le [non] allegre nonché forse stavolta utili guide turistiche di trivigante: Le Nuove di Torino

Con la locuzione ‘Le Nuove’ a Torino si intende il carcere storico, quello in funzione dal 1869 al, per alcuni, 2003. Cinque minuti fa, quindi. E questa guida non avrà proprio niente di allegro perché non c’è niente di allegro da raccontare, stavolta. Però va raccontata, anche brevemente, questa storia e in forma di guida perché, magari, poi qualcuno deciderà di andarci. E sarebbe bene per molti motivi come è stato bene per me, pochi giorni fa.

Come dice Beccaria nel capitolo XLVII in conclusione: «perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi», gli Stati moderni cominciarono a dotarsi di carceri moderne, ‘nuove’ per l’appunto. Per carità, si veniva dall’assolutismo e dall’arbitrio, per cui l’approdo fu temperato, Beccaria ascoltato fino a un certo punto, a Torino il re c’era eccome, ancora, e l’idea terminale non era il recupero e il reinserimento delle persone ma la collocazione sicura dei reietti fuori dalle strade borghesi. Lombroso era già lì, di medici compiacenti disponibili a una firma per l’internamento di una donna ne è piena la letteratura e la realtà di allora. Il carcere moderno, dunque, era comunque alla maniera di una fortezza, dentro per il fuori e dentro per il dentro, con torrette per le guardie, celle anguste con bocche di lupo rivolte solo verso il cielo, servizi igienici sommari, nessuno spazio di socialità né, tantomeno, di lavoro o di recupero. Lo Špilberk in struttura, ancora, quel che diceva Beccaria si atteneva al giudizio, la formulazione e l’applicazione della legge.

E lì ci finivano donne in ogni condizione, preferibilmente prostitute – da cui però poi quasi tutti andavano -, sole con figli illegittimi, vittime di violenza, di quel malaffare comodo per ogni stagione, come l’insano per le abitazioni, bastava aver rovesciato un banco del mercato per fame, come nel 1919, e criminali di ogni sorta, dal pluriomicida all’accattone. Una voragine in cui si entrava per, spesso, non uscirne più. Il diritto alle cure sanitarie, al lavoro, all’ora d’aria arrivarono poi, gradatamente e con moderazione. Se di per sé già l’idea del carcere è perversa, la concezione di uno spazio circolare per l’ora d’aria con al centro una torretta di guardia, muri alti tre metri e spicchi al massimo larghi ottanta centrimetri alla circonferenza esterna, quindi singoli, è ben oltre la perversione. Il modello qui sotto è quello successivo, liberato degli spicchietti singoli e ampliati per un minimo di socialità durante quel poco tempo all’aperto.

Piano piano arrivarono piccole concessioni, i bagni, alcuni spazi per detenute madri e per i piccoli, qualche finestra, qualche cucina, qualche angusto spazio di lavoro, qualche diritto in più, forse, qualche tortura in meno. Piano, eh, che il letto di contenzione fu dismesso solo nel 1978, otto minuti fa, quindi con i piedi di piombo, letteralmente. E il carcere affidato alle Figlie della Carità, suore, incaricate di ogni servizio tranne quello di guardia, con il bene e il male. La voragine riaprì le sue fauci durante il fascismo, gli oppositori, anche blandi, sparivano nelle celle, bastava poco, tornava l’arbitrio. Dal 1943, poi, divenne un buco nero, un intero braccio in cui si parlava solo tedesco e in cui finivano tutti coloro che venivano interrogati e torturati all’albergo Nazionale in via Roma e poi portati qui la notte. Ci restavano poco, qui, qualche giorno, perché poi o era deportazione o fucilazione, finendo quindi l’ultima notte al piano di sotto, nelle celle dei condannati.

Come Ignazio Vian, Emanuele Artom, Duccio Galimberti, Giuseppe Girotti per dirne quattro. Le scritte sui muri, qualcuna con il sangue, qualche bigliettino, una pagnotta incisa è ciò che ci resta di centinaia di persone coraggiose che si ribellarono, ciascuna a proprio modo.
Dopo la Liberazione, e con essa venne la Repubblica, le condizioni carcerarie non migliorarono di pari passo, subirono anzi battute d’arresto soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, con la stagione del terrorismo, di cui Torino fu senz’altro un epicentro. Per lo più donne, le detenute comuni non potevano stare con le politiche e le politiche stesse non tra loro per l’evidente questione per cui erano lì, la militanza da parti opposte. Vennero le gabbie di contenzione e le reti contro i suicidi, insieme alle porte con le sbarre, finalmente non solo chiuse.

