione europea. La premier scozzese Nicola Sturgeon ha scritto: «La Scozia tornerà presto, Europa», in riferimento alla Brexit. Ma bisogna attendere le elezioni di maggio, per valutare la composizione del nuovo parlamento.
✘ Avevo deciso di non scrivere nulla della dipartita di Formentini, primo (e unico, grazie a dio) sindaco leghista di Milano, nel 1993. Poi però l’attuale sindaco, Sala, ha detto: «Marco Formentini è stato un uomo politico di cui Milano può essere orgogliosa» e io mi sono detto che si potrebbe anche stare zitti, in certi casi, o se proprio costretti si possono dire cose anche più circostanziate (non sfugga comunque che non ha detto «sindaco»). Formentini non fece nulla di significativo per la città, chi c’era si ricorderà l’accanimento che ebbe contro il Leoncavallo, sua unica attività politica per ben più di un anno del mandato, fu semplicemente scelto perché rassicurava la borghesia milanese più di Bossi, fu ondivago, indeciso, insicuro, come la sua giunta, e giova ricordare che, se le persone avessero votato meglio in quella occasione, avremmo avuto Nando Dalla Chiesa sindaco di Milano. Una bella distanza.
☀ Radio popolare ha un nuovo direttore, Alessandro Gilioli. Io sono di parte, perché ascolto quasi solo loro, sono abbonato e credo molto nel progetto da alcuni decenni. Ma dico questa cosa oggettivamente: il nuovo direttore ha fatto un ottimo discorso di presentazione – lo si può ascoltare qui -, molto politico e ricco di proposte di rilancio, non solo per la radio ma anche per la sinistra e le persone di sinistra. Se già ascoltate Radio popolare e non siete abbonati o tesserati, ascoltatelo e fate la scelta giusta. Se non conoscete la radio, ascoltatela, anche via rete.
☀ Occhio se avete deciso di affittare una casa in Islanda per capodanno. La vista potrebbe essere questa:
◼ C’è un’incredibile partita economico-finanziaria e di potere in Vaticano di cui riusciamo, da qui, a intuire soltanto i margini, pure male. Qualche giorno fa il papa ha trasferito d’ufficio tutti i fondi e gli immobili della Segreteria di Stato all’Apsa, nuova centrale finanziaria unica, e togliendo ogni funzione economica alla Segreteria. Non credo si tratti di spiccioli. Per chi vuole, l’articolo del Sole 24 ore che, comunque, resta abbastanza oscuro per chi non si occupi professionalmente di finanza vaticana.
◼ Nell’anno nuovo, occhio a quando pescate le carte:
◼ Ho scritto più volte qui che non comprendevo la decisione del governo di tenere chiusi i musei, in un momento in cui mi pareva un segnale importante non lasciare aperti solo gli esercizi commerciali e i luoghi di lavoro. Lavora, consuma. Dato poi che non si corre di certo il rischio di assembramenti. C’è evidentemente una ragione economica nella scelta, dovuta all’assenza di visitatori e turisti, qui un articolo prova a ragionarci e a offrire un punto di vista diverso. Ma ce n’è anche uno che, invece, esprime una posizione come la mia. Il dibattito è aperto.
☀ A proposito di musei, aperti e non. Un passo in avanti notevole in tema di visite virtuali l’ha fatto il Mauritshuis museum a L’Aia, il museo per capirci della ragazza con l’orecchino di perle di Vermeer e di molti dipinti di Rembrandt e Holbein il Giovane. Bene, hanno reso disponibile una piattaforma digitale per vagolare nel museo e osservare in alta definizione i dipinti appesi che rende più facile la visita da pc, di solito operazione scoraggiante. La piattaforma è davvero fluida, i dettagli dei dipinti visibilissimi e belle le schede di presentazione, anche sui particolari dei quadri. E per i quadri più noti, audioguida e immagini a infrarossi. Il tutto è qui.
