minidiario scritto un po’ così di un breve giro yorkshiriano: uno, a quant’è il prezzo del grano oggi? Che si fa in città stasera?

Mi chiamano per stabilire se vogliono comprare quel che io vendo. Pronti. Ed eccomi su un espresso transpenninico, i monti sono i Pennini, da Manchester a Leeds. Cioè, io mi fermo nella «…regione quae vocatur Loidis», come scrive Beda il Venerabile, lui il treno prosegue per York e fin di là sull’altra costa, finendo in un curioso luogo chiamato Redcar. È il prosieguo di un percorso che avevo già iniziato, tra Liverpool, Manchester e Birmingham, lungo i canali e le fabbriche dell’Inghilterra vittoriana, ovvero la prima potenza industriale al mondo, per produzione e cronologicamente. Si dice Yorkshire e si legge gran collinone verdi, i Pennains, circondate da fiumi e canali, guglie gotiche e ciminiere attorno a fabbriche ottocentesche, quelle che restano, davvero imponenti.

Leeds però per me e molti dei miei coetanei significa primariamente una cosa sola: live at Leeds. Ovvero il più grande live di sempre. Così, secco, senza discussione. Gli Who nel momento giusto, il refettorio dell’università, i cursori tutti su, una parte del successo fu dovuta al volume, cambiò la maniera in cui si registravano e producevano i dischi dal vivo. Era quasi un bootleg, ruvido, raw. Non controllo ma fu quasi una registrazione unica, a parte un cantato preso dalla sera dopo a Hull, un basso non registrato e poco altro, buona la prima o quasi. Quel che non capisco ancora oggi è perché sia at e non in, in London, sarà un vezzo, at Finsbury park, at Fillmore. A proposito, chi c’è in città stasera? Wombats? Aperti da Red Rum Club ed everything everything? Va bene, ci vengo.

Se non fossi così impegnato, dovrei stendere uno studio approfondito su come la parte più industriale e dura dell’Inghilterra abbia prodotto così tanta musica e di così grande qualità, da Liverpool, Manchester, Birmingham, Sheffield, Bristol proviene quasi tutta la roba buona della musica inglese e, per facile estensione, di quasi tutta la musica contemporanea. Peppino di Capri a parte. Ma, come dicevo, sono molto impegnato e, particolarmente, ora a perlustrare la zona dei docks di Leeds, i magazzini sulla rete di canali che garantiva approvvigionamento e distribuzione della produzione industriale vittoriana. Si può ancora oggi prendere una barchetta, con due amici per non parlare del cane, e navigare placidamente fino al Mersey di Liverpool e, quindi, al mare. Sono centoventisette miglia e un paio di centinaia di metri di dislivello. Il che è di molto più interessante che ripercorrere quel poco che resta del vallo di Adriano, non tanto più su. Ah, Costantino si trovava a York, a un tiro di schioppo da qui, quando fu proclamato imperatore. L’edificio del corn exchange, ovvero la borsa dove si contrattava il prezzo del grano, è formidabile ancora oggi, seppur pieno di negozietti cretinetti.

L’approccio linguistico con questo nord inglese è sempre piuttosto sconcertante in prima battuta, non capisco quasi niente. Ma è dovuto allo slang trascinato che parlano tra loro, quando parlano con me non dico Oxford ma non lontano da una conversazione tra persone civili. Se tutti i participi in –shed diventano, per dire, –shy, serve un po’ per capire. Mashy peas, certo. Ma basta poco e si è in breve uno di loro, sugli spalti del Leeds United a far casino. Ascoltando uno dei Gallagher discorrere in modo informale è possibile avere un’idea abbastanza precisa del macello fonetico o sentire la litania delle desinenze strascicate delle loro canzoni, sitiuescie. Comunque, anche parte del loro segreto sono tutti i cursori su, all red levels, tutto torna.

Le fabbriche dismesse, i magazzini, l’impressionante Granary wharf, dove rimasti sono diventati uffici e case di gran pregio sul Liverpool Canal e soprattutto sul fiume Aire. Gli spazi più grandi o ancora in attesa di recupero o centri commerciali, mantenendo intatta la vocazione.

L’evoluzione industriale qui seguì rapidamente quella degli altri centri, prima tessile e manifatturiera, poi con il progresso tecnico chimica e metallurgica. Tutto trasportabile o di là verso il mare del Nord, meno attrattivo, o di qua piuttosto verso l’oceano attraverso la baia locale del mar d’Irlanda. Non c’era come possedere l’industria più avanzata del mondo e mezzo mondo stesso per prosperare e inventarsi, persino, il turismo. Mai sentita questa.

