minidiario scritto un po’ così di un breve giro baltico: due, folklore vario prima dei confini veri

Un classico dei paesi dell’est sono le biglietterie dei treni che vendono anche alimentari. Di solito presidiate da donnone arcigne di mezza età la cui espressione massima è il monosillabo gnnghrf che vendono variamente biglietti del treno, patatine e cioccolata, senza sentirsi in apparenza sminuite. Spaccare qualche faccia, magari, quello sì.

In questo caso c’è un supermercatino vero e proprio e un’elegante sala di attesa prospicente. E in questo caso la signora della biglietteria mastica l’inglese, cosa non solo non scontata ma solitamente improbabile. I binari sono a scartamento europeo e non russo, ben più larghi, non credo sia così in tutto il paese. Ma i treni li fanno comunque più larghi, comodi. E a differenza di altri paesi baltici, la Lettonia per esempio, la minoranza russa non è del tutto ostracizzata e a fianco di tutto quanto scritto in alfabeto latino si trova qua e là il cirillico, indicazioni, nomi, alcuni giornali. Alla fine, tra russi, bielorussi e ucraini sono il venticinque per cento della popolazione.

Che è, complessivamente, meno di un milione e mezzo di persone. Niente male. Al momento la stagione offre frutta grandiosa tra cui brillano lamponi e mirtilli, oltre che finferli. Non proprio a buon mercato, come quasi nulla qui – indice internazionale cappuccino: quattro euro, però ne vien via un tolotto – ma son ben spesi, enormi e succosi. Il pentimento poi.

Sul tabellone delle väljumised appare il mio treno, vado. Per l’inevitabile e solitamente umiliante spazio-civiltà, segnalo che sull’espresso su cui viaggio, unica categoria di treni esistente a parte il transbaltico europeo, non solo ci sono spazi per passeggini, biciclette e bagagli, prese elettriche, moquette ben tenuta, ma c’è anche la macchinetta, oltre che per valideeri il biglietto, per comprarlo proprio. Sul treno. E devo dirlo? Manco un telefono che suona, mai. Qualcuno che parla, raro e a bassa voce, ma suonare mai. MAI.

Signore, perché ci mescoli così male? Fuori piove, ci sono tredici gradi e le mie due ore di treno a guardare il paese fuori dal finestrino sono veramente un’ottima idea. In generale, oggi ancor di più. Bosco, bosco, Tapa, bosco, gruppo di case nel bosco, Rakvere, bosco, lago, bosco, Kiviöli, bosco. Mi torna la ricorrente tentazione di una casetta georgiana in legno in un villaggio baltico, tra la pineta e la spiaggia. Betulleta. Magari un mese, prima o poi. Fine del pezzo di costume.

Il treno ferma e non c’è un dove, oltre. La Narva, un bel fiumone, secondo nel golfo di Helsinki dopo la leggendaria Neva ghiacciata, scorre tra due alte rive e rupi e divide due imponenti fortezze, Narva e Ivangorod. Esse si fronteggiano da secoli, a partire dal dodicesimo secolo, quando il re danese ne fece il confine delle proprie conquiste, rispetto a ciò che vi era di là, un pericolo oscuro e costante, fossero russi o, in quel momento, l’Orda d’oro mongola. Poi furono l’ordine teutonico, gli svedesi, Nevskij e la Livonia, fu costruita anche l’altra fortezza e da allora si guardano per rive opposte quando la Russia o la Svezia recedevano. Lo storico ponte che univa le due sponde fu distrutto nella seconda guerra mondiale nella battaglia di Narva, una delle più terribili, che distrusse la città stessa, una volta famosa per il barocco tipico e chiamata ‘la perla del Baltico’. Niente più perle, niente più barocco. Dall’indipendenza, le due fortezze si guardano da Russia ed Estonia e il ponte che le unisce, chiamato con il tipico sarcasmo sovietico ‘dell’amicizia’, oggi fa da terra di nessuno. Come quello tra Uzbekistan e Afghanistan poco tempo fa, stesso nome e stesso tipo di amicizia.

L’amicizia oggi si percorre solo a piedi e dopo innumerevoli controlli. Se Istanbul è uno dei varchi aerei per la Russia, questo è uno di quelli pedonali, ancora un confine a piedi, coincidenze. Una galleria fatta di rete e filo spinato passa sul ponte e porta di qua e di là. Non essendo belligeranti UE e Russia, il confine non è chiuso. Una lunga fila di persone aspetta di entrare in Russia, la maggior parte ha l’aria di persone venute di qua con un trolley per riempirlo di cose. Ma non è detto, alcuni sembrano proprio turisti. E anche in uscita, in effetti.

È pur sempre una frontiera, non è che ci sia molto da far domande anche se una ragazza orientale mi dice sbrigativamente di essere in effetti una turista in uscita, andandosene prima che io menzioni la guerra. Mentre da un bastione osservo la fortezza di là, scorgo chiaramente un gruppo di visitatori su un mastio, hanno ombrelli e stanno ascoltando la spiegazione di una guida. Stanno certamente ascoltando le stesse cose che io ho appena letto, da prospettiva diversa, animati dal desiderio di sapere. Lo stesso mio desiderio, cosa che ci lega. Ma io di qua non posso andare di là e viceversa, io non posso visitare la loro fortezza e loro la mia, l’assurdità definitiva di un confine.

