minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: quattro, la moneta, molti laghi, a pranzo a casa altrui, c’è un italiano…

L’incredibile moneta da tre somoni che sconvolgerà ogni forma di economia tradizionale e, oserei dire, di calcolo planetario.

Mi attacco a un gruppetto di persone per andare a visitare uno dei luoghi più belli del Tajikistan: i sette laghi della valle di Shing. Serve un fuoristrada perché bisogna seguire la strada delle miniere d’oro per svariati chilometri e poi proseguire per la valle e sulle morene. Sterrata qui si intende quel tipo di strada che dopo cinque minuti lo stomaco è in gola e dopo due ore il cervello nel sedere.

I laghi sono glaciali e tra uno e l’altro è necessario scavalcare il fronte morenico, al quale la spinta del ghiacciaio non era più sufficiente e in fasi lunghe e successive il ghiaccio scavalcava. Le pareti sono ripide, a volte compatte a volte franose, e molto alte, ampiamente oltre i tremila in cima.

I colori dell’acqua sono strepitosi, a seconda del fondo, dell’inclinazione della luce, della larghezza del lago. Sulle pareti rocciose si vedono chiaramente le striature bianche delle cascate stagionali, allo scioglimento dei quattro-otto metri di neve che cadono qui.

La nostra auto, che è più un van che una jeep, sembra una barzelletta trita: un italiano, un autista e una guida tagiki, una donna russa, una coppia orientale. Fino a che la donna russa non vomita, la scossa piacevolezza della gita è stata ragionevole.

Di lago in lago, quarto, quinto, sesto, variano colori e dimensioni, saliamo verso i duemilaeotto del settimo, Hazorchashma, la temperatura è piacevole. Io ho le mie albicocche essiccate e la necessaria acqua, sempre. Oltre a qualche mucca, cane, è il regno delle capre che mantengono i rari praticelli all’inglese e quando non ce n’è più salgono sugli arbusti.

Dopo l’ultimo lago, una famiglia ci ospita in casa loro per il pranzo, tutti seduti attorno ai tappeti centrali, sui quali vi è il cibo, amarene e albicocche delle piante qui fuori, due tipi di pane cotto al forno, uno yoghurt acidino che è una favola se scarpettato, tè, zucchero in cristalli e in sfere bianche compatte.

Molte le chiacchiere con i miei compagni di viaggio, meno con i locali, ma esprimere riconoscenza è gesto umano e universale, si capisce. La famiglia sta indietro, le ragazze soprattutto, a occhi bassi, difficilmente guardano negli occhi un uomo, cattivo segno. I ragazzini sono più sfrontati, evidentemente gli è permesso. Con la donna russa è più complicato parlare, sia perché è bianca come un cencio e ha lo stomaco come un mocio, sia perché molti argomenti sono spinosi di questi tempi. Oltre al fatto che, si vede, considera queste zone come dipendenze di casa, ancora.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: tre, invitato, al passo, il mio primo plov, sfusità

La esim tagika funziona. Ci ha messo due giorni, fa caldo per tutti, ma ora funziona come può funzionare qui. Che bellezza la tennologia, così posso mandare il buongiornissimo di ferragosto. Per fortuna anche oggi c’è sereno.

Vagolavo a sera per il centro di Khujand, appena sceso dalla cabinovia panoramica che attraversa fiume e centro – e tutti contro la Raggi, allora -, quando sento musica e vedo luci. Mi avvicino curioso e mi invitano a entrare e io che faccio? Entro, ovvio. Ed è un sontuoso matrimonio tagiko, mi forniscono di foulard apposito da cingere in vita, per gli uomini, e mi versano prontamente della Pepsi locale turbogasata. Ricordo che il paese è privatamente musulmano. La band suona forte, noi si balla uomini con uomini e donne con donne ma l’atmosfera è proprio divertente e spontanea, sono contenti anche di avermi lì. Che bellezza, grazie miei nuovi amici.

Il presidente, di cui devo dire poi, ha promulgato qualche anno fa una legge specifica sui matrimoni, ovvero tetto di spesa che se no poi la gente si svena e tetto di invitati a centocinquanta. Oddio, sarò io il centocinquantunesimo? Saremo tutti arrestati e giustiziati?