Poi gli Who tornarono nello stesso refettorio nel 2006 ma anche Entwistle non c’era più, era un po’ un’altra cosa. Let’s dance to Joy Division / and celebrate the irony. Domani ho un altro incontro in un posto mah, vedremo, ci penserà qualcuno domani, non l’io dell’ora. Everything is going wrong / but we’re so happy. Eh sì. So happy.


uno | due | tre | quattro

com’è che da noi no? (risposta ovvia)

Negli ultimi due giorni decine, centinaia di migliaia di persone in piazza contro fascismo e razzismo. Ad Amsterdam:

A Parigi:

A Praga:

In Germania:

A Tucson con Sanders e AOC:

La domanda, quindi, è: perché da noi per portare in piazza le persone bisogna inventarsi una manifestazione – rispettabilissima, per carità – in nome dei valori europei, senza bandiere di parte, senza slogan così da non correre il rischio di offendere alcuno? Forse che fascismo e razzismo non dovrebbero essere combattuti da chiunque, destra e sinistra, perlomeno fedeli a valori costituzionali e libertari? O forse che, se si è governati da chi è complice, bisognerebbe avere più coraggio?
Il mondo, ancora una volta, è là fuori.

Foreman: ci restano i grill, molti George e un esempio

Era da tempo che aveva chiuso con la boxe, anche se da molto meno dei suoi coetanei. Dopo la comprensibile depressione a seguito della sconfitta nel rumble in the jungle, George Foreman aveva faticato parecchio a rialzarsi; come spesso accade in questi casi, vide la luce e divenne un ministro ordinato, minacciando di cazzotti i peccatori e il diavolo, immagino. Ma era sul ring che stava nel suo posto e così riprese, tredici anni dopo la batosta, si rimise in pista e, ci mise sette anni, riuscì a ridiventare campione del mondo mettendo insieme i titoli del mondo WBA, IBF e lineare, concetto quest’ultimo abbastanza informale che intende quando si sconfigge il re riconosciuto della foresta. Già è complicato in condizioni normali, farlo a quarantacinque anni come lo fece Foreman ha dell’eccezionale. In fin dei conti, il pugno da fabbro ferraio, secondo forse solo a Sonny Liston, seppur invecchiato ce l’aveva ancora, quello con cui, tra ganci e montanti senza sosta, spinti dai suoi centodieci chili per poco meno di due metri, abbatteva anche quelli più grossi, Frazier e Norton. Alì no, il rumble appunto, era per intelligenza tattica troppo lontano dalla sua portata ma in quanto a forza e furia non c’era paragone. Fece la cazzata, senza rendersene conto veramente, di sventolare una bandierina americana sul podio delle olimpiadi 1968, aveva pur vinto l’oro, a pochi metri di distanza da Tommie Smith e John Carlos col pugno nero alzato e divenne, suo malgrado, il simbolo del nero addomesticato all’America bianca e al potere, lo chiamarono ‘Zio Tom’ e non vi è dubbio che ne soffrì moltissimo.
Cadde molte volte, quindi, e altrettante più una si rialzò, segno di grande intelligenza, comunque. Smessa la boxe, non avendo parlantina e tempi per lo show business come altri, si rilanciò come imprenditore, dando la sua immagine a una serie di piastre da grill multiuso di grande successo, mollando manrovesci, evidentemente, alla carne in cottura e al grasso che cola.