A seguito dell’indipendenza dell’Estonia nel 1920, al crollo dell’impero russo, e del trattato di Tartu, secondo l’articolo 122 della Costituzione estone il territorio di Ivangorod apparterrebbe ancora all’Estonia, visti però i rapporti tesi tra i due paesi la frontiera non è stata ancora riconosciuta dai russi. Stranamente. A parte le zone limitrofe al ponte, il resto del confine non è cintato, a parte i punti sensibili come la centrale elettrica, si può quindi nuotare o imbarchettarsi e andare di là. Però i cartelli multilingue parlano chiaro: quindici anni se si viene beccati di là senza visto. Ma poi chi andrebbe di là solo per vedere? Sano di mente, intendo, quindi non io, che scruto la riva facendo piani e sono venuto fin qui apposta per vedere di persona.

Un tizio pascola il gatto al guinzaglio e io è meglio mi trovi un caffè dove farmi asciugare e aspettare qualche ora il tardo treno per tornare a Tallinn, che il buio e il freschino e la pioggia incalzano.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro baltico: uno, ancora?, questa cosa irrisolvibile dei confini, l’aria di questo mare

Sto contemplando la fortezza di Ivangorod, al di là del fiume Narva. Il fiume fa da confine da non molto, sono trent’anni, lo era stato prima, per la breve indipendenza degli anni Venti, con la Svezia ancor prima, per secoli è stato solo un fiume da valicare, ora però è un punto molto caldo. Perché di là è Russia e di qua no.

Vado con ordine, ricomincio dall’inizio. Colgo la palla al balzo di un piccolo appuntamento per dare al me stesso del presente ancora qualche giorno di vagabondismo, che il rientro si preannuncia intenso. Tornato dal Tajikistan, qualche giorno di lavoro fatto, sbrigata un’incombenza fastidiosa, attaccate le calamite al frigo, lavato tutto, dai che tre giorni ci stanno ancora. E siccome da parecchio vorrei vedere il confine di cui dicevo, e qualche giorno al fresco lo passerei volentieri, anche in prigione, rimollo gli ormeggi e organizzo il girino.

Tallinn per cominciare. Estonia, la repubblica baltica più a nord, anch’essa sul mar Baltico che chissà perché tanto mi attrae. Che aria, qui. Sfogliando la guida, mi porto qualche libro da scorrere, alla ricerca di qualche notizia utile: il fresco-fresco The Baltic revolution: Estonia, Latvia, Lithuania and the path to independence di Anatol Lieven, fresco nel senso che è del 1993, fresco di indipendenza; l’interessante Remains of the Soviet Past in Estonia: An Anthropology of Forgetting, Repair and Urban Traces di Francisco Martinez, che non deve aver vissuto direttamente le vicende, a occhio. Tralascio i trattati sui castelli dell’Ordine teutonico nei paesi baltici, magari più avanti, e altrettanto avanti il tremendo Bang Estonia: How to Sleep with Estonian Women in Estonia di tal Roosh V – specialista nel tema con altri saggi come Game: How To Meet, Attract, And Date Women e Day Bang: How To Casually Pick Up Girls During The Day – in cui sono incappato per caso, e resterò con il dubbio sul capitolo: Why Estonia’s entry into the Euro zone has made your seduction mission harder che, chiaramente, non leggerò. Chissà perché, comunque.

Chiaro che qui la questione russa è all’ordine del giorno da secoli, mica da ora. Per lungo tempo questa è stata Russia, URSS, zarista e bolscevica, in tutte le declinazioni. San Pietroburgo è lì, in fondo al golfo, aguzzare lo sguardo, in tempi normali pullman e traghetti partivano ogni mezz’ora. E io no, dai, ci sarà occasione, pensando le cose immutabili in Europa. Bravo, furbo.

Russa come svedese come danese come d’ordine teutonico come prussiana, le questioni qui sono state tante, più facile continuare a pestarsi i piedi in un mare chiuso come il Baltico o il Mediterraneo, la lega anseatica resta invece un modello irraggiunto di organizzazione e coabitazione. Certo, ogni tanto ci si radeva la città al suolo vicendevolmente ma il tenore generale era di commercio cordiale. In Estonia le città devono avere per legge nomi di cinque lettere, Tartu, Narva, Pärnu, Valga, Keila, infatti Tallinn è capitale perché ne ha sette. Tartu tra l’altro è in fibrillazione perché quest’anno è capitale europea della cultura, ne dicevo tempo fa perché ormai questa cosa pare la promozione europea di paesoni senza troppe prerogative. E infatti qualche giorno fa, per cultura, hanno inaugurato il festival del bacio. Dell’analoga norvegese non so ma non credo faccia faville.

Tallinn vent’anni fa era una città abbastanza conservata, al centro medievale anseatica con aspetto generale tedescheggiante, attorno russa per porto, magazzini, fabbriche. Complessivamente abbastanza dirupata. Oggi è una città turistica che ha beneficiato grandemente dell’entrata in Europa – nessuno è più europeista delle repubbliche baltiche, che non sono russi, non sono tedeschi, non sono polacchi, non sono finlandesi o scandinavi, sono appunto baltici e temono tutto l’attorno -, gradevole da girare e in cui trascorrere un po’ di tempo. Meno fascinosa di Riga, più di Vilnius. Ha degli scorci belli.

Per quanto riguarda il recupero delle fatiscenze industriali, aggiungiamo una tappa obbligatoria alla deportazione dei nostri assessori all’urbanistica, dopo Lodz, Kaunas, Poznan, Varsavia, così che vedano come fanno qua fuori.