✘ In chiusura, a me la parola ‘Ciao’ dal 1990 fa pensare a notti magiche, a ruberie e a fallimenti catastrofici. Cioè al mondiale del ’90, in Italia. Sentire quindi Renzi che chiama così il proprio piano alternativo al Recovery Fund (=Cultura, Infrastrutture, Ambiente e Opportunità) mi viene un po’ da ridere e un po’ da battermi la fronte. E vedi le coincidenze, è di questi giorni la notizia che Goal, la monumentale scultura di Mario Ceroli realizzata in occasione dei Mondiali Italia90, appunto, è fatiscente e sta crollando. E non è mica chissà dove, è a Roma in centro, in via Flaminia. Dove peraltro sono in rovina anche il Villaggio Olimpico e lo stadio Flaminio. Quando, per dire, le cose nascono già fatiscenti.
Settimana media ma ancora sulla scorta dell’entusiasmo del capodanno, stiamo a vedere come va.
Se volete sentire la musica sotto la doccia o alzate il volume della radio o del telefono in bagno, oppure usate una cassa bluetooth impermeabile, di quelle adesive da attaccare al vetro o alle piastrelle. Ce ne sono tante.
Ce n’è una, però, che si attacca al tubo della doccia e si ricarica con il flusso d’acqua, si chiama Shower Power e la produce Ampere. Che voglio dire, mica poco eliminare la menata della ricarica. Oltre a questo è realizzata in plastica riciclata e qualcuno assicura che suoni sufficientemente bene.
Su Kickstarter, costa nemmeno troppo. Per i più esigenti, c’è il modello con i LED variopinti, effetto disco, e una cassa aggiuntiva per un’esperienza immersiva (stavolta detto in senso letterale).
No, non Mattarella. Ma Balasso, come da tradizione, che dice sempre cose sacrosante ma è, anche qui ormai da tradizione, talmente incagnito ogni tanto che un po’ il senso delle cose si affievolisce. Ma attenzione alla fine, che risale vorticosamente e colpisce nel segno.
E Celestini, che riflette sull’anno passato, sulla pandemia, la morte e la chiusura di tutte le attività culturali per lockdown, cosa che giustamente gli sta molto a cuore.
Entrambi notevoli, a parer mio. Ah, quindi te sei a favore della tortura?
Da ieri la Gran Bretagna è fuori dall’Europa. Male, molto male. Da quando, a sorpresa, i remain persero il referendum del 2016 è stato un susseguirsi di rimandi, di accordi non conclusi, di tentennamenti. E io, in cuor mio, speravo non si concludesse la frattura e ci fosse, chi sa?, un ripensamento. E invece no, ingenuo. Da ieri serve il passaporto per andare in Inghilterra, il visto per restare, il roaming dei telefoni non è più in vigore, insomma si è tornati alle lungaggini del passato. Un vero peccato.
Fa impressione vedere, invece, gli entusiastici titoli di giornale quando, il primo gennaio 1973, la Gran Bretagna entrò nel Mercato Comune Europeo, prodromo dell’Unione europea (la Greater Europe).
A tutti gli effetti, questo è un lutto. E come tale io, noi, lo vivo. Per cui, alla prima fase di dispiacere è seguita poi la fase di risentimento, fanculo Cameron, fanculo inglesi che hanno votato per l’uscita, fanculo inglesi tutti. La pagheranno cara, perché ora si renderanno conto dei vantaggi dell’appartenere all’Unione europea (siete mai stati a Sheffield negli anni Ottanta? Un disastro), si renderanno conto di quanti fondi le zone depresse (e in Inghilterra sono moltissime) abbiano ricevuto in questi decenni, quanto l’isolamento sarà deleterio per lo sviluppo del paese.
Le zone più povere dell’Europa settentrionale sono quasi tutte in Inghilterra e, guarda te!, sono anche le zone che hanno ricevuto più aiuti dall’UE e sono anche, anche!, le zone più decise nel sostenere la Brexit.
Bene, allora. Andate e godetevela. Fanculo.
facciamo 'sta cosa
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