La scrittona il giorno dei funerali di Sinéad O’Connor è una bella dichiarazione.
Non solo voi. Letta la sua autobiografia, Rememberings, intelligente e a tratti divertente com’era lei. Fuori da certi schemi del successo musicale, come scrisse il Guardian: «full of heart, humour and remarkable generosity», direi che la frase che più la rappresenta per ciò in cui credeva e per ciò che fece potrebbe essere, parlando del fatto della foto del papa al SNL: «I feel that having a No. 1 record derailed my career and my tearing the photo put me back on the right track». Gran perdita, per quanto mi riguarda, sono contento di averlo letto. Avendola scritta durante il lockdown – quante autobiografie cominciate per quello? E quanto dischi, romanzi, diari? Sarebbe bello farne sunto e qualche ragionamento -, strazia il pensiero che erano vicine disgrazie personali e che i suoi propositi futuri, lo scrive alla fine, un disco, un tour, imparare a fare alcune cose nuove, sarebbero rimasti purtroppo propositi.
Tra gli edifici art nouveau di Ljubljana, sulla piazza principale balza agli occhi uno abbastanza particolare, con un cappellotto davvero strano.
Art nouveau, ma è sempre una definizione di stile insufficiente. Infatti è una declinazione particolare, è stile Sezession viennese, precipuo della ristrutturazione di Ljubljana a fine secolo e scampato all’ultimo terremoto, progettato da Ciril Metod Koch nel 1873 per il commerciante di colori Adolf Hauptmann in Preseren Trg. Eccezionali i decori in ceramica pastellata in alto, sotto il tetto. Un po’ di pastiche con l’edificio precedente, che doveva essere rinascimentale nelle forme, secondo me si nota. Bello? Sì, perché no? Particolare di sicuro, forse non l’art nouveau più pura e affascinante ma di gran moda a fine secolo sotto l’influenza viennese.
Il Kunsthaus Graz, il blobbone di Cook e Fournier, ovvero il museo di arte contemporanea di Graz che di notte e durante gli avvenimenti si illumina variamente. Chiamato anche friendly alien, amichevolmente.
Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più cachinnica dell’isolato, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.
Mezza epidemia di legionellosi, o legionella, o malattia del legionario, a Rzeszów, in Polacchia, con quattordici morti e duecento ammalati. Bene. Ascesso polmonare, empiema, insufficienza respiratoria, shock, coagulazione intravasale disseminata, porpora trombocitopenica e insufficienza renale che, ovviamente, da qualche minuto sto avendo tutti insieme. Deficiente io a bere l’acqua dal rubinetto e non solo la birra dalla spina.
E per finire in bellezza, la meraviglia di ‘Open to meraviglia’ non è nemmeno iniziata, risalendo a fine giugno l’ultimo intervento in tema. Social fermi, tutto morto, la campagna del Ministero per la promozione turistica del paese è defunta ancora prima di vivere. Chi l’avrebbe detto? Il tutto, tra l’altro, durante la stagione estiva, irrilevante. Chiedere ancora a Santanchè. La Corte dei Conti indaga, nulla di nuovo fin dall’inizio.
Mai una sorpresa in questo tipo di cose.
L’ultimo cenno, fine giugno. La faccia del vaso accostata alla faccia di lei è proprio ridicola, oltre tutto. (Aggiornamento del 30/8: è riapparsa su Instagram, evidentemente le polemiche in rete, sui giornali e l’indagine della Corte dei Conti l’hanno svegliata).
Novanta chilometri a sudest di Lublino, raggiungo Zamość con un regionale che ferma continuamente nel nulla. Finalmente, la mia destinazione era un segnalino verde sulla mappa delle cose da vedere ormai da parecchio, in effetti per raggiungere questo angolino di Polonia bisogna proprio averlo deciso. La storia è che Zamość è una di quelle città ideali fondate puntando il dito e tirando le vie con il righello. Palmanova, per esempio.