Non dico debba piacere ma, qui, non radono al suolo per costruire centri commerciali affetti da infantilismo, già vecchi e dalla vita breve, recuperano bensì a borgo, con gli edifici della fabbrica che sono di volta in volta uffici, alberghi, negozi, cinema e così via. Un altro piccolo centro città che si gira come lo giravano gli operai e gli impiegati. Dico solo di venire a vedere, prima. Le notti migliori in Europa le ho sempre fatte in alberghi dentro ex fabbriche, che ho scelto apposta perché sono più belli, non necessariamente di lusso. Da noi no, fabbriche brutte, inventarsi passato nobile e secondo tradizione.


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trivigante scopre le cose: il cotone

Una settimana fa ho scoperto il cotone. Cioè, sapevo dell’esistenza del cotone e ne conoscevo la forma in calza o maglietta o mutanda ma ne ignoravo la forma naturale, ammesso che ne avesse una.
Poi ho letto della politica delle monocolture dell’URSS e di come Uzbekistan e una piccola parte del Tajikistan fossero stati scelleratamente dedicati alla coltura del cotone e allora mi sono avventurato in un campo, in senso letterale, per vedere questo cotone come diavolo fosse fatto.
E ho scoperto che a) è una pianta, b) richiede molta acqua e lavoro, ottima quindi per luoghi semidesertici, c) a un certo punto come è d’uopo fa un fiore:

d) poi questo fiore si impallina e si imbozzola, per fare come è anch’esso d’uopo, il frutto:

e) alla fine si apre e, magia!, il nucleo è una calza di spugna praticamente già indossabile:

Tra le tante conseguenze della presenza del cotone, una mi tocca da vicino, dalla vita in giù. Fedele cliente di Carrera Jeans da quando Levi’s divenne troppo cara, anche per pantaloni di ogni forma e colore diverso dai jeans, e fedele alla linea politica dell’azienda veronese, «one life, one race, one world, one jeans», sapevo della loro verticalizzazione assoluta del processo, ovvero dalla coltivazione del cotone alla produzione di abbigliamento al negozio. Come sapevo della delocalizzazione in Tajikistan, sia per la coltivazione della materia prima che per la lavorazione, ho potuto constatare di persona la presenza in tutte le città tajike del marchio:

In questo caso è una storia originale. Non bella come quella di Dolce & Gabbana in Uzbekistan, che quando decisero di aprire un negozio a Tashkent scoprirono la decennale esistenza di centinaia di negozi a loro nome nel paese.

il presente è un soffio

Ovviamente tra passato e futuro o tra due martelli di bronzo.
Sulla torre dell’orologio in piazza san Marco a Venezia, in cima, ci sono due statue di bronzo raffiguranti due pastori che battono con un martello le ore su una grande campana.

Il motivo è ricorrente in parecchie città dominate da Venezia. In questo caso, le statue sono chiamate mori di Venezia per il loro colore bruno e, sebbene paiano identiche, in realtà una ha la barba e l’altra no.

Questo perché una rappresenta un vecchio e l’altra un giovane. Ma non basta, ecco il bello: il moro vecchio batte le ore due minuti prima dell’ora esatta, ed è il passato, il moro giovane invece picchia due minuti dopo l’ora precisa, per rappresentare il tempo che verrà. E il presente, quella fissazione dell’ora tonda, non lo batte nessuno, si sentono il prima e il dopo, che dopo non è più perché ti giri un secondo ed ecco che è un prima. Ma poi dopo di che? Che cosa stupenda.

A fianco degli orologi rinascimentali, esisteva la figura del temperatore, o moderatore, che di fatto era un manutentore che provvedeva alla regolazione di pesi e contrappesi, della lubrificazione degli ingranaggi, al perfetto funzionamento del meccanismo. Spesso, come nel caso della torre di Venezia, all’interno vi era un’abitazione nella quale il temperatore viveva, così da essere sempre pronto alla bisogna. L’appartamento della torre di Venezia, che tale è perché sviluppato su tre piani con ambienti di soggiorno e di lavoro, esiste dal 1499, anno di entrata in servizio del primo temperatore. Dopo trentatre temperatori e quattrocentonovantanove anni, l’ultimo di essi, Alberto Peratoner, venne mandato in pensione perché dopo l’ultimo restauro venne installato un meccanismo automatico di ricarica. E così il 30 marzo 1998 l’ultimo temperatore chiuse la porta e lasciò l’orologio incustodito, dopo cinque secoli. Qui alcune fotografie scattate da Peratoner. Vedi il presente? Svanito.

minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: dieci, il sogno turchese, tutti, considerazioni finali, come torno

