Nel 1992 Sinéad O’Connor in diretta al Saturday Night Live stracciò una fotografia di Giovanni Paolo II per protestare contro la chiesa cattolica, rea a suo dire di coprire i reati di molestie sessuali da decenni.
Fu massacrata, fu un coro quasi unanime di condanna, la sua carriera rovinata, lei insultata per strada – fortuna non c’era la rete – e nei suoi affetti, un vero disastro. Mi alzai in piedi quando la vidi, non ci potevo credere, e l’ammirai molto per il coraggio. E allora, stronzi? Chi aveva ragione?
Eh, amici filippini, con tutta la simpatia per voi e il vostro bel popolo, ma trenta milioni di voi sono senz’altro parecchio stronzi, se hanno votato entusiasticamente Ferdinand Marcos Junior, detto «Bongbong», proprio figlio di quel Marcos che sciolse il parlamento e fu cacciato da una rivoluzione popolare. Non contenti, come vicepresidente hanno scelto Sara Duterte-Carpio, figlia di Rodrigo Duterte, presidente uscente e noto fascista, in linea con la repressione degli ultimi anni. Bella coppia. Certo, è capitato anche da noi, una bella fetta che vota senza discernimento. Sostegno all’opposizione. Siamo tornati alle scarpe di Imelda, maledizione.
In puro stile padano – cosa trasversale, non c’è né destra né sinistra, sia chiaro – il recupero di questo bel palazzotto quattro-cinquecentesco con facciata parzialmente affrescata: elegante sopraelevazione di un paio di piani con intelligente recupero dello spazio protrudendo la facciata verso l’esterno, magnifico richiamo all’architettura fortificata medievale, e apertura di due neoportoni per zona commerciale al piano terra. La scelta saggia di evitare qualunque forma di simmetria è un colto richiamo alla tradizione pittorica prequattrocentesca, direi quasi giottesca.
Sopravvolando peraltro sulle finestre del primo piano, in fresco pieno e con gran rispetto del portone originale. Un classico padano, avrebbe detto saggiamente qualcuno, nel frattempo la Sovrintendenza agisce bendata mirando però con precisione al chiodo che non posso appendere a casa mia, pena la scomparsa del passato.
Accompagno un amico all’aeroporto, a Orio. Siccome però ogni giro non deve andare sprecato, aggiungo qualche chilometro per arrivare ad Albino, perché son moroniano. Moroni nel senso di Giovan Battista, il pittore, eccellente ritrattista tra i più insuperabili, supremo interprete del ritratto naturale, nato appunto ad Albino. Se è noto per la sua fedeltà al soggetto e capacità di ritrarne la fisionomia intima, e i suoi quadri sono sparsi in ogni dove, i lavori di argomento sacro sono senz’altro meno significativi, è come se gli si spegnesse l’inventiva, se facesse per dovere o necessità e senza un reale trasporto, dipinge i visi pure peggio. Può anche essere, in effetti, lo capisco appieno. Una parte di quest’ultima produzione si trova ad Albino e io voglio vedere la sua Trinità, perché è un soggetto strepitoso. Ma, siccome come ho detto nell’avventurarsi nei temi della committenza ecclesiale gli si smarriva la fantasia e, forse, non ne aveva neppure una conoscenza solida che gli permettesse di spaziare, allora decise di copiare, come facevano tutti. Sapeva però riconoscere un grande e, quindi, copiò puntando in alto. Ed è da qui che devo partire: la Trinità di Lorenzo Lotto. Teologicamente perfetta, la figura di Gesù è rappresentata su due cerchi paradisiaci dentro un cerchio di nubi, nella trasfigurazione, mostrando le ferite della passione, sorvolata dallo spirito santo; dietro di lui, ed è qui la grande invenzione di Lotto, il padre è rappresentato come pura luce, come dicono i libri del Deuteronomio e dell’Esodo, ma in atteggiamento paterno verso Gesù, si distinguono due mani nell’atto di benedire e proteggere il figlio, e una figura che lo avvolge seguendolo.
La composizione è del tutto inusuale, solitamente le tre figure si trovano una sopra l’altra e non allineate di fronte. L’intuizione di Lotto ebbe grande successo e furono molti i pittori che copiarono il quadro, visibile allora in una chiesa di Bergamo. Tra essi, Moroni. Egli, però, e qui vengo alla Trinità che sono andato a vedere, rafforza la figura del padre e lo rappresenta in figura umana, paterna, con le braccia abbassate nella posizione di rispettosa protezione e tutela del figlio, che si guadagna tutta la scena. Inoltre, ed è un altro aspetto commovente della rappresentazione, veste un abito con le maniche arrotolate sulle braccia, come un qualunque padre ritratto in una pausa dal lavoro, in quelle botteghe padane che Moroni ben conosceva.