Jan Zamoyski, figura centrale nella Polonia della seconda metà del Cinquecento, divenuto tra le mille cariche anche ciò che oggi chiameremmo segretario di Stato del re di Polacchia, già possessore di svariate terre e città, decise di fondare una propria città secondo i canoni architettonici militari e di armonia del Rinascimento. Poiché aveva studiato a Padova, peraltro convertendosi al cattolicesimo e diventando rettore di una delle facoltà di giurisprudenza, apprezzava lo stile espresso dalla città e decise di portarlo al nord. Assunse un architetto padovano, per l’appunto, Bernardo Morando, cui commissionò il progetto della città e alcuni edifici rilevanti di essa. Zamość è una classica città rinascimentale con cinta di mura circolare, fossati e bastioni possenti, all’interno una piazza rettangolare circondata da palazzi di uguali proporzioni e grande bellezza e dominata dall’odierno municipio, strade a reticolo tutte della stessa larghezza e percorse da portici, alcuni edifici funzionali come la cattedrale, la caserma, l’arsenale e così via.
Qui la chiamano ‘la Padova del nord’ per ovvie ragioni. Ho dimostrato in un altro mio viaggio polacchico come sia invece Cracovia la Padova del nord, scritto qui, mentre Zamość è senz’altro avvicinabile a Sabbioneta, davvero simile anche per dimensioni. E come a Sabbioneta, una giornata intera è persino troppo, fatto il giro delle mura, percorsa ogni via del reticolo, osservata la cattedrale con attenzione, non resta che sedersi e mangiare. Anche perché come non è agevole arrivarvi, non lo è nemmeno andarsene. Comunque, sono contento di averla vista, essendo peraltro del tutto conservata e lo sviluppo contemporaneo avvenuto fuori dalle mura. Ed è qui, in questo angolino di Polonia a pochi chilometri dal confine ucraino che il mio viaggio ha la sua ultima destinazione, ora è tutto ritorno, a Lublino e poi di conseguenza. Per carità, ora un paio di giorni a Varsavia sono in programma ma è soggiorno finale, non più viaggio. Tutto facile, tutto comodo. E poi ci sono già stato, ne ho un buon ricordo nonostante, povera città, sia stata rasa al suolo prima, sovieticizzata poi e oggi si ritenti di darle una fisionomia decente. Ho anche un ricordo personale, ricevetti una bella notizia che poi, purtroppo, rimase notizia e non divenne fatto. Di Varsavia sicuramente è da ricordare, e celebrare, la sollevazione del ghetto contro i nazisti, una rivolta coraggiosa soffocata dall’aeronautica, troppa la sproporzione e per questo ancora più memorabile. La ricostruzione avvenne anche grazie ai quadri di Bellotto, precisi casa per casa, il centro storico oggi è così, rispettoso anche dei colori dei quadri. Ma, insomma, di Varsavia ho poco da dire, questa non è una guida e le informazioni si trovano facili. Oh, comunque: è una bella città, vivace. Non vorrei trasmettere un giudizio dimesso.
È stata, questa mia, ancora una volta un’esplorazione di una zona d’Europa che conoscevo poco, il filo conduttore l’essere a est e, per buona parte del viaggio, afferire culturalmente e storicamente all’impero austroungarico. In questo senso, l’ascolto di 1914 di Luciano Canfora è stato più che opportuno. A un certo punto, ho realizzato che stavo ripercorrendo le tratte dei prigionieri dall’Italia allo Spielberg, poi ho proseguito per quelle zone centrali d’Europa che sono molto più centrali, da sempre, di quel che riteniamo noi, periferici del sud. Tra le città viste, spicca senz’altro Graz per bellezza e completezza, poi notevoli Brno, Lublino, Ljubljana, dò per scontate Vienna e Varsavia, Zamość un piccolo gioiello, Maribor bella per contesto e posizione, Ostrava stupefacente per le dimensioni colossali dell’industria metallurgica di stampo sovietico.
Viaggiare in questo modo, di dettaglio se in Europa, e in queste zone, le meno comprensibili per quel che sappiamo noi in Italia, è un modo per sapere di più del mondo in cui vivo. Ed è una cosa che, è ovvio, mi piace. Non pretendo di essere capito in questo, ovviamente c’è chi capisce e condivide ma la maggior parte delle persone non dice nulla per gentilezza e si vede che non comprende. O non gli importa, è giusto. Telefonata, oggi: mi scusi ma sono in vacanza. Ah, mi faccia invidiare: dove? In Polonia. Silenzio. Ma per lavoro? Ahah. Anche al ritorno, qualcuno chiede come si fa dopo le vacanze e alla mia risposta poi tace. Se dicessi Bali chiederebbero. Anche per questi miei raccontini, me ne rendo conto, serve interesse per l’argomento, altrimenti devono essere ben noiosetti. La cosa buffa sarà quando tra alcuni giorni, a una pizza con amici, qualcuno racconterà di essere andato a Budapest e verrà ascoltato come l’esploratore eroe avventuroso, certi meccanismi mi restano davvero oscuri. Sarà che son curioso di tutto, sarà quello. Oppure che ne so, mica le devo capire io tutte le cose.