Ineccepibile la descrizione di Marco Polo: «Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini». Nemmeno una parola falsa o imprecisa, non lo si becca in castagna, Polo. Sono quasi tutte così le sue descrizioni di città e luoghi, tipo (parafrasi): «e vi eran cose molto belle» e son la minoranza del Milione, che si dedica invece lungamente a Kublai Khan e alle vicende dell’impero mongolo, mica la fa lunga sui posti, così usava. Ma chi non l’ha letto e lo cita pensa sia così. A Samarcanda qualcosina in più c’è ma per gran parte arrivò dopo Polo, quindi assolto con beneficio. Perché Alessandro Magno disse invece: «Tutto quello che ho udito di Marakanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi» e oltre a essere ineccepibile anche questo, è un accenno che rimanda immediatamente alla storia millenaria della città, meravigliosa fin dalle origini. Afrasyab, Marakanda, poi Samarcanda, lo dicevo ieri, sottintendendo la prima città, capitale della satrapia della Sogdiana sotto gli Achemenidi di Persia, poi fiorita ancor di più sotto i Sasanidi per poi divenire una delle città più ricche di tutto il mondo islamico sotto arabi, persiani e turchi. Quando Polo la vide, Samarcanda aveva subito le due devastanti invasioni mongole che la ridussero al lumicino. Fu poco dopo che Tamerlano, Amir Timur, la fece capitale dell’impero timuride, immenso territorio che andava da Costantinopoli a Mosca a Delhi, e suo nipote Uluğ Bek proseguì l’opera rendendola talmente grandiosa da togliere il fiato ancora oggi. Che bravo sono stato quest’anno, ho visto Tebe, Cartagine e Samarcanda, bel malloppo di città leggendarie, mi emoziona ripensarci.

Vabbè, comunque facile parlar bene di Samarcanda. «Anche tu? Vanno tutti in Uzbekistan quest’estate» mi aveva detto un amico prima di partire e io mi ero sorpreso perché non so mai cosa facciano questi tutti e poi, ora, devo dire che aveva ragione: tra Bukhara e Samarcanda questi tutti li ho visti proprio, insieme. Il fatto è che lo stato uzbeko, nella persona del suo poco luminoso presidente Mirziyoyev, successore del cane Karimov, ha adottato negli ultimi anni una robusta politica di apertura, cercando di attrarre investimenti e turismo nel paese e, in effetti, i risultati si vedono. Certo, il giro canonico Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent, con volo diretto da Milano, è di grande golosità, tre città su quattro contengono monumenti di straordinaria bellezza, e i nostri turisti europei rispondono in massa, ma è anche inevitabilmente molto addomesticato. Si può alloggiare in alberghi di tipo occidentale, mangiare come a casa facendosi togliere i sapori molesti, girare sicuri e spavaldi, spendere come dei ricconi in Florida, sbattersene delle sensibilità locali e girare in ciabatte e braghini.

Ora: se questo servisse a dare una svolta ai diritti sociali e politici degli uzbeki allora sottoscriverei subito e, forse, sul lungo periodo sarà pure così. Pasolinianamente massificando tutto ma tant’è, il mondo pare oggi abbia un’unica regola e nessun modo alternativo. Se, invece, come è ora, si traduce semplicemente nell’invasione di una razza padrona cui i locali servilmente in cambio di valuta con alto potere d’acquisto vendono luoghi ed esperienze autentiche, allora faccio più fatica. E il calzolaio fa l’autista, il contadino spilla birre e la maestra col velo vende tazze alle turiste in costume sognando chissà cosa ma nel frattempo si guadagna di più. Il tutto sempre autentico, però. Per carità, le cose viste son talmente belle che non mi sentirei di scoraggiare nessuno, anzi, ma sono contento di aver messo al centro del mio viaggio il Tajikistan e l’Uzbekistan remoto del sud. E di non aver incontrato quasi nessun turista, men che meno italiano, che sopporto meno. Mica perché italiano, nonostante una certa sguaiatezza esibita nei costumi nazionali, più che altro perché capisco cosa dicono, è quello il problema. E comunque quando vedi apparire il tatuaggetto fatto a cazzo, sicuro son loro. Ma io mica voglio parlare di questo, fermati.

Tutti ‘sti presidenti, il tajiko Rahmon compreso, sono vecchioni provenienti dall’URSS, delfini di qualche satrapo allevato a pane raffermo e KGB e a loro volta despoti appassionati di potere e familisti orrendi. Certo, con loro l’argine all’islamismo integralista c’è ed è fermo, pur con tutte le storture (in Tajikistan, per dire, sono proibite le barbe) e quando essi soccomberanno al tempo e poi, spero alla storia, non è detto che andrà meglio. Anzi, potrebbe esserci la deriva fanaticheggiante, Iran e Afghanistan sono qui da vedere. Non c’è come proibire una cosa per allevare devoti.

Dei periodi di Samarcanda, dalla primordiale a quella odierna, rimangono svariate tracce. Notevole la collina della remota Afrasyab, con le sue stanze affrescate direttamente sul fango e la paglia, così simile alla vicina ma tajika Penjakent. Senz’altro la parte più significativa della città è la parte timuride, ovvero quella costruita e disposta da Tamerlano e discendenti, tra cui senz’altro il Registan, l’enorme famosa piazza sulla quale aggettano tre madrase meravigliose che ricordano un passato di sapienza e istruzione, e qualche esecuzione qua e là, vabbè, poi la moschea più grande dell’Asia centrale, la necropoli timuride, una successione strepitosa di mausolei uno più bello dell’altro e l’osservatorio astronomico di Uluğ Bek. Molte altre cose poi, il gran bazar sovieticheggiante, il quartiere cinese Shanghai. Tra l’altro in questi giorni c’è il festival di musica folk uzbeka, un grande appuntamento che ferma il centro città per alcuni giorni. In rete si trovano filmati delle edizioni passate, alcune cose meravigliose, altre terribili e dico solo Albano che bacia la terra uzbeka in favore di presidente cane.