Nella chiesa di San Giuliano, la Trinità di Moroni sta in un altare laterale, poco illuminato, forse avrebbe bisogno di una pulita, difficile dirlo da sotto. Nonostante, dunque, l’inventiva moroniana in questo caso e sui temi del genere sia limitata, devo dire che la sua Trinità mi piace di più, è più umana, compassionevole, e la figura del padre commovente. Ne è valsa la pena.
Eh sì, è il cinque: Bella Immortal! benefica / Fede ai trionfi avvezza! / Scrivi ancor questo, allegrati; / Chè più superba altezza / Al disonor del Golgota / Giammai non si chinò. E manca poco al Manzoni per chiudere, alle stanche ceneri e al magnifico atterra e suscita. Niente da dire, sapeva scrivere, mica lo scopro io.
Sarà che, però, amo poco le odi e le trombonate, specie se infarcite di Fedi e Provvidenze che interagiscono strettamente con le vicende umane, il mio trasporto per le manzonianate è limitato. Ne sfagiola un cantico / Che forse non morrà, furbone. Di certo non convengo con il Massimo / Fattor, che volle in lui / Del creator suo spirito / Più vasta orma stampar, ma capisco l’ode. Resta la riconoscenza al rivoluzionario per aver spazzato via la polvere dell’ancièn su tutta l’Europa e ad aver minato le basi delle poche monarchie e aristrocrazie sopravvissute. E se questo ci è costato qualche cavallo nei refettori dei monasteri o dover andare al Louvre per vedere certi quadri, pace.
La spoglia immemore diventò tale in mezzo a una pletora di persone, perché per quanto in esilio un ex imperatore, due volte sull’altar, la sua bella corte se la tirava dietro. E poi, essendo nell’isola, vuoi mettere l’avvenimento dell’esserci mentre stira le gambe?
Una rappresentazione credibile è la prima immagine in alto, una bella folla di astanti che, per motivi diversi che andavano dall’affetto al dovere alla curiosità, assistette al trapasso. Il gran maresciallo Henri-Gatien Bertrand, fedele compagno e servitore, e il generale Charles Tristan de Montholon, entrambi autori di memorie dell’esilio napoleonesco e rivali per la posizione di primo amico. Chi, invece, non era amato dalla spoglia quando vivente era il dottor Francesco Antommarchi, inviato a sant’Elena dalla madre dell’imperatore e autore di un libro di memorie del tutto inattendibile. Sempre lei, gli mandò anche un cappellano, l’abate Angelo Paolo Vignali, entrambi costretti alla residenza isolana fin dal 1819. Chi non era contenta per nulla dell’esilio toccatole era la moglie di Bertrand, la contessa Françoise Elisabeth “Fanny” Bertrand, presente con i suoi figli, uno dei quali oltre a essere chiamato Napoleone ne portò pure le ceneri (è il ragazzo affranto tutto a sinistra con la mano sulla fronte). Dato il rango, ecco un valletto, Louis Marchand, vicino a N. fin dal 1814, uno dei servi più fedeli, “Ali”, Louis Étienne Saint-Denis, noto come “il Mamluk Ali” e la sua moglie inglese ma cattolica Mary ‘Betsy’ Hall, i camerieri Jean Abra(ha)m Noverraz, svizzero, e sua moglie Joséphine Brulé. E il cuoco? Eccolo, anzi eccoli: Jean Baptiste Alexandre Pierron, esperto di dessert, e Jacques Chandelier, per il resto, inviato dalla sorella Paolina. Il maggiordomo Jacques Coursot chiude la servitù stretta. Infine, tre ufficiali inglesi, con comprensibili compiti di controllo: un medico, il dottor Francis Burton, chirurgo irlandese che impresse la maschera funebre, il dottor Archibald Arnott, chirurgo pure lui, e il capitano William Crokat, scozzese, che portò a Londra la notizia della morte dell’odiato franzoso.
E i dì nell’ozio / Chiuse in sì breve sponda e bon. Ma la memoria era destinata a durare, persino fino a oggi, Segno d’immensa invidia / E di pietà profonda, / D’inestinguibil odio / E d’indomato amor. E suscita ancora discussioni e pareri avversi, basti pensare, per fare un esempio, che qui da noi con la locuzione una Waterloo intendiamo una tremenda e profonda sconfitta, ragione per cui non ci toponomiamo le strade, continuando dunque a tenere, in fondo, per l’imperatore e a parteggiare per le sue sorti anche oggi, duecentouno anni dopo. Ma son quelle glorie umane, alla fine, un po’ vere e un po’ no, in vacca.
E nel ricco mazzo di potenziali vincitori per il maggior cattivo gusto nel piazzare pubblicità a caso nel giornale a fianco degli articoli, il premio indiscusso degli ultimi cinque minuti va a La Stampa:
Come non ricordare Berlusconi al vertice FAO, anni fa?
facciamo 'sta cosa
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