Ora è davvero il momento di andare a fare il tramontista sulla Vistola con i miei nuovi amici e celebrare la golden hour in compagnia. Perché ben concludere un viaggio è importante quanto ben iniziarlo.
Lublino. Con la elle. Ci arrivo attraversando un pezzo di Polonia orientale, ancora punteggiata qua e là di bei boschi di conifere e di pianura coltivata. Più su si possono visitare parti ancora intatte della foresta primordiale europea, abitata dal bufalo europeo, e qui, figliolo, nulla di quello che vedi sarà mai tuo: per restare agli ultimi duecento anni, fu Austria dal 1795, poi Napoleone ricostituì il granducato di Varsavia ma fu operazione breve, nel 1815 divenne Russia per un secolo, tornò Polonia nel 1918 per poi venire occupata dai nazisti nel 1939. E fu così che uno dei centri più importanti della presenza ebraica in Europe, sede di una scuola chassidica di studio del Talmud di grande tradizione, dodici sinagoghe in città, fu spazzata via in pochi anni. Dei quarantamila ebrei di Lublino, più di un terzo della popolazione cittadina, ne restarono decine, essendo diventata la Polonia meridionale e orientale il centro dell’operazione Reinhard. Il ghetto di Lublino non fu inizialmente chiuso ma le condizioni in cui quarantamila persone vivevano furono terribili perché strette in uno spazio estremamente ristretto. Poi, come a Varsavia e Lodz, le cose peggiorarono.
Nel 2005, le scuole della città si organizzarono e chiesero a tutti gli alunni di scrivere una lettera a Henio Zytomirski, un ragazzino ebreo deportato e ucciso nel campo di concentramento di Majdanek, simbolo del milione e mezzo di bambini assassinati nell’Olocausto. L’iniziativa ebbe grandissimo successo e ancora oggi, ogni 19 aprile, data della memoria, l’invito è a scrivere a Henio al suo ultimo indirizzo conosciuto, in via Kowalska, 11. L’idea di fondo del progetto è spiegata da Tomasz Pietrasiewicz: “Non si può chiedere alle persone di ricordare i volti e i nomi di 40.000 persone. Si può però chiedere loro di ricordarne uno: il suo timido sorriso, la camicia bianca con il colletto, i pantaloncini colorati, il taglio di capelli laterale, le calze con le righe… Henio”. L’aspetto particolare del progetto è che ogni lettera, ogni disegno, ogni pensiero viene rispedito al mittente con il timbro ‘Destinatario sconosciuto’, così che ci si confronti materialmente con l’assenza di Henio e di tutte le vittime della Shoah. Henio non c’è più, non leggerà le lettere, Henio è stato spazzato via dalla terra con la sua gente, inutile far finta non sia così. L’idea del ritorno al mittente la trovo davvero sorprendente, priva della facile emotività che spesso le operazioni di memoria hanno e che è facile riversare sui ragazzini. La storia di Henio oggi rientra nei programmi scolastici e il progetto, grazie anche alla rilevanza mediatica, è stato studiato sia dalla storiografia che dalla memorialistica internazionale. Fatelo e fatelo fare, ovviamente senza dire come andrà a finire, che si spiegherà poi.
Un altro aspetto cui non avevo pensato e cui contribuiscono numerosi progetti in tutto il paese è la riconciliazione tra il popolo ebraico e quello polacco. In effetti, sebbene con evidenza siano entrambi vittime dell’occupazione nazista, dal punto di vista dello sterminio le vicende furono molto diverse e non senza responsabilità individuali e collettive del secondo. Come insegna Barbero nelle sue conferenze, a eliminare persone, peste o fucile, si liberano risorse, case, lavoro, soldi, cibo, anche solo spazio. Spazio è quello che c’è oggi attorno al castello di Lublino, un curioso neogotico che mi fa venire in mente il palazzo ducale di Stettino. Spazio vuoto, un giardino, uno svincolone, un parcheggio per gli autobus, un mercato, ed è dov’era il ghetto, l’ultimo. Ai margini, è rimasto un antico cimitero ebraico non più utilizzato dal 1829 se non dai nazisti, con il loro macabro senso dell’umorismo, per le esecuzioni degli ebrei non deportati. Oggi si registra in città un certo turismo di discendenti dei sopravvissuti o delle vittime ebree, allo scopo di ricostruire le vicende e i luoghi dei padri e dei nonni. La comunità ebraica oggi in città è davvero minima, appena possibile andarono via tutti.