Per me ora Samarcanda vuol dire anche aeroporto, cioè la fine del viaggio, breve tappa a Istanbul. Giusto averla piazzata alla fine, scelta saggia, partire sempre dal difficile. Che dire, ancora? Viaggio complesso, inventarsi e organizzare gli spostamenti non è sempre stato semplice, sarebbero serviti molti giorni in più, attraversare paesi come il Tajikistan richiede spesso di trovare il modo per arrivare da un punto all’altro e serve tempo per parlare, chiedere, cercare. Mi servirebbe, quindi, una vacanza, ora. Aver messo il naso in Asia centrale mi rende contento, volevo cominciare a capire. A Dušanbe scrivevo di trovarmi «nel fondo del Tajikistan che confina da vicino con l’Afghanistan, circa duecento chilometri da Pakistan e India, qualcosa meno dalla Cina e dal Kirghizistan. Oltre all’Uzbekistan, sempre dietro l’angolo» ed era vero, a Termez anche peggio, di fatto è lì che da secoli la civiltà umana progredisce e regredisce. Certo, anche noi in Europa abbiamo avuto i nostri bei (e meno) momenti, Grecia, impero romano, illuminismo, nazismo, ma chi suggerisce di guardare l’Europa come un’estrema propaggine del continente asiatico non sbaglia e ci suggerisce di aprire la mente e lo sguardo. Adesso in quest’ottica punto Iran, Armenia, Georgia e Azerbaigian.

E l’augurio iniziale? Molte persone care mi hanno augurato di tornare sereno e di trovare tranquillità e soddisfazione e io sono loro grato per questo augurio premuroso. Ma non è il tipo di viaggio che serve a questo né, probabilmente, io cerco tranquillità e soddisfazione, andando a sbirciare paesi complessi e non addomesticati. La mia amica A. mi aveva augurato di tornare «appagato», ed è stato l’augurio migliore, anche se pure in questo caso non è la conseguenza possibile delle intenzioni di viaggio. Capire di più è quello che voglio, non divertirmi o svagarmi, non vado in vacanza: vado in capienza, al contrario, in riempimento. E torno più consapevole, proiettato nel mondo, più concentrato.

Il che vuol dire che non solo non sono più sereno e accomodante ma, anzi, sopporto decisamente meno le meschinerie e le piccolezze: dopo aver diviso del formaggio essiccato a quattromila metri contemplando laghi glaciali e osservato l’immensità della storia da un monastero nel deserto, è ovvio che tollero ancor meno le sciocchezze, le miserie, le lagne, chi non parla con onestà, chi non agisce seguendo giustizia. Vedo dunque nubi all’orizzonte.

Bah, il fatto positivo è che la Nera Signora non c’era, o non era a Samarcanda che attendeva me, quindi ancora in pista, bucato fatto, sono pronto a ripartire. Chissà, magari pure a breve. Grazie a chi ha seguito.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: nove, camminare per un’idea

Non è poi così lontana Samarcanda / corri cavallo, corri di là, è vero, non è poi così lontana ma Samarcanda è un’idea, un posto là, dove tutte le strade su incontrano, dove le genti si scambiano e mescolano, è talmente in là nell’immaginazione, nello spazio e nel tempo, che puoi scappare lì per provare a sfuggire la morte. Come scrive Franco Cardini: “Samarcanda, anche perché fu a lungo una gemma incastonata in quella preziosa, polverosa collana dei sentieri attorcigliati che di oasi in oasi e di karavansaray in karavansaray ti porta lontano, e basta che tu la nomini socchiudendo gli occhi e sei su un tappeto magico”. Basta nominarla.

Dare un volto alle cose, e io sto per farlo arrivando a Samarcanda, è pericoloso, un’arma a doppio taglio: dare soddisfazione a un desiderio, arrivare finalmente a vedere e insieme, però, smarrire l’immaginazione, la fantasia, sostituirla con immagini concrete, fatte di mattoni, con la pesantezza del caso. Certo, si può fantasticare comunque sulla Samarcanda del passato, Afrasyab, Marakanda, poi Samarcanda, ma l’incantesimo è finito. Diventa un’altra cosa, un’altra categoria del pensiero.

Tamerlano, stessa cosa. Fin da Marlowe, il suo Tamerlano, fantasticare sull’immenso impero che andava da Costantinopoli a Mosca a Delhi è cosa facile, e quando morì stava conducendo la campagna di invasione della Cina, figurarsi. Anzi, non Tamerlano, che mette l’accento sulla sua zoppìa, ma Amir Timur, in cui il primo termine è il titolo onorifico, emiro degli emiri, principe dei principi, e il secondo il nome che diede inizio alla dinastia dei Timuridi che, per dire, costruirono il Taj Mahal in India e durarono fino agli inglesi nell’Ottocento. Amir Timur, dicevo, anch’egli qui diventa presenza reale da fantasia sfrenata, il suo mausoleo e la sua tomba sono lì da vedere, persino il suo corpo è stato analizzato e ha confermato quanto sapevamo di lui.

Non solo mercati e scambi e carovane e caravanserragli ma università medievali, madrase, conoscenza e apertura. Come quella di Ulug’ Begh, nipote di Timur, astronomo e scienziato che documentò nel quindicesimo secolo oltre mille stelle e relative orbite con precisione contemporanea. Le tracce del suo osservatorio, simile a quello di Copernico a Torùn o quello di Tycho Brahe a Copenaghen, sono impressionanti, resti della furia fondamentalista che, ancora, ci costringe al passato e tiene a freno la nostra capacità di immaginare.