Dopo la sconfitta contro Alì e un paio d’anni in giro sbandando tra avventure, club di seconda segata, macchine lussuose e animali esotici, tornò al pugilato e incontrò Ron Lyle, un altro fabbro ferraio che faceva della devastazione senza sosta la sua cifra stilistica nel pugilato. Ne uscì un incontro tra due ruspe dedite alle sportellate, una quantità notevole di cadute a terra, dritti e rovesci in un senso e nell’altro, tumefazioni indelebili. Per chi abbia voglia di cartoni, cartoni rullati, il match è qui. Si ritirò poi per tornare, come dicevo, alla fine degli anni Ottanta, curiosamente nello stesso momento in cui tornò anche Sugar Ray Leonard, molto più affascinante sotto ogni punto di vista: «Per Leonard è solo una questione di soldi, una “botta e via”. Anche per me il denaro ha una sua importanza, ma secondaria. Io voglio tornare ad essere campione. Ho un piano per i prossimi 3 anni: ricominciare dal fondo, allenarmi più di chiunque altro, combattere una volta al mese. Non si può avere tutto e subito», disse Foreman. Se questo non è un uomo saggio, allora non so chi lo sia. E così fece, ce ne mise sette invece che tre ma fece tutto per bene.
Ecco, ieri George Foreman se n’è andato, dopo alcune tristi vicende familiari e aver reso affettuoso onore ad Alì alla sua scomparsa: aveva fatto pace con lui e, soprattutto, con sé stesso, era caduto, era tornato, aveva perso e poi vinto, aveva imparato a fare le cose al proprio ritmo, a trovare la propria misura per fare bene, anche se ciò non suscita gli entusiasmi del pubblico e non fa diventare famosi, aveva imparato ad ammettere le sconfitte, le sciocchezze, a essere una persona degna e consapevole, anche se la propria collocazione è tra le piastre da grill. Mica poco, tutto questo, e non facile da gestire: comodo essere talentuosi e belli, il difficile è farlo da ringhiosi e impacciati. Lui lo fece ed è un bell’esempio per questo.

Provò anche a essere figo quando era obbligatorio esserlo e, tutto sommato, non andò male nemmeno lì. Anche se in questo Joe Frazier fu davvero imbattibile, ce n’era sempre uno meglio. Fino al titolo del 1987, da vecchietto. Ben fatto.

Joe Frazier, George Foreman e Mohammed Ali, London Arena, 17 Ottobre 1989 – UnitedArchives01018900

E, per essere certo, lascia i figli George, George, George, George, George, Georgette, Georgette e altri cinque con altri nomi.

la musica delle stagioni, inverno 2024

Entra da padrona la primavera e con essa si conclude la mia compila invernale, ventinovesima stagione musicale. Poco meno di quattro ore per cinquantotto brani in cui ci sono anche alcune cose argentine perché ero là, all’inizio dell’inverno musicale (mio) e dell’estate musicale (loro).

Con la pipa in mano tra le macerie, ascoltare musica potrebbe essere un buon modo per affrontare il periodo, dato che il contraccolpo per le elezioni americane, perse savasansdir, è stato ed è molto più truculento di quanto atteso e temuto. Per fortuna, basta alzare il braccio, girare il disco, rimettere la puntina e ricominciare da capo, si può fare.

Affrontate le incongruità musicali dell’inizio, la compila prende un’altra piega con gli Stereolab che riportano il tutto nell’atteso, Huey Lewis continua fino alla prima novità di sempre per me: un brano italiano, precisamente di Joe Cassano, che se messo su ad adeguato volume ha una base nel ritornello davvero notevole. L’ho sentito per caso, non sapevo mai di lui, generi diversi. Poi, subito, compenso con Shins, ci sono quasi sempre, gran pezzi di Ofege, Hiatt, Primal Scream, Melanie, in mezzo un’ovvietà come Madness che spesso me li scordo e faccio malissimo. Idem per Simple Minds, ogni volta sono una sorpresa e dovrei ascoltare solo loro per un bel po’, facciamoci un regalo. Con loro, un po’ a cascata gente che sa quel che fa da mo’, Wilde, Stranglers, un ricordo di Faithfull, Prefab Sprout, persino i DDuran, Joel, Hynde, Francis, Tompetti che ci dev’essere sempre, in mezzo segnalo due gran canzoni di Hackerman e Gibbons. E due di Vulfpeck che sa suonare il basso. Vabbè, quanto la faccio lunga, sta lì, chi la vuole se la pigli.

Le compile vere e proprie: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore) | estate 2022 (42 brani, 2,33 ore) | autunno 2022 (71 brani, 4,5 ore) | inverno 2022 (70 brani, 4,14 ore) | primavera 2023 (74 brani, 4,23 ore) | estate 2023 (53 brani, 3,31 ore) | autunno 2023 (92 brani, 6,9 ore) | inverno 2023 (76 brani, 4,5 ore) | primavera 2024 (59 brani, 3,4 ore) | estate 2024 (56 brani, 3,1 ore) | autunno 2024 (78 brani, 5 ore) | inverno 2024 (58 brani, 3,7 ore) |

Da ora si mette via per la primavera.

primavera non bussa, lei entra sicura (ancora ancora ancora ancora ancora ancora ancora)

Alle 10:01 di stamane quel matto del sole è entrato nella casa di carta e, grazie alla processione siderale, ha dato l’avvio all’equilizio stagionale che, a sua volta, ci ha scagliato in primavera. E nessuno stupore che oggi sia il 20 e non il proverbiale 21: in caso non ve ne foste accorti, là fuori l’universo fa quel che vuole, indifferente agli strepiti locali sulla regolarità. Non serve Leopardi per questo. E tutti fuori.