Il campo di concentramento di Majdanek è in città, ci si arriva a piedi, è uno dei campi grossi e di recente annoverato dalla critica storiografica tra i campi di sterminio e non di concentramento. Il campo è importante per svariati motivi. Il primo, come detto, è che era in città, nessun camuffamento formale come Buchenwald o Auschwitz, il campo era ed è perfettamente visibile, impossibile quindi non sapere. Secondo, il campo fu liberato dell’armata rossa nel luglio del 1944, ben sei mesi prima di Auschwitz. Quindi, il campo si mantenne ed è oggi perfettamente visibile in tutti i tragici dettagli perché i nazisti dovettero arretrare in fretta e furia e non riuscirono a far saltare nulla. Più importante, però, è considerare che nel luglio del 1944 l’Olocausto era in pieno svolgimento, il ghetto di Lodz non ancora liquidato, Auschwitz a pieno regime. Chiedersi, quindi, perché non si sia intervenuti prima, magari bombardando Auschwitz, è una legittima domanda alla quale, allo stato delle cose, io e non solo io non ho risposta convincente.
È una bellissima giornata, le nuvole si muovono veloci e il contrasto è molto forte. Si visitassero i campi a febbraio, con il gelo e la pioggia, il cuore si accorderebbe con l’esterno. Ricordo la visita a Buchenwald durante una delle più belle giornate di primavera io abbia mai visto, la foresta attorno era di una bellezza straziante al confronto e non riuscivo a immaginare la pena dei prigionieri a fronte di ciò che era irraggiungibile. Oppure, chi lo sa, era di loro conforto sapere che la vita andava comunque avanti e che ci sarebbero state altre primavere? difficile dirlo. Dentro le baracche fa un caldo asfissiante, è tutto il giorno che il sole scalda i tetti di metallo e, soprattutto, non hanno finestre. Le baracche delle SS le si riconoscono perché, appunto, hanno le finestre e, sul tetto, anche i camini per il riscaldamento. Il campo è davvero intatto, si possono vedere i depositi di zyklon B, le latte, tutto è lì. Non sono previste visite guidate, il campo si gira da soli; l’apparato di spiegazioni è davvero molto ben fatto, dettagliato, preciso e dilungato al punto giusto. Mi chiedo però se sia giusto vedere posti del genere senza una guida o, meglio, senza un pensiero guidato. Per dare una relazione credibile con i numeri dei reclusi e delle vittime, vengono esposte le scarpe, come ad Auschwitz, quattrocentotrentamila paia. Prendi una persona, la infili in un paio di scarpe ed ecco una moltitudine inaccessibile alla mente. Manca l’aria, mi gira la testa, ho la nausea e sono solo un turista. Attorno, la città, ci sono migliaia di persone che quando vanno in bagno vedono il campo, come si fa? Come si può?
Torno a piedi in centro per riprendermi, sono quattro chilometri, un po’ barcollo. Lublino, il centro storico, è una città davvero bella. In un’ora si vede quasi tutto, con calma. Piccola, arroccata su una collinetta e ancora murata, ruota tutta attorno a tre piazze ma si è conservata, l’impianto è medioevale e gli edifici rinascimentali e barocchi. Tutte le case sono affrescate e dipinte, l’atmosfera è davvero piacevole. Il che che contrasta ancor di più con quello che tutte le città polacche e galiziane hanno subito durante le occupazioni, quella nazista in particolare. Non riesco a scindere le cose e non è giusto farlo anche se, in nome delle primavere che vengono e verranno, è giusto vivere questi posti con la bellezza e la fortuna che ci è concessa oggi. Ancor più perché cinquanta chilometri più in là non è così.
Ed ecco dove non abita più Henio.
Infine, un suggerimento che c’entra solo un po’ ma che non posso non ridare anche qui: Destinatario sconosciuto.