Da Bukhara a Samarcanda prendo il treno e, siccome non mi nego nulla, ad alta velocità. Un Frecciarossa, ci assomiglia, velocità paragonabile. A bordo offrono, mai visto, oltre a dell’inedito gelato – coppetta con palline esattamente come dal gelataio -, mojito alla loro maniera ma pur sempre mojito, macedonia.

Nel deserto attraversiamo alcune zone industriali, gas e miniere, terribili e solitarie, immagino la vita qui. Poi deserto stepposo, alla TV nel treno lussuoso assisto a uno sceneggiato in cui una donna ascolta un lunghissimo concione da un dottore e non pare contenta, poi esce e dà una testata fortissima a un’altra donna che incontra per strada. Quando il treno incontra il fiume Zaravshan capisco che cominciamo a esserci. Ehi, io ti ho già visto, fiume. Ed eccola, Samarcanda, di nuovo, con la sua stazione sovietica.

Sono alla fine del viaggio, e che fine, doveva essere così. Ora c’è lei, leggendaria come Baghdad, Damasco, Persepoli, vediamo dunque com’è questa idea fatta realtà.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: otto, in risalita, frittelle, turista, la nobile città

Da Termez a Bukhara sono quattrocento e rotti chilometri che si traducono in sette ore e rotti di sospensioni nella schiena e in sorpassi semisuicidi. Da sud, ovvero da Mordor, sale il vento carico di sabbia e rende il cielo giallo e polveroso, maledetti talebani, anche questa. A un certo punto facciamo sosta in un paesello su un fiumicello stento con al centro un enorme platano quasi millenario che copre, realisticamente e metaforicamente, con la sua chioma tutto il villaggio. Faccio rifornimento di formaggio essiccato, disbrigo le mie faccende fisiologiche in un posto che raccomando – il trucco è avere il coraggio di fare due respiri a pieni polmoni, poi non si sente più – e mangio la frittellona appena fritta più buona di sempre.

Grazie, frittellaia. Superato un passo desertico la strada si allarga e si capisce che in un tempo indefinibile diverrà una strada ad alta percorrenza. Al momento sono gran buchi e ruspe cinesi. A tardo pomeriggio finalmente Bukhara. La perla dell’Asia centrale, la città santa, la nobile. Ed effettivamente.

Per la prima volta da dieci giorni vedo un turista, intendo con sandali e cappello e maglietta troppo stretta. Ed è pure italiano. Urrà. E poi ne vedo due, otto, mille. Chiaro, il governo uzbeko sta spingendo molto sul turismo e il giro ormai classico Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent è molto gettonato, voli diretti da Milano. A Bukhara vedo riapparire le carte di credito, dimenticate negli ultimi giorni, le linee telefoniche, l’inglese e, spesso, italiano e francese. E i Ricchi e poveri.

Detto questo, la città è davvero favolosa. In senso letterale, favola. Nel corso dei due rinascimenti del mondo islamico, ottavo-nono e quattordicesimo secolo, Bukhara fu il centro del sapere dell’Asia centrale, con ventimila studenti e docenti del calibro di Avicenna, anche lui di qui. Samarcanda, certo, per i commerci e le vie di comunicazione, Bukhara per scienza, medicina, filosofia, astronomia, religione, manifatture tra cui i famosi tappeti e la comunità ebraica, si dice la più antica del mondo. Sì, lo so che lo dicono anche a Roma ma qui parliamo del quinto secolo avanti cristo, mica dopo la diaspora. L’incredibile minareto in mattoni cotti che domina la piazza con le due enormi madrase colpisce davvero l’animo, e dovette colpire anche quello di Gengis Khan, che stranamente lo risparmiò. E la diretta discendenza dei minareti dal faro di Alessandria, questa cosa l’ho imparata in Tunisia, è qui abbastanza evidente.

E i mausolei, le moschee, la fortezza, il quartiere ebraico, le tombe dei santi, le vasche d’acqua, le mura e le porte, i mercati sotto le cupole, insomma la città è davvero molto affascinante nonostante i banchetti mercatini e gli italiani.

Questo mausoleo, bellissimo, armonico e proporzionato, sembra il deposito di Paperone. A sera mentre sto bevendo una birretta a fianco della grande vasca in centro alla città – sì, ci sono anche le birrette – e mangiandoci insieme semi di albicocca tostati – una grande scoperta, mille volte meglio delle arachidi -, faccio due chiacchiere con Rudi, lo chiamerò così, un tedesco residente a Cuba. Dovendo ciclicamente uscire per ragioni di visto, stavolta ha ben pensato di volare a Pechino, prendere un’auto, scendere lungo una delle vie della seta fino a qui per poi proseguire per il Pakistan e l’India. Questo per dire la gente che c’è in giro, che meraviglia. Mi deprime l’idea di dover tornare a sentire le quotidiane fregnacce del vicepresidente del consiglio, che avremo mai fatto di così male?