Il presidente Emomali Rahmon, Rahmonov all’anagrafe ma ripulito dopo il 1991, è in carica da trent’anni e criminale vero oltre alle sopracciglia brezneviane specifiche del genere. Il popolo entusiasta, certo, ha deciso alla quasi totale unanimità di conferirgli mandato a vita cambiando la costituzione e ovunque ci sono sue fotografie in cui fa cose, nella migliore tradizione dei culti della personalità. Vista la quantità di acqua nel paese, l’idea è costruire dighe ovunque, unendo al socialismo l’idroelettrificazione. Oddio, socialismo. E le dighe anche come arma di ricatto e autotutela verso i paesi confinanti, visto che la relazione diretta è con l’Iran. I paesi attorno non gradiscono, l’hanno mostrato. Comunque.

A mattina, naturalmente dopo la lettura approfondita dei giornali locali e non, piglio su i quattro stracci e vado a sud, verso Panjakent, attraverso, credo, il passo dei monti Shahriston, a circa duemilaottocento metri. Le montagne stanno assumendo quell’aspetto afghano completamente spoglio che un po’ di inquietudine mi dà. Oddio, a dire il vero a salire la valle è piuttosto verde, coltivata e anche con qualche acqua qua e là. Appena passato il valico, con tunnel cinese, invece tutto diventa brullo. E la strada spesso a strapiombo, non so se sia meglio vedere il guard rail quando c’è tutto rotto e spesso spezzato o piuttosto quando non c’è. Il novanta per cento del percorso.

Ogni tanto c’è un autogrill che vende prodotti tipici, albicocche essiccate, miele, nocciole, formaggio essiccato, palline di zucchero. Ma mica si ferma mai ‘sto osti di conducente e anche se gli potessi parlare non saprei come dirglielo.

A fondovalle, all’incontro con il fiume Zeravshan, pieghiamo verso est fino a Panjakent, che è un centro antico della Sogdiana lungo il fiume, di cui vorrei vedere la città antica e, soprattutto, è la base di partenza per un posto speciale. Il fiume scorre vorticoso, grigio fango, i fianchi del letto del fiume si sfanno a vista d’occhio, formando enormi calanchi.

Qui non c’è nulla che non crolli e frani, non si capisce nemmeno come stia su. Come le dolomiti, per capirci, senza i turisti e senza la dolomia. E senza, vabbè, ci siamo capiti. Per festeggiare l’arrivo mi concedo una prelibatezza locale, il plov, nel miglior posto di Panjakent a quanto mi dicono o mi par di aver capito. Ecco cos’è il plov: riso, patate, cipolle, uvetta, carne, carote gialle condito con olio di cotone. Buonissimo. Una ragazza taiwanese a fianco a me ha la maglietta All you need is plov. Me lo portano con l’immancabile zuppetta di boh, che io per paura di pollo non tocco, con fette di anguria, uva, pomodori e cipolle. Tutto gradito. Ogni tanto si trova qualche anglofono ma è raro, altrimenti come sempre le cifre su calcolatrice o telefono o per terra, il resto a gesti. Ce la si fa, comunque.

Nonostante la giornata sia stata abbastanza lunga così, devo vedere qualcosa di storico, quindi in sequenza due siti di importanza mondiale, prima la fenomenale Sarazm – prendi la marshrutka n. 8 dal centro e ci sei – e poi l’antica Panjakent. Al tramonto, la terra diventa gialla e rossa, la golden hour, tira anche un po’ di vento e si sta bene, siamo circa a mille metri. Le pitture parietali del quinto secolo dell’antica Panjakent sono notevoli e gli originali stanno, come al solito, a San Pietroburgo. Poi fecero cinquanta e cinquanta con i russi sui ritrovamenti e adesso tutto o quasi resta qui. Al museo Rudaki capisco qualcosa di più su Avicenna e l’epoca d’oro della storia tagika. Per dare un riferimento a me vagamente noto.

Chiudo al supermercato, estasiato di fronte al banco dei biscotti sfusi: e perché è comodissimo, ne si sceglie uno di questo e due di quelli, sia perché la civiltà è superiore, da noi sarebbero tutti rotti e toccacciati.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: due, confini terrestri, arrivo in Tajikistan, finalmente Alessandro

Oltre al mercato, all’hotel Uzbekistan, all’edilizia popolare, il vertice dell’architettura e stile sovietico aggraziato con influenze asiatiche a Tashkent è la metropolitana e la stazione dei cosmonauti mi manda completamente in estasi, tra colonne di vetro, lampadari, pavimenti geometrici e ritratti di cosmonauti. Cadauno per condivisione.