Sono in stazione a Ostrava chiaramente in preda a un robusto sequestro ematico. Una camminatina di un’ora sotto il sole a picco di Ostrava dopo il pranzo di carnazza è stata un’ottima idea. Mentre bevo acqua a più non posso, il mio vicino sta bevendo un tè caldo. Prendo il treno verso nord e scavallo in Polacchia, dalle corone agli zloty, che mi fa sempre pensare al mercato nero. E adottatelo ‘sto euro, che tempo ne avete avuto. Il carbone, che non guarda in faccia nessuno, si trova anche di là, nella Slesia polacca, le miniere e le acciaierie pure. E le città industriali anche, Katowice è la prima grossa che si incontra e ha attorno alcune città satellite, per esempio Tychy, costruite negli anni Cinquanta per dare sistemazione ai lavoratori. I quartieri sono in ordine alfabetico, a reticolo, e sono stati pensati per centomila persone, oggi di più. Va da sé che qua attorno l’unica città di grande bellezza è Cracovia. Io svolto e intendo andare a Rzeszów, città con grandi trascorsi commerciali con la lega anseatica, aveva una connessione diretta con Danzica, poi annessa all’impero austroungarico durante la prima spartizione del paese e tornata alla Polonia solo dopo la prima guerra mondiale. Il voivodato odierno è quello dei precarpazi ma la regione storica è la Galizia, che si estende da qui a Leopoli. Data la poca distanza, centosettanta chilometri e ottanta al confine, oggi Rzeszów è il centro logistico da cui passano tutti i rifornimenti all’Ucraina in guerra, armi comprese, e da cui fuoriescono le persone.
Ma le intenzioni sono una cosa e i fatti un’altra: al confine il treno si ferma quasi due ore ed essendo un intercity sigillato dentro fa un caldo significativo, fermi nel nulla. Nel mio scompartimento una famiglia di tre guarda al pc una serie tv coreana sottotitolata in polacco, lei comunque muore. Spoiler. Poi è Polonia, a tarda serata. Rzeszów, dicevo, oggi fa parte del network delle città europee emergenti, con Poznań nel paese, alti redditi e qualità della vita, come tutto l’est europeo ne ha passate di ogni dagli ottomani in poi e, in particolare, in Galizia l’olocausto è stato più terribile di dove già lo era. Grotowski era di qui, mio padre sapeva chi fosse, anzi io so chi sia per lui, mia madre più ferrata sulla Galizia, proprio questa, non la comunità autonoma spagnola.
La Polacchia è un bel paese, vario e grande, se non fosse così pieno di polacchi. A parte la battuta, di polacchi iperreligiosi e ultranazionalisti. Oddio, sul nazionalismo un minimo di ragione storica bisogna dargliela, contando le spartizioni che il paese ha subito, stretto tra rompicoglioni di prim’ordine, tedeschi, prussiani e russi. Per decenni il paese non è proprio esistito, a più riprese. Dodici ore che sono qui, però, e son già di nuovo stufo di Solidarność e Giovanni Paolo II. Voglio dire, persino nei parchi.
Rzeszów è graziosa e molto vivibile, si vede. Ne ha passate di tutti i colori e si vede, le glorie passate sono visibili sì e no. Un’enorme residenza settecentesca costruita sui bastioni di un castello difensivo rimanda, imparo, a una famiglia di rango principesco fondamentale per la storia polacca, i Lubomirski, che io sento per la prima volta e la cosa sembra grave. Poi si parla dei Tatari e bon, non mi ci raccapezzo proprio. In piazza questa sera c’è, credo, un evento elettorale: dopo quaranta minuti di Metallica dalle casse, ora una signora parla con toni abbastanza accesi di cose importanti, sembra, strappa qualche applauso e dietro di sé ha una sua grande immagine con lo spazio siderale come sfondo. Da quel che posso interpretare con le mie categorie politiche italiane, direi destra ma non è facile dirlo, specie se sono cose locali. Dietro c’è un tizio grosso grosso in giacca sportiva e cravatta che dev’essere il protagonista. Io bevo una birrona seduto, a volte applaudo a volte faccio buu. Tanto fisicamente sono come loro e dalla frequenza con cui mi chiedono informazioni, deduco che si ingannino spesso, quindi non vengo percepito come estraneo. No, lei, Karolina Pikuła, è qui a fare endorsement per lui, il candidato locale alle, boh, regionali della Moravia, voivodato, cose così. Sparano anche fiamme e la seconda cosa che leggo sul profilo Twitter, ehm, X, di lei è ‘Mama’, quindi capisco di non aver sbagliato. La città è piuttosto turistica, di turismo interno, e anche qui quando una pizzeria italiana o presunta usa i Ricchi e poveri per far capire che la pizza è buona giro largo. Nessuna traccia di guerra o segni di, nessuna percezione che l’Ucraina sia appena al di là del fiume, qualche adesivo e cartello ma come in tutto il paese. In fondo, probabilmente nemmeno nella parte occidentale dell’Ucraina si ha una percezione diretta del conflitto, secondo quel che mi dice un’amica.