E i motociclini tutti fuori, anche, che non vi ho visto mai durante l’inverno, dove eravate, timidoni? Non starò, come al solito, a spiegare il perché e il percome avvengano questi cambiamenti stagionali e le ragioni per cui all’inverno succeda sempre la primavera e non il contrario, servirebbe capirne di astrotonìa, di fisica qualistica e di processionistica, inutile perdere tempo qui. Per fortuna, mi cito dall’anno scorso: la primavera arriva sempre, specie quando ci sono i fascisti.

ho visto spiagge di zucchero e un’acqua di un blu limpidissimo

Ho visto un completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l’olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato «Mister» in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l’Electric Slide. Ho visto tramonti che sembravano disegnati al computer e una luna tropicale che assomigliava più a una specie di limone dalle dimensioni gigantesche sospeso in aria che alla cara vecchia luna di pietra degli Stati Uniti d’America che ero abituato a vedere. Ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga.

È il Rutger Hauer delle crociere caraibiche. Comincia così, o quasi, un librino molto piacevole di David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, 1998. Sono ormai vent’anni e più che con gli amici ce lo siamo scambiati, l’abbiamo regalato a ogni natale e ricorrenza, l’abbiamo consigliato, riletto, perso e ricomprato. A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again è un reportage di Wallace che fu ingaggiato da Harper’s e spedito sulla Nadir per una crociera di sette notti ai Caraibi allo scopo di trarne un racconto a puntate in cui, mirabilmente, descrisse aspetti del viaggio, trasse considerazioni sociologiche, raccontò le proprie reazioni a una situazione, complessivamente, ridicola e assurda. Il librino è divertente e piacevole e intelligente insieme, le note a piè di pagina sono, in effetti, un secondo libro. La traduzione, notevole, è di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo.

Oltre al libro, c’è l’audiolibro, anzi due. Quello cui mi riferisco ora è il più vecchio ed è letto magistralmente da Paolo Pierobon e si trova qui su RaiPlay Sound, con un’intonazione di voce bassa e costante che richiama il galleggiare placido di una meganave al sole, con lo stordimento che una crociera a base di spiedini di frutta può dare. È un vero spasso e, se possibile, direi che aggiunge pure qualcosa al già pur eccellente libro, consiglio molto caldamente. Magari indossando una larga camicia a tinte forti. Lunedì mattina ho sbagliato strada almeno tre volte, assorto nell’ascolto della dimensione esistenziale dello scarico a risucchio delle navi da crociera ed ebete come un crocierista dopo la prima settimana.
Ne esiste, infine, un altro audiolibro registrato in tempi appena più recenti da Giuseppe Battiston per un’altra compagnia, però non l’ho sentito.

interessi di chi? Dei cittadini? Dei popoli del mondo? Non risulta che sia così

Discuto con un mio amico al bar, io sostengo che piazzare satelliti a iosa attorno alla terra da parte di un privato – Musk con Starlink – sia un atto di pirateria bella e buona, occupando senza regole uno spazio comune e impedendo ad altri di fare lo stesso in futuro, in potenza, lui invece controbatte che se non è proibito, si possa fare.
Al di là del fatto che ho chiaramente ragione io, mi viene in soccorso il Presidente Mattarella che, in uno splendido discorso tenuto a Marsiglia un mese fa in occasione del conferimento di una laurea honoris causa, vale la pena leggerlo (è in francese solo all’inizio, cortesia), si esprime su molte questioni di grande attualità e sostanza, dimostrando una volta di più di essere l’unico statista rimasto in questo cavolo di paese e che il tempo ce lo preservi. In particolare, riporto un passaggio sulla questione iniziale:

Accanto a questa nuova articolazione multipolare dell’equilibrio mondiale, si riaffaccia, tuttavia, con forza, e in contraddizione con essa, il concetto di “sfere di influenza”, all’origine dei mali del XX secolo e che la mia generazione ha combattuto.