Tutto posteriore al 1966, dopo il terremoto che distrusse tutta la città. La ricostruzione, in stile sovietico, allora al proprio picco, alleggerito da elementi asiatici, è un ibrido davvero piacevole a vedersi e affascinante per me, oltre che fantasioso e sorprendente.

Bando alle piacevolezze, trovo un pullmino che arriva alla frontiera tagika, in direzione Khujand, l’Alessandria Eschate di Alessandro magno. Salgo al volo e dopo poco più di un’ora di campi, case, poi deserto e le prime montagne completamente spoglie, afghane per capirci, scendo a cinquecento metri dalla frontiera. Scendo come tutti, la frontiera si fa a piedi. Cioè, la si può fare anche in auto o camion ma significa sottoporsi a ore di controlli in cui praticamente ti smontano il mezzo, in perfetto stile est-socialista dei tempi belli e il conducente della corriera col cavolo. Ci sono dei tizi che passano la giornata in una fossa nel cemento a ispezionare i mezzi da sotto. Parrebbe paranoia o dimostrazione di forza, in realtà dal Tagikistan passa il corridoio di uscita di tutto l’oppio e l’eroina afghana verso il pianeta, per cui qualche scrupolo c’è. Faccio una foto cercando di non essere giustiziato sul posto.

Sono emozionato a valicare una frontiera a piedi, è un passaggio reale e metaforico, in aereo non se ne ha più coscienza, è una cosa che non facciamo più. Dopo più di un’ora al sole davanti a un cancello chiuso, i gradi sono quaranta, e un militare di tredici anni che decide chi passa e chi no, sono ancora emozionato ma con moderazione. L’uscita dall’Uzbekistan è relativamente agevole, l’entrata in Tagikistan meno. Il militare al controllo mi fa cenno che no e va’ tu a sapere perché. Dopo un bel po’, sempre al sole fuori da una baracchetta, un altro soldato mi dice che il system is down, intende quella webcam minuscola con cui riprendono tutti i volti di chi transisce. Le condizioni si fanno difficili e gentilmente ci fanno entrare ad aspettare nella baracchetta, almeno all’ombra, tra donne tagike, bambini e qualche obeso che soffre come un cane e che ogni tanto bisogna bagnare come fosse una balena spiaggiata. No, non sono io. Non dico niente, sorrido ma cerco di incombere sullo sportello e sull’impiegato. Non c’è una sedia. Non c’è acqua e io la mia l’ho bevuta tutta e sudata. O meglio, c’è un tubo che esce dal cemento, non oso berla ma mi lavo. Ci fanno passare alla sbarra successiva senza che sia cambiato nulla e il mio passaporto ce l’ha un soldato adolescente più indietro. Non c’è nemmeno un bagno, il che griderebbe vendetta, la disidratazione è però tale che nessuno ne ha bisogno. Esperienza interessante e rispetto a quella di un profugo questa è acqua fresca, chi legifera però dovrebbe provare. Saranno passate tre ore, quasi. Sarà poi che i militari hanno mimetiche verdino bile con macchie gialle itterizia pixelate che tutto ispirano tranne che rispetto, meglio comunque tacere. Dai e dai che incombiamo, a un certo punto il soldato chiama l’assistenza informatica e in remoto qualcuno dall’altra parte muove il cursore e sblocca la situazione, passiamo. Io ho sudato tutto il sudabile, ora devo solo trovare un mezzo per Khujand.