Saluto il bel municipio in forme vicine alle gotico-baltiche che rimanda agli scambi di una volta, raccatto di nuovo le mie cose e vado verso nord. Pronto a fare il solito sforzo delle stazioni, ovvero capire la piattaforma, il binario, il settore spesso senza tabelloni o indicazione, con annunci sì frequenti ma in polacco stretto e poca gente che parla inglese. Gli intercity, a volte e non si capisce se ci sia un criterio, invece di sei posti per scompartimento ne hanno otto a parità, ovviamente, di larghezza e devo ammettere che per me sono un po’ sotto la soglia di vicinanza fisica che voglio avere con le altre persone. In generale, non polacche o galiziane. Se poi, e c’è sempre, c’è una vecchia che chiede di chiudere il finestrino e fa un caldo dell’accidenti, allora il viaggio diventa, oltre che molto allegro, lunghetto. Quel bel teporino tra coscia (mia) e coscia (sua).
La chiesa di San Giovanni Battista e di San Giovanni evangelista a Brno ha una facciata minima e poco appariscente, ha però al suo interno una copia della casa di Maria di Loreto alla stessa scala e, non contenti, una specie di scala santa, più corta di quella di Pilato a Roma, appena dietro. Ogni pochi minuti, una fedele offre le priorie rotule all’atto di devozione. Sono tutte giovani, e questo lo spiego con il gesto atletico richiesto, e donne, e questo me lo spiego con più fatica. Anche coppie di genitori assistono orgogliosi alla salita della figlia e la abbracciano con approvazione. Anche a Roma, nel caso della scala, o Fatima, o Lourdes, o Loreto eccetera, il gesto della sottomissione in ginocchio e del percorso fisico da compiere mi infastidisce, trovo la devozione servile al limite della mortificazione così poco spirituale ed esecrabile, ancor più se riservata alle donne e negli anni Venti del Duemila. Non è nemmeno un gesto antico, primitivo, è piuttosto controriformista, padronale, quando la chiesa decise di non avere più a che fare con la vita e l’umanità delle persone e di occuparsi, piuttosto, di peccato, senso di colpa ed espiazione. Desideri qualcosa? Un figlio? La salute dei tuoi? Una vita felice? Sottomettiti.
Che distanza dalla Venere di Willendorf vista a Vienna, simbolo di prosperità materna, dell’unione con la terra e la vita stessa, di equilibrio e proporzione fisica e spirituale, trentamila anni prima dei pretacci tridentini.
A est di Repubblica Ceca e Slovacchia c’è l’Ucraina, quindi di là no. A nord ci sono i monti Tatra, una bella catenona di montagne carpatiche con caratteristiche alpine molto spesso oltre i duemilacinquecento metri di altitudine che devo in qualche maniera circumnavigare, per cui sfrutto il primo passaggio utile. Con l’app delle ferrovie ceche, molto ben fatta, mi costruisco passaggio e giornata, oggi un po’ più articolati del solito. Punto la zona mineraria della Repubblica Ceca, dove normalmente i turisti non vanno – e chiamali stolti -, vado al ‘cuore d’acciaio della repubblica’, a Ostrava. Mi piace l’incipit della guida: “Anche se Ostrava non è di solito tra le mete più ambite dei turisti, ci sono alcuni luoghi interessanti…”, ahah, che tatto, e poi elenca la cattedrale dell’Ottocento e basta. Ma io non son turista, son viaggiatore e mi interessano anche i posti brutti, sporchi e cattivi. O quasi, diciamo. Centro dell’estrazione carbonifera dell’ex Cecoslovacchia, quindi della metallurgia – basi solide e determinanti per l’espansione del socialismo, cui va aggiunta la sola elettrificazione – va da sé che Ostrava è posto un filo respingente, anche perché per gli stessi motivi fu bombardata con furia dagli alleati. Ci si aggiunga un certo inquinamento da combustione di carbone e vualà, anche se oggi promettono grandi conversioni. Chiaro che voglio andare a vedere ma non mi ci fermerò.