Ma la perversione del sistema ebbe la meglio ancora per molto, ancora l’ha adesso al di fuori di un pugno di carceri d’eccellenza, Bollate, Opera, Verziano, nella sovrappopolazione delle strutture, nel disinteresse, nell’esercizio di leggi inutilmente punitive verso chi non ha i mezzi per dilazionare la difesa, il caso mostruoso di Canton Mombello a Brescia. Anch’esso in fortezza ottocentesca. Quando le detenute trovarono il modo di comunicare all’esterno con le compagne salite sui cumuli di macerie all’esterno, la direzione rese cieche le finestre, con una certa confusione tra i sensi, oserei notare.

Solo negli anni Novanta fu costruito un nuovo carcere all’altezza dei tempi nuovamente moderni, Le Vallette, che pure pensò di bruciare dopo poco prolungando la permanenza dei detenuti qui fino al 2003.

Sia chiaro, è un viaggio all’inferno, doloroso ma breve. Fa un freddo spaventoso, lì dentro, molto più freddo che fuori, come posso immaginare faccia molto più caldo d’estate. Anche questa era insensatezza. Per fortuna, nel carcere c’è un’associazione di volontari che conduce visite guidate una volta al giorno, due ore, perché serve tempo e comprensione e concentrazione per attraversare le vicende che ho appena accennato. Serve rispetto, in fondo. Si prenota qui ed è una cosa che consiglio davvero di fare. Per molti motivi, tanti si sono intuiti, capire qualcosa di più della realtà carceraria storica e contemporanea e, non ultimo, per quello che disse Calamandrei: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dov’è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i Partigiani. Nelle carceri dove furono imprigionati. Nei campi dove furono impiccati». Ecco.

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è andata

La SS United States, un transatlantico varato un anno prima dell’Andrea Doria, nel 1950, velocissimo, anzi il più veloce di sempre, quasi duemila posti in cabine all’avanguardia, una veterana della tratta da New York a Southampton, dal 1969 era ormeggiata al molo 82 di Philadelphia.

Dopo innumerevoli vendite, restituzioni, progetti di restauro e di rimessa in servizio come transatlantico di lusso, alla fine, visti i costi di ormeggio e il decadimento della struttura, si è optato per la decisione più facile: la bonifica e l’affondamento.

Affondamento a scopo benefico, ovvero la trasformazione in una barriera corallina artificiale. Io non so se questa cosa sia effettivamente vera, cioè se sia un bene che un relitto venga affondato e poi serva davvero alla fauna marina, non lo so proprio, so che da un po’ queste cose si dicono, mentre decenni fa si affondavano e basta. Come le auto in acqua, del resto. Almeno adesso si bonifica.
Per questo, la SS United States è appena partita per Mobile, Alabama (e già scoprire che l’Alabama è sul mare è qualcosa) – anche se alcuni dicono Norfolk in Virginia e poi Okaloosa County in Florida – per la bonifica e poi verrà trascinata nell’oceano, al punto scelto.
Più grande del Titanic, più veloce di qualsiasi nastro azzurro, la SS United States è stata salutata con affetto dai filadelfiani:

C’è di sicuro gente che è nata dopo l’ormeggio e l’ha vista lì da sempre, come non comprenderli? 301 metri di lunghezza, 53mila tonnellate di stazza, 8 caldaie Babcock & Wilcox, 4 turbine Westinghouse per 248mila cavalli, una bestia da quasi trentotto nodi all’ora che si mangerebbe anche le navone di oggi. I filmati dei filadelfiani che, commossi, la salutavano dalle rive e dal ponte del porto sono abbastanza significativi. Peccato, merita un’immagine che mostri quando era in piena forma:

Notevole.

vagolando poi capita di trovare una nuova patria

Come faccio spesso, vagolo per mappe osservando parti del mondo in forma stilizzata o realistica da satellite. Capito su un’isola di quelle sperdute, di quelle che festeggiano il primo dell’anno prima di tutti causa linea di cambio-data, di quelle che a guardare il globo terrestre da quel lato si vede solo oceano.

Lì nel mezzo c’è l’arcipelago di Kiribati e, in particolare, l’atollo di Kiritimati, il più antico e grande del mondo, noto anche come Isola Christmas, per qualche squilibrata ragione.