Come ogni viaggiatore previdente, mi sono scaricato le mappe, visto che come previsto non c’è alcuna connessione. Previdente ma ignorante, perché in Tajikistan parlano sì il farsi ma la grafia ha mantenuto il cirillico, per rendere le cose ancora più divertenti. Ah, scrivono anche da destra a sinistra, per aumentare il gaudio. Ma tanto io come me ne accorgo? In qualche ora arrivo a Khujand, la maggiore città della zona, perché voglio vedere i resti della cittadella fortificata di Alessandro magno. La città è attraversata da uno dei due grandi fiumi della regione, il Syr Darya, che sarebbero anche i due maggiori affluenti del mare d’Aral, qui lo chiamano mare. Condizionale perché entrambi i fiumi sono ormai canalizzati e prosciugati per irrigazione e non arrivano più al mare che, ormai, tristemente non esiste più, essendo ora una delle più grandi catastrofi ecologiche del pianeta. Il Syr Darya però qui è ancora un fiumone e l’acqua è la più grande ricchezza del Tajikistan, il sessantacinque per cento di tutte le acque dell’Asia centrale sta qui, con buona parte del Pamir sopra i settemila metri di altitudine. Io ora sono a duemila metri ma è come se fossi nel ferrarese.

Finalmente i resti della città di Alessandro, servirono poi innumerevoli volte da baluardo contro gli invasori, tra tutti i mongoli i più terribili. Poi i sovietici ne fecero una caserma e bon, buona parte scomparve. Oggi è ricostruita con piastrelle ceramicate, un angolo ancora c’è. A Khujand Alessandro sposò Rossane, sono abbastanza emozionato. A villa Farnesina c’è un affresco del Sodoma che rappresenta il matrimonio tra Alessandro e Rossane, indice di una conoscenza rara della storia da parte di committente e artista. Lei fu scelta tra molte prigioniere, Alessandro aveva infatti conquistato tutta la regione, Soghd, e fu scelta sia per la sua leggendaria bellezza che per in ragione strategica per l’alleanza con il futuro re della Sogdiana. Mi viene in mente anche l’affresco della battaglia di Gaugamela proveniente da Pompei al museo di Napoli, Alessandro è proprio un bel figurino. Impossibile resistergli.

Oggi è venuta lunga ma la giornata in sé lo è. Vado al mercato in città, bello sovietico anche questo, gran verdure e carni migliori di quanto si potrebbe immaginare, pane meraviglioso in dischi che potrebbe essere un’idea per coprire una settimana.

Scopro l’esistenza dell’olio di cotone, usato per cucinare, direttamente dal venditore. Usano molto anche quello di semi, secondo.

E per oggi basta, che adesso sono a un matrimonio.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: uno, madrase e pinoli, pieno di soldi nei bar degli alberghi di lusso fané

Ma certo, è tutto viaggio, il senso stesso sta nell’avvicinamento alla meta, il viag… eh, ho capito, ma son sette ore di ritardo. Ho capito il senso, ho capito tutto, ma son pur sempre non luoghi e il nuovo aeroporto di Istanbul, per quanto enorme e molto bello, non è che sia un granché per bivaccarci. Oddio, in realtà, arrangiandosi un po’, potrei farcela.

Comunque la mia prima notte al gioiello sovietico Hotel Uzbekistan è appena saltata, va bene, Turkish non è più quella di un tempo. Ma arrivo, alla fine, arrivo a Tashkent che albeggia, è un lunedì mattina estivo e lavorativo, per loro, dormo un’ora su una poltrona dell’albergo, assumo un tolotto di caffè qualsiasi cosa sia e mi butto anch’io nella mischia. Tra corani insanguinati del settimo secolo di pelle di cervo, venerate tombe di interpreti del sacro testo e di fini calligrafi, centoventisette sono le diverse grafie riconosciute dell’arabo artistico sacro, statue di Tamerlano, eroe uzbeko per eccellenza – nessuno mai insinui la sua nascita tajika -, teatri russi costituiti da ex prigionieri giapponesi della seconda guerra mondiale, ho le mie belle soddisfazioni.

Interagisco fin da ora con uno degli assurdi -stan partoriti da mente sovietica e tracciati con la logica delle cose viste da Mosca, per cui le capitali son dove fa più comodo, e devo dire che mi piace questo inizio di relazione con l’Uzbekistan. Tashkent è la capitale per decisione sovietica, come dicevo, perché vicina a Kazakhstan e Tajikistan ma insensata quando Samarcanda chiama a tutta ragione il titolo. Sebbene la via della seta sia tramontata da parecchio e il paese sia rimasto più isolato – è uno dei due soli paesi al mondo che non solo non ha il mare ma è pure circondato da paesi che non hanno il mare, l’altro è in Europa continentale -, è ancora un vero crocevia di stili, storie e persone: cinesi ovviamente, russi comunque, europei in riscoperta, -stani di ogni tipo, mongoli, qualche indiano, molti turchi. È loro la predominanza economica e culturale qui, le infrastrutture le costruiscono come fanno i cinesi in Africa, stesso guadagno, stesso ritorno. Ci sono anche loro, i cinesi, in ogni caso, auto, camioncini, ruspe sono tutti di importazione, Chevrolet, prodotte tutte in Corea. Tutte bianche e sono tutte a gas, camion compresi. Per forza.

