La copertina di Der Spiegel del 9 giugno 2018:
Sei anni dopo sono tutti ancora lì, Orbàn, Putin, Xi Jinping e, ora, anche Trump. Ovvio, è la loro natura di autolegittimati. Che contentezza.
La copertina di Der Spiegel del 9 giugno 2018:
Sei anni dopo sono tutti ancora lì, Orbàn, Putin, Xi Jinping e, ora, anche Trump. Ovvio, è la loro natura di autolegittimati. Che contentezza.
Ecco, la disfatta elettorale americana mi ha distolto dalla conclusione del minidiario giordano e, devo dire, reso piuttosto di cattivo umore. Ma le cose vanno concluse, va messo un punto per partire con altro. È chiaro che, come per l’Ucraina, per Gaza ora le cose si fanno difficili – ancora più difficili -, non a caso in Israele si è fatta festa per la vittoria di Trump, il carnefice criminale Netanyahu idem, era due settimane fa a casa Trump in Florida, dove ha passato la fine settimana, figuriamoci.
Scrivo ora da casa, ampiamente tornato: ne apprezzo il verde, l’erba, le piante, dopo molto molto seccume e deserto, sabbia e polvere, la terra promessa… Questa è una cosa che se uno non ci è nato, si fa fatica o, almeno, la faccio io. Per il resto, la domanda nello sguardo delle persone con cui parlo dopo il ritorno è: ma non è pericoloso? No, non lo è, le condizioni della Giordania sono più che sicure, proprio per quel trattato di pace ineguale con Israele che li mette al riparo da un lato e da una certa capacità di equilibrismo con gli altri paesi attorno che sono, però, genericamente arabi allo stesso modo. Di sicuro, un paese come la Giordania che campa di aiuti internazionali per le decine di migliaia di profughi che accoglie e, soprattutto, di turismo, la situazione attuale sta mettendo in difficoltà tutta l’economia dello stato e la condizione personale degli individui: guide turistiche, autisti, operatori, impiegati del settore, tutti quanti subiscono il calo superiore all’ottanta per cento del numero dei turisti, il che vuol dire non lavorare proprio. A Petra, dove dopo una certa ora non si cammina dalla ressa, non dico fossi da solo ma insomma poco ci mancava. E, ammetto, la cosa ha influito anche nella mia decisione di andare proprio ora.
Nel frattempo, ha nevicato nel deserto di Al-Jawf, in Arabia Saudita, di cui il Wadi Rum è la piccola estensione giordana. La notizia è pessima, è la prima volta a memoria d’uomo che la cosa accade ed è sintomo, l’ennesimo, di un cambiamento radicale che non va bene per nulla: correnti d’acqua e d’aria, temperature di terra, mare e cielo che cambiano e spostano equilibri che, a vita d’uomo, consideravamo immodificabili e che, in quel poco di tempo da cui esistiamo, ci hanno consentito di svilupparci nelle direzioni che conosciamo fino a oggi.
Certo, poi se si vota Trump… Sono partito con agenti Frontex a fianco, concludo con due funzionari di UNHCR, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, in attesa in aeroporto. Passano due caccia in cielo diretti verso est, va’ a sapere, e un elicottero dai colori militari volteggia attorno da un poì, anche qui chissà. Non sono i primi, ogni giorno o quasi è capitato, d’altronde le basi militari dei paesi colonialisti, come dicono qui, sono molto vicine. Succede un mezzo casino ad Amsterdam dove, pare, un gruppo filopalestinese aggredisce un gruppo di tifosi del Maccabi Tel Aviv e la cosa non è sorprendente: chi a Gaza ha perso tutto crescerà nell’odio più profondo per Israele, dato lo strapotere militare chi potrà esprimerà il proprio odio lontano, persone e luoghi legati al paese oppressore in questo momento, i quarantatremila morti in un anno sono un abominio.