Ciò che attrae inizialmente la mia attenzione è un segno strano, grande, sul terreno: una frecciona crociata.

È parecchio grande, dopo lungo pensamento la interpreto come un segnale per gli aerei durante la seconda guerra mondiale, un grosso cartello segnaletico come ne esistono in altre parti del mondo.
Spostandomi un po’ a nord-ovest scopro il paesello in cui mi trasferirò senz’altro, perché dotato di aeroporto internazionale, di una storia interessante, di una chiesa da vedere, di un ambiente circostante incontaminato:

La chiesa, che sta su Main Street, ovvero la strada principale, ovvero lo stradario è così ricco che non serve nemmeno darle un nome specifico, è il punto nevralgico del villaggio e ha evidentemente la palestra, che è un po’ la cosa più importante. Mentre comincio a sbrigare le pratiche per il trasferimento e la richiesta di residenza, mi chiedo se non mi sentirò un po’ a disagio così lontano dalla civiltà e dalla vita metropolitana fatta di musei, cinema, teatri e persone. Per fortuna, scopro che a pochi chilometri, al di là del centro dell’atollo, la vita è frenetica:

Due in un colpo solo. Non bastassero loro, London e Paris con la classica Manica in mezzo, c’è anche di più grande appena sotto:

Ottimo. Ma sì, certo, ci sarebbero un paio di cosine trascurabili di cui tenere conto prima del trasferimento, il fatto che gli americani fecero qualche test qua e là, 22 esplosioni nucleari di successo, e che gli inglesi tra il 25 aprile e l’11 luglio 1962 buttarono giù sull’atollo più di 24 megatoni idrogenati, niente di che.

Senza evacuare nessuno in ogni test, peraltro. Carini.
La bomba della foto fu attaccata a palloni per lo scoppio in quota e i palloni erano attaccati qui:

Ecco tre dei miei nuovi, futuri, vicini. Etnicamente vari come piace a me.
Mentre sto contrattando l’acquisto della mia casa a Banana, leggo piacevolmente alcune tra le recensioni della chiesa di Banana su Main Street

Il “bellissima esperienza ma non la ri-farei” suona tanto come il “bella ma non ci vivrei” il che è impossibile, parlando di Banana. Ma io non mi faccio infinocchiare dalle recensioni di ignoti. Vado senza, però, chiedere dove sia il bagno.

appecoronati

Dopo la foto dei miliardari nerds allineati all’incoronazione di Trump, prosegue l’appecoronamento delle aziende tecnologiche americane al nuovo presidente, nel desiderio di assecondarlo in ogni modo e mostrarsi compiacenti a ogni suo volere. Anche i più sconclusionati, tra cui si annovera il ribattezzamento del Golfo del Messico in Golfo d’America. Le maggiori aziende produttrici di mappe online, ormai le uniche mappe disponibili o quasi, quando avrò a tiro una mappa cartacea del golfo guarderò, si stanno adeguando: Google per prima, inizialmente solo per gli USA – il che avrebbe avuto pure senso – e poi anche per il resto del mondo.

E così anche per noi, sebbene tra parentesi, il toponimo è cambiato. Molto non bene. Oggi si è adeguata anche Apple, altro colosso con proprie mappe, ed ecco il Gulf of America, prossimamente – è questione di giorni – con diffusione planetaria.

Openstreetmap al momento non registra la cosa per il semplice fatto che non indica i nomi delle acque.

Non è, ovviamente, per la cosa in sé, per quanto fastidiosa. Inquieta la rapidità con cui, aziende che durante l’amministrazione Biden avevano chiaramente preso una posizione inclusiva e progressista, esse si sono prontamente riallineate, mostrando palese sudditanza nei confronti della nuova classe dirigente. Va da sé che preoccupa per eventuali richieste ben più significative, come per esempio – il tema è di assoluta attualità – i dati sensibili che queste compagnie conservano e che dovrebbero proteggere. Peraltro, aziende che, come Google ed Apple, avevano fin dalla loro fondazione uno scopo altruistico e di diffusione della conoscenza e degli strumenti, vedi come vanno le cose? Erano altri tempi, altro internet, altra consapevolezza, altre persone, altre aziende. Il motto della fondazione di Google, tra l’altro, era proprio Don’t be evil, figurarsi.

Ovviamente c’è chi poi si sbizzarrisce.

Per fortuna?