Compro dei soldi ed essendo il tasso di cambio uno a tredicimilatrecento mi riempio tutte le tasche di biglietti da diecimila sum uzbeki e inizio a comportarmi come un satrapo locale produttore di musica rap. Potrei anche comprarmi una pelliccia di cincillà*, che ne è pieno, sarebbe opportuno, stivaletti imbottiti e un gigantesco colbacco. Ora che possiedo circa un milione di sum, ovvero circa ottanta euro, il che la dice lunga sullo stato di alcune cose qui, vado al mercato. Ovvio.

Il mercato è strepitoso, la cupola centrale è sovietica, bellissima sia dentro che fuori, secondo la robusta tradizione dei mercati in territorio socialista, da Riga a Vladivostok. Frutta secca sopra tutto – e sto facendo un errore madornale, lo so, comprandone otto chili -, carne, cavallo più che altro, tè, formaggio essiccato, frutta e verdura tra cui le ignote carote gialle, pinoli della Siberia, banchi di carne alla griglia, vestiti, anche imbottiti che viene da ridere in questo momento ma d’inverno qui va sotto zero anche di venti gradi. Si contratta, gentilmente, nessuno si impone o richiama l’attenzione.

Ebbro di frutta secca e di carnazze, percorro i vialoni di Tashkent, possibilmente all’ombra, fino alle tre statue di Tamerlano, al palazzo del presidente e alla sala del gran consiglio, tutte realizzazioni posteriori al 1993, fino all’hotel Uzbekistan, leggendario simbolo della presenza sovietica in città, nonché edificio bellissimo a parer mio. Prendo un caffè all’ultimo piano in favor di veduta, chiacchierando piacevolmente (?) con Breznev e mi accingo a proseguire.

Il resto poi.

*volevo dire astrakan, quella roba spaventosa lì, non cincillà.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: zero, avvicinamento, ottomani, augurii

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga / di mirar queste valli? La luna, s’intende. Queste valli son qua ma il pastore, quello che corre via, corre, anela, / varca torrenti e stagni, / cade, risorge, e più e più s’affretta, / senza posa o ristoro sta invece in Asia, là da qualche parte e che, nonostante la lontananza, condivide il destino comune col poeta e con tutti noi, presenti, passati e futuri. Ecco, io quelle montagna e valle, i sassi acuti, ed alta rena, e fratte li voglio proprio vedere e, soprattutto, quel cielo, proprio quel cielo del Che fai tu, luna? Non farò il pastore né il poeta marchigiano ma diciamo che un’occhiata desidero darla da molto. E se ci sono passati gli achemenidi, i sasanidi, i greci, i persiani, i mongoli, gli ottomani, i russi e gli inglesi, poi i sovietici perché io no?

E poi viaggiatori di ogni tipo, sia da qua che da là, il più noto tra i nostri e uno dei più avventurosi disse molte cose di questa parte di terra del suo viaggio, tra cui la famosa frase: «Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini» per una delle tappe più note e poi raccontare il fatto strano della pietra saracena. Ma quando ci passò lui, Marco Polo, erano già millecinquecento anni che ci era passato Alessandro il Grande, lungo la via reale persiana, e sono le sue tracce che voglio seguire, fino alla valle di Farghana e ad Alessandria Eschate, Alessandria la lontanissima, tra Battriana e Sogdiana, voglio arrivare fin là, in quelle valli glaciali. E mi rendo conto, anche stavolta, di non sapere nulla di luoghi in cui la civiltà umana è cresciuta, si è confrontata e scontrata, ha avanzato e receduto, si è diffusa in mille rivoli diversi di cui io non conosco nemmeno i nomi. Ne ho snocciolato qualcuno poco fa e paiono inventati, che vergogna. Se alla fine del viaggio distinguerò timuridi da shaybanidi sarà un risultato colossale, visto che ho appreso poco fa dell’esistenza degli aghlabiti e dei kharigiti, figuriamoci. Che poi a me piacerebbero le foreste baltiche ma chissà come mai finisco spesso nelle zone desertiche dove l’umanità ha preso davvero forma. Ma non ti piace il fresco dei pini lèttoni? Va’ a sapere come prendo le decisioni.