Parto, prendo il RegioJet, anzi un RegioJet, che altro non è che un intercity che mi dimostra, ancora una volta, che è possibile farlo: connettere un paese con equilibrio tra costo e velocità e comfort, nonostante da noi ci spieghino sempre il contrario e perforino qualsiasi cosa non sia pianura. Perché noi abbiamo i capitani coraggiosi che fanno il nostro bene, noi poveri idioti, vedi Colaninno che ha stirato le gambe poco fa. Per fare i centosettanta chilometri tra Brno e Ostrava il costo è circa tredici euro, due ore di viaggio. Posti per bici, carrozzine e cani in ogni vagone, vagone bar e ristorante, piccolo supermercatino, giornali e ricche colazioni, convenzioni con alberghi lungo la tratta a mostrare il biglietto del treno. E i posti sono comodi e il treno più che accogliente. Sì, continuiamo a considerarla arretratezza al cospetto della nostra velocità. Disponibile a fare spot gratuiti al RegioJet, amici, sono qui. Un difetto: niente prese elettriche, almeno in seconda dove sono io.
L’app delle ferrovie ceche mezz’ora prima della partenza fa ciuf ciuf ad alto volume per avvisare, il che mi ha sorpreso non poco in un bar e mi ha fatto ridere. E poi attenzione in stazione: prima c’è la Nástupiště (il?) da tenere d’occhio, la piattaforma, poi il Kolej (la?), il binario, e infine il Sektor (la? No, dai), cioè quale parte del binario, in lettere. Non è raro che su uno stesso binario ci siano due o, a volte, tre treni ma siccome non ho mai sbagliato direi che sia comprensibile proprio a tutti.
E invece no, scendo alla stazione sbagliata. Appena scritto, eh. Ostrava Svinov, nel mezzo del nulla post-industriale. Ma che vai a fare in una città piena di fabbriche? mi hanno chiesto stamattina. Già, eppure pensandoci bene io ci abito in una città così. Prendo un tram per avvicinarmi alla città, biglietto a bordo con carta di credito, nuovo e pulitissimo, cadauno particolare per suprematisti italiani orgogliosi.
Già. Sono le prese che non c’erano sul treno. E che peraltro si trovano in quasi tutti i bar. Non capisco bene dove stia il centro città, anche dalla mappa non si evince ma evinco benissimo dove voglio andare: a Vítkovice. Ovvero, la zona industriale di Ostrava o, almeno, la prima parte visibile. Vorrei spiegare loro quanto inquini il carbone. Con gentilezza.
Da oggi l’aggettivo industriale ha una nuova connotazione per me. Mai visto niente del genere, la metallurgia di stampo sovietico adesso ha una proporzione nella mia testa e se oggi c’è un bel sole e il cielo è azzurro provo senza esito a immaginare un gennaio degli anni Ottanta a caldaie accese. L’inferno in terra, altroché. Però che fascino, per me è come vedessi un treno merci lungo venti chilometri che trasporta ruspe e camion insieme e che a un certo punto deraglia e poi esplode e poi delle gru ancora più grosse recuperano tutto. L’eccitazione è quella. È con questi impianti che i Rothschild fecero fortuna e l’impero austroungarico pure, con il ferro e l’acciaio, di conseguenza le ferrovie e le armi, qui stavano i robota, oggi gli impianti dismessi sono visitabili, pieni di gente cui gira la testa a guardare in alto talmente sono grandi. L’idea stessa di recupero e di conversione va rivalutata e rivista in toto. In un pezzettino aperto è in programma un concerto per stasera, direi che qualcosa di industrial sarebbe del tutto appropriato ma temo non sarà così. Pensavo di trovare gli abitanti di Ostrava con i capelli impiastrati di polvere di carbone e i visi anneriti, così non è ma se gli impianti in città sono stati dismessi di sicuro fuori ce ne sono molti così in funzione. Se la Polonia chiede ciclicamente fondi all’UE per non bruciare carbone, immagino lo facciano anche qui. Vabbuò, sono andato lungo anche stavolta, alla prossima, cioè immagino domani, che io ho ancora un sacco di cose da fare oggi, compreso cambiare stato (Stato, non il mio stato, anche se ci sono andato vicino un paio di volte, oggi, per il caldo).
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