Bella la madrasina dei birilli, eh? Starei sempre in giro, sempre un angolo da svoltare.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: sette, amicizia al ponte, cotone, deserto e spolette

Termez o Termiz è la città più meridionale dell’Uzbekistan ed è attraversata dall’Amu Darya, l’altro fiumone dell’Asia – duemilacinquecento chilometri, per capirci, quattro Po – che fa da confine con l’Afghanistan. Infatti, basterebbe attraversare il ponte dell’Amicizia – classico senso dell’umorismo sovietico – per andare dall’Uzbekistan all’Afghanistan e viceversa. Il condizionale è perché mica è così semplice, ora che di là sono tornati i talebani per la seconda volta. A dirla tutta, il commercio vince: gli afghani possono arrivare a Termez e starci fino a dieci giorni senza limitazioni pur non potendo andare in altri luoghi nel paese – leggi: comprate e tornate a casa -, mentre chiunque altro per andare in Afghanistan deve avere un difficilissimo visto.

Io questo confine lo voglio vedere e, quindi, piglio un taxi che mi porti fin dove si può. Si forma subito una piccola cordata di gente che vorrebbe andare a vedere, andiamo. Sono tassativi: niente foto in nessun caso. Già le frontiere sono sensibili in generale, figuriamoci qui. Ultima foto, a vista ponte da lontano.

Poi si prosegue a vista, scorgo la solita lunga fila di tir fermi in attesa di chissà che e in fondo la barriera, presidiata da uomini armati eon i cani. Il tassista scrive su gugol translate che non si può andare oltre, traduce e me lo mostra, ben comprendo, non è nemmeno il caso di fermarsi troppo a contemplare.

La zona di Termez è ricca di siti archeologici, testimonianze di vita antichissima nella regione – e in questo l’Afghanistan dovrebbe essere notevole, per quel che forse resta e non hanno distrutto o venduto -, tombe, insediamenti, mausolei, caravanserragli e stupa. Proprio per vedere uno stupa abbandonato ho l’idea bellissima di camminare per alcuni chilometri sotto il sole, prima in landa desertica e poi in un campo di cotone. Ovviamente alle due del pomeriggio.

Bravo me. Per vederne un altro, circondato da una madrasa nel deserto, salgo su una collina da cui non solo si vede il confine afghano, triplo reticolato, ma la collina è piena di bossoli, spolette, cartucce sovietiche, trattandosi evidentemente di una postazione di tiro durante l’invasione dell’Afghanistan.

I luoghi nel deserto sono di grande fascino e le attestazioni della vita risalgono alla preistoria, il che mi dice molte cose – non tutte buone – sulle capacità di adattamento della nostra specie, anche in chiave futura.

Le file di mattoni cotti al sole, in pratica basta prendere la terra, bagnarla, mescolarla a un po’ di paglia per renderla più traspirante, metterla in casseformi e lasciarla asciugare al sole, presupporrebbero l’esistenza di qualcuno, cosa che non è, non vedo alcuno per chilometri. Mah, solito mistero delle fermate di corriera nel deserto: da dove verranno? Dove andranno?

Domani a Bukhara.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: sei, un certo dormire, la casa da tè, un altro confine

Ancora Dušanbe, la capitale, ci sono alcune cose che vorrei visitare e che visito: la fortezza di Hisor e le sue due madrase – sono le scuole coraniche, da tempo abbandonate o adibite a negozi dall’Unione sovietica – e il museo di Storia Nazionale, in particolare l’enorne statua del Buddha dormiente di Adjina-Tepe.

La dormienza del Buddha è in realtà uno stato complicato oltre la morte, in procinto della nuova vita spirituale. O qualcosa del genere, non capisco bene questo tipo di cose. Il museo è una raccoltona di qualsiasi cosa inerente il Tajikistan e la sua storia tranne, guarda te, la guerra civile e la transizione post-sovietica. Bravo, presidente. Non male l’arte contemporanea, in cui recepiscono alcune nostre tendenze, tipo macchiaioli, oltre a quadri di dighe, invasi e montagne di cotone. E ancora meno male la parte dei doni di stato, che ipocritamente il satrapo non può tenere per sé. O sono quelli che non gli piacevano. Pugnali, diamanti, fucili, maglie da calcio, il tutto dalla combriccola più simpatica del pianeta, Putin, Erdogan e così via. A Pechino c’è un intero museo di doni di stato, mi ero molto divertito davanti al modellino Alitalia di Craxi e ai carabinieri in ceramica di Capodimonte.

La cosa più interessante è senz’altro il (la?) Kokhi Navruz, progettata per essere la più grande casa da tè dell’Asia centrale. Casa da tè è una locuzione che non spiega, in realtà è un mummullone neobabilonese di dimensioni spropositate costruito su idea del presidente per il popolo e poi invece guarda caso usata dal presidente per ricevere i suoi amiconi dittatori.

Vabbè, si è capito. Il mosaico marmoreo del presidente che prega con la sua mamma è il momento più alto della visita, superiore alla vista del più grande pennone da bandiera del mondo, costo trentadue milioni di euro, con bandiera di sessanta metri di lunghezza. Considerato che lo stipendio di un insegnante è circa centocinquanta dollari al mese, due pensierini vengono.