Bagaglio? Facile. Di giorno la temperatura è attorno ai quaranta, di notte ai trenta. Secco, certo, e quando lo dico le persone fanno: aaah, beh, come se percepiti fossero diciotto. Quindi poche cose lavabili facilmente, l’obbiettivo come sempre è una borsa sola, piccola magari. E pazienza se i colletti bianchi tagiki mi guarderanno con sufficienza o i miei eventuali compagni di corriera cambieranno posto scuotendo la testa. Non mi formalizzo, io, taliano fetente. In realtà, in certe zone del Burbanzistan salirò parecchio, d’inverno si scende anche duecento gradi sottozero, quindi magari una veste da camera la prenderei, sai mai. Il resto è tutto sudore.
In stile r/onebag, ho sfoltito di un terzo la foto iniziale, questa:

La novità tecnologica di questo viaggio sono senz’altro le esim, ovvero embedded, ovvero le schede telefoniche di ogni paese che attraverserò già installate nel telefono, da attivare in volta in volta. Sì, serve un telefono che è capace. Poca roba, per carità, un giga alla settimana per -stan e niente voce, ma mica per i whatsapp e i gattini e i buongiornissimi, figuriamoci, ma per capire come andare da qua a là e dove mi resta la stazione o la madrasa. Che se non è turco è cirillico e se non lo è, allora è arabo.

Il resto sono amenità. Una levataccia per andare all’aeroporto, ehm, mapporc, S. Berluscon. di Malpensa, almeno sui biglietti non c’è scritto (scommettiamo che poi qualcuno dirà che non si poteva fare perché non sono passati dieci anni? solito giochino della destra), poi una serie di non coincidenze che mi costringerà a passare svariate ore in diversi aeroporti. Niente di che, qualcuno diceva che anche questo è viaggio, io sono più per la variante dei non luoghi anche se, in effetti, negli aeroporti non manca proprio nulla e ci si potrebbe vivere, detto anche questo, piuttosto stabilmente. In alcuni, Istanbul dove sto aspettando io per esempio, hanno trovato pure luogo dei musei e nemmeno così disgraziati come uno direbbe. A diciotto ore dalla partenza sarò a destinazione, tutto bene, quaranta gradi oggi. Ma il bosco baltico? Perché non sono là? Come faccio le mie scelte? A mia insaputa? Mah.

Vabbuò, basta con le smancerie, basta con le introduzioni, da ora comincio sul serio. Il migliore augurio che abbia ricevuto alla partenza è senz’altro quello di A., amica capace e di lunga vita: «Torna appagato». Cosa potrei chiedere di più? Nulla. Ora però serve impegno per far sì che le sue parole – che sono in realtà un’esortazione e quindi implicano azione da parte mia – trovino compimento. Che bellezza l’appagamento, non si appaga sé stessi ma un desiderio, la tensione del proprio animo, vien da pacare e a sua volta da pax, ci provo, giuro che ci provo al meglio. Grazie, A.


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qualche nota su Project 2025