Tema cui si affianca quello di figure di neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari a cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche.

Ricordiamoci cosa detta l’Outer Space Treaty all’Art. II: “Lo spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, non è soggetto ad appropriazione da parte degli Stati, né sotto pretesa di sovranità, né per utilizzazione od occupazione, né per qualsiasi altro mezzo possibile”.

L’età moderna è stata caratterizzata dalla “Conquista”, di terre, ricchezze, risorse.

Che bravo, Mattarella, un marziano in questi tempi miseri. Come il Berlinguer del film di Segre, peraltro.

placcalo e portaglielo, sbrigati

Non vorrei parlarne per non alimentare il circolo vizioso del lui-fa-cose-indegne, Repubblica-vende-più-copie, noi-ne-parliamo-al-bar-sdegnati. Ma una cosa almeno è troppo golosa per perderla, quindi ne parlo.

Ogni presidente, mi pare di aver letto, ha a propria disposizione centomila dollari di budget da spendere per arredamento di proprio gusto nella stanza ovale o nella Casa bianca; Obama si fece prestare a pagamento un paio di Hopper, per dire, Trump al primo giro spese un milione e mezzo. Ora pare partito con il medesimo slancio, ci sarà la fila fuori dalla Casa di mercanti e artistoni per portare oggetti placcati d’oro o placcare quelli già presenti, leggo i telecomandi. Comodo. Visti gli esempi delle altre sue case, non stupisce che riempia tutto di cose dorate in stile barocco-kitsch come certe gazze che si portano nel nido le cose sbrillucciche e, scorrendo alcune foto, questa cattura la mia attenzione:

Non tanto per le cariatidi al centro, che comunque, ma per la riproduzione della coppa del mondo di calcio. Che manco fosse un ex-calciatore. Speranzoso, ho cercato immagini più grandi per leggere la scritta sulla targhetta, sperando in una dedica personalizzata, invece è un modesto ‘Fifa world cup 2018’, che delusione anche in questo. Speravo fosse una di quelle coppe al ‘papà migliore del mondo’ o al ‘campione del mondo dei nostri cuori’, ‘best president ever, signed JD‘, peccato.

Ma c’è di meglio. Sobbalzo quando vedo la riproduzione in scala uno a due del Monte Rushmore tutta d’oro e, non bastasse, con l’aggiunta a destra del quinto presidente, chiaramente il più grande tra tutti.

Sobria ed elegante. L’aveva già fatto qualcuno ma senza oro e con ben altre motivazioni ed esiti, deludente anche qui. Però l’oggetto è notevole, davvero, e non riesco a non pensare al subbuglio di venditori d’arte di seconda segata, artisti morti da tempo, falsari incapaci, placcatori vendicativi che si lanciano, finalmente, alla riscossa facendo la fila per proporre al presidente un oggettino che nella sua collezione non può certo mancare. Chissenefrega, placcalo e portaglielo.

Dove, invece, non mi ha deluso è stato nella vendita delle auto. Noi diamo del ‘venditore di auto’ con senso spregiativo ai venditori non particolarmente capaci o, anzi, interessati alla sola vendita senza scrupoli ulteriori ma, anche in questo, senza la bravura eccellente di chi è davvero capace, mentre in questo caso il venditore del ‘White house Tesla auto mall’ ci ha messo tutto il proprio impegno:

Oh, ed è tutto acciaio e su compiuter. E se ne danneggi una, ti perseguiremo sull’intero orbe terracqueo per terrorismo interno, chissà mai incontri Meloni che per le stesse zone insegue gli scafisti. Non è un reato come assaltare il Campidoglio armati, no, quello è un’altra cosa: quelli sono patrioti.

lo smartphone che stavi cercando

Arriva una mail promozionale con quell’oggetto, “Lo smartphone che stavi cercando”, e io come tutti penso echecazzo. Che manco io so che smartphone stia cercando, non so nemmeno se ne stia cercando uno. Aprendo la mail, ovvio, sorrido per questi simpatici ruffiani:

Ahah, no, non sto cercando un iphone15. Allora meritano un po’ di pubblicità, anche perché con loro mi sono trovato bene un paio di volte: Back market. Non ‘black’, è un sito credo estone che raccorda chi si occupa di devices ricondizionati, con prezzi ovviamente più interessanti e politiche di trasparenza e reso molto apprezzabili. Ecco, il mio l’ho fatto, loro pure.