Bene, dopo aver fatto scorta di pane, formaggio essiccato, acqua e banane, mi dirigo alla frontiera ovest per tornare in Uzbekistan. Dopo un’oretta di corriera, di nuovo piglio su gli stracci e attraverso a piedi, come quasi tutti. Stavolta, sia perché in uscita sia perché essendo vicina alla capitale è più informatizzata, ehm, diciamo che funziona, il processo è più semplice dell’altra volta. Le donne in coda, giovani e vecchie, si sentono autorizzate a superarmi nella fila informe, immagino perché per me la procedura è più lunga, e gli uomini a passare davanti a tutti. Dopo essermi messo di mezzo, dopo aver subito gli sguardi furbi delle donne che mi rassicurano con le mani e appena possono mi passano avanti, a un certo punto sporcono ad alta voce, tutto in italiano, non mi piglio nemmeno la briga di tradurre. Cala il silenzio e per qualche minuto, qualche, l’ordine dopo di me è rispettato per un po’. Mentre aspetto il mio turno nella terra di nessuno, incrocio in senso contrario: una donna con carretto pieno di sole bibite, immagino siano varietà che in Tajikistan non esistono; un mio coetaneo che spinge un carretto con sopra seduta un’anziana signora, immagino la madre, lo aiuto ad aprire la sbarra e mi dà uno di quei cenni del capo dritti negli occhi che dicono tutto, sono ringraziamento profondo e consapevole della comune umanità; giovani donne chiacchierine con sacchetti vari; un uomo che il carro lo tira mentre i numerosi figli spingono, sopra ci sono la madre e molto di quanto possiedono, immagino.

Scendo verso sud, a Termez città militare, l’armata rossa entrava da lì in Afghanistan, separato solo da un fiume. Vale la pena segnalare che da lì è più vicina l’India che la capitale dell’Uzbekistan, Tashkent. Per dire delle influenze e delle distanze.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: cinque, altro passo, verso la capitale, la foto del viaggio

È il momento di scendere verso sud e andare a Dušanbe, la capitale del Tajikistan, a trovare il presidente che ho finora visto in ogni dove, grande e piccolo, sempre con le stesse tre foto scontornate con sfondi diversi a seconda, per la serie del presidente che fa o indica cose. Sugli edifici, a lato della strada, nei campi, a fianco dei monumenti. Dušanbe sta in un angolo nel fondo del Tajikistan e confina da vicino con l’Afghanistan, circa duecento chilometri da Pakistan e India, qualcosa meno dalla Cina e dal Kirghizistan. Oltre all’Uzbekistan, sempre dietro l’angolo. Un bell’accrocchio. Poi uno dice la stabilità, qua basta tirare il pallone di là che è un casino. Telobbuco.

La corriera fa il percorso inverso dell’altro ieri e poi gira verso sud e comincia a risalire le montagne. Stavolta sono completamente brulle e rocciose, un torrentone scorre sul fondo ed è chiaramente lui che ha scavato la valle. La strada corre accanto, salendo in un modo che alcuni camion di epoca sovietica rantolano non poco. Man mano che si sale, dobbiamo arrivare a tremila, le montagne si fanno aspre, spoglie e franabbili, perché non friano, che ogni tanto si vede del fumo alzarsi e sassi volare. E un paio di volte ci fermiamo che non si sa mai. Il principio del sorpasso è quello semiuniversale: sorpassare, qualsiasi linea ci sia, e se arriva qualcuno in senso contrario sfanalare che si allargherà. Se qualcun altro avesse la stessa idea in senso contrario, qualcuno chiunque esso sia ci penserà. Questo concetto occidentale dello stare in vita a tutti i costi è davvero noioso.

Invece di andare a quattromila metri per scavallare, come hanno sempre fatto tutti i minatori e viaggiatori passati da qui, da qualche anno si può prendere una galleria a poco meno di tremila scavata grazie all’aiuto iraniano che fa risparmiare parecchio. Grazie Iran, chi l’avrebbe detto? La galleria è talmente ben fatta che è chiamata ‘tunnel della morte’, sarà perché è stretta, non c’è luce, non c’è né areazione né vie di fuga né piazzuole e l’impermeabilizzazione non è riuscita granché, cioè è allagata e piove dal soffitto e ciò nonostante dentro c’è una tempesta di polvere che i fari li si vede davvero all’ultimo. A parte questo, tutto tranquillo. Che sarà mai? In realtà mi dà qualche pensiero in più lo stridore e l’odore di strino dei freni in discesa, visto che son seduto a destra e vedo il fondovalle quattrocento metri sotto di me.

Dopo una sosta in un pitorèsco bagno in cui siamo tutti fraternamente spalla a spalla, la discesa prosegue e in un paesello di cui non ricordo il nome ma che è detto ‘la perla del Tajikistan’ vado a comprare un po’ di pane – sempre buonissimo qui -, due banane e del formaggio essiccato – eccezionale, lo butti in borsa e lo consumi dopo venti giorni, da importare -, mi scappa l’occhio e vedo due madri e due figlie che parlano sedute in riva al fiume mentre gettano sassolini. Le trovo commoventi e mi capita di scattare la foto del viaggio.

Ha un che di McCurry, se mi si passa la blasfemia. Il merito è loro.

A Dušanbe, capitale più interessante di Tashkent mi pare, vado per i luoghi notevoli, l’enorme mercato principale prima di tutto.

Il regime si esprime in grandi condomini e palazzi istituzionali lungo grandi e larghi viali, monumenti celebrativi, tutto mediamente in cemento armato ricoperto di marmi. La città è davvero verde e la ricchezza nazionale, l’acqua, usata senza parsimonia. Esiste anche un enorme giardino botanico, notevole, che dà occasione agli sposi di fare foto decenti. Altro sacchettone di frutta secca, e il mio intestino comincia a chiedere pietà, e altro giro di carnazze come di consueto. Frutta e verdura buonissime, pomodori, pesche, meloni sopra tutto. Il farabutto cetriolo regna incontrastato come sempre, da qui a Portland. Nessuno può competere con lui.


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