Ora che la candidatura di Harris è ufficiale anche per il voto dei delegati, ora che è scato scelto Walz, è ora di parlare di Project 2025.
L’inquietante Project 2025 (per esteso: The 2025 Presidential Transition Project) è un programma di governo per un’ipotetica amministrazione di destra negli Stati Uniti curato dal centro studi conservatore Heritage Foundation. Gli obbiettivi contenuti nelle 920 pagine del programma possono essere riassunti in tre filoni generali: riformare le istituzioni per accentrare il potere nelle mani del presidente; attuare un’agenda conservatrice in molti ambiti, dall’economia all’immigrazione; ridurre i diritti civili sulla base di un’ideologia religiosa radicale. Non tanto bene, quindi.
Per entrare un poco nei contenuti, il piano per esempio prevede di: rendere migliaia di posti di lavoro nelle istituzioni a nomina governativa, così da selezionare direttamente i dipendenti pubblici anche in base alle loro posizioni politiche; spostare il dipartimento di Giustizia sotto il controllo diretto della Casa Bianca; tagliare la spesa sanitaria e aumentare quella militare; interrompere gli sforzi per far fronte al cambiamento climatico; ridurre in modo consistente l’accesso all’aborto ed eliminare l’aborto farmacologico; tutelare gli interessi delle grosse corporazioni amiche a discapito dei cittadini. Ovviamente propone inoltre una visione molto tradizionale della famiglia e vuole vietare la pornografia punendo con il carcere le persone che la producono e la distribuiscono. Non parliamo degli immigrati, per i quali si parla di ‘deportazione’.

Trump e il suo comitato stanno cercando di prendere le distanze da Project 2025 – «Project 2025 non ha nulla a che fare con la campagna [di Trump], non parla a nome della campagna e non dovrebbe essere associato alla campagna in alcun modo», minacciando querele -, di fatto però il piano viene da associazioni e organizzazioni conservatrici vicine alle posizioni del candidato. Molti degli estensori del piano sono stati nominati o hanno avuto a che fare direttamente con l’amministrazione Trump.

La mappa delle organizzazioni coinvolte nella stesura del piano:

Qui il link all’intero documento. Tutta la faccenda è molto pericolosa e va contenuta.

Donald Trump su un jet privato con Kevin Roberts, CEO di Heritage Foundation, autore del documento di Project 2025

qualche nota su Tim Walz

Còmala Harris ha scelto un po’ a sorpresa come candidato vicepresidente Tim Walz. Io avrei scelto Kelly, scommesso su Shapiro, grazie per non avermi consultato e, ora, direi: ottima scelta.

Oltre a Walz, i candidati favoriti sembravano essere il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro e il senatore dell’Arizona Mark Kelly, entrambi principalmente per il fatto di provenire da swingin’ States, cioè Stati in bilico nel voto. Sulla base dei sondaggi, però, nessuno è risultato determinante e alla fine Harris ha scelto più in base alle affinità personali che ai numeri. Domenica tutti e tre sono stati invitati a Washington D.C. per incontrare separatamente Harris, in quello che è stato descritto come un «test di chimica», per valutarne l’affinità personale.

Il ruolo del vicepresidente è complicato e spesso ingrato e, senza dubbio, deve portare esperienza e capacità ma senza mai rubare la scena al presidente. Per questo motivo Shapiro è stato scartato, è sembrato restio a lasciare la propria carica di governatore, non ha mai nascosto le proprie ambizioni presidenziali e si è espresso pubblicamente a favore di Israele, alienandosi la sinistra del partito. Kelly sembrava adatto ma, come detto, probabilmente ha mostrato meno sintonia con Harris.

Oltre all’affinità personale, Walz ha 60 anni, è l’attuale governatore del Minnesota, è presidente dell’Associazione nazionale dei governatori Democratici, è noto e stimato anche negli ambienti politici del Congresso ed è uno dei principali politici Democratici nella zona del Midwest, che include importanti stati in bilico tra cui anche il Michigan e il Wisconsin. Ha idee progressiste vicine alle sensibilità Democratiche, un atteggiamento alla mano e ottime capacità comunicative. Nel suo curriculum ci sono 24 anni nella Guardia Nazionale degli Stati Uniti, la principale forza militare di riservisti dell’esercito, insegnante nella scuola superiore, allenatore di football e deputato al Congresso per più di dieci anni, tra il 2007 e il 2019. Sostenitore del diritto all’aborto, della legalizzazione della marijuana a scopo ricreativo e di maggiori controlli sul possesso di armi da fuoco.

Fino a poco fa Walz non era un politico particolarmente noto fuori del Minnesota. Le cose sono cambiate nelle ultime due settimane, durante le quali ha partecipato a varie interviste televisive in cui è apparso sempre informale e amichevole ma, anche, convinto nel criticare Trump e Vance, diventando il primo a usare l’espressione «weird», cioè “strano”, per riferirsi a Trump, a Vance e più in generale alla componente più conservatrice del Partito Repubblicano, con grande successo comunicativo.

Weirdos.