Ora so molte cose in più di quando sono partito, e questo è già molto, adesso ciò che ho visto deve avere una rilevanza per ciò che sono e faccio, altrimenti non ha senso, è farsi viaggiare senza scopo: deve modificarsi di conseguenza il mio modo di affrontare le cose, di raccontarle e condividerle, come dopo ogni viaggio o persona rilevante incontrata. Guardo fuori, stanno arrivando gli storni come sempre fanno a novembre. Mi piace guardarli volare, non sono sicuro sia un novembre, questo, in cui fare degli auspici, meglio non fare domande di cui si temono le risposte.
Non è andata molto bene.
Sconfitta senza appello su tutta la linea, uomini e donne bianche hanno votato compatti per lui. L’Ucraina è fottuta, Gaza è fottuta, l’emergenza climatica un tantinello pure e anche quelli che in Europa esultano per la sua vittoria a breve assaggeranno i dazi commerciali e il protezionismo americani.
Un paio di dati, il voto per contea e la distribuzione per genere ed etnia:
Deprimente. Fosse almeno un’altra persona, uno diverso, ma otto anni dopo ancora lui, incattivito, aggravato da cause e processi, invecchiato parecchio, mi lascia ancor più intristito.
Ma la cosa che in assoluto mi fa più male, al di là dei fatti veri, è questa: data per persa ad agosto, al ritiro di Biden, da quel momento lì in poi di che abbiamo parlato? Non ci siamo mai mossi da lì, altro che terno al lotto e tutto equilibrato, serve rimettere a posto ogni capacità di analisi della realtà e di previsione, ma proprio tutte. Che disastro.
Bene, io torno nel deserto, alla grande e aperta e filofemminista democrazia araba.
Voi che fate?
A un certo punto tuona. Poi ancora e vien su un gran grigio. E poi diluvia, eccome se diluvia. In realtà non è che la cosa sia rara, tutt’altro, sono io che mi rendo conto che non so nulla delle zone desertiche e come funzionino. Per esempio, suppongo che non piova mai ed è invece vero il contrario. Mamdouh mi spiega la differenza, ovvia a saperlo, tra zone aride e zone desertiche. Già. Osservando le rocce e le striature ovunque, oltre alle cisterne nabatee, le vasche di raccolta secondo pendenza, si capisce che piova, e pure spesso e ancor più spesso improvvisamente e a carattere di nubifragio. Siamo pur sempre vicino a un mare, Mediterraneo, e a un altro, Rosso. Il che, intendo la pioggia, spiega peraltro come accidenti ci siano abitazioni nel niente niente. Nel 1963 ventidue turisti francesi morirono intrappolati in una grotta di Petra, due anni fa le forze dell’ordine evacuarono millesettecento turisti in pochi minuti a fronte di fiumi di fango improvvisi. Io però sono alla cittadella di Amman, quindi in alto, e sono seduto al bar a prendere un caffè, quindi tutto quello che devo fare è sedermi all’interno e contemplare. Facile.
Amman è una cittadona senza confine, fino all’Ottocento era un modesto villaggio, oggi oltre che capitale un inurbamento di oltre cento chilometri di raggio. Con un grande passato, però, fondata dagli Ammoniti, ricostruita dai Tolomei che le diedero il nome poi durato nel tempo, Philadelphia, sì, proprio così, poi eccetera eccetera, tutta la sfilza di passaggi e dominii. La cittadella, ovvero una delle colline della città, la più centrale, mostra i segni di ogni passaggio, dalla chiesa poi moschea omayyade alla statua di Ercole di oltre tredici metri alle abitazioni ottomane. Poi, dopo la grandezza, conobbe la decadenza fino a divenire un villaggetto da niente e poi, in un secolo, una città tentacolare, in cui i tre piani per legge poi diventarono quattro e poi cinque e poi cominciarono a contarli solo dal livello della strada e poco importava se gli altri dieci piani scendevano lungo la collina.
E questo perché? Inurbazione? Profughi? Sì, certo, dalla Siria, per fare un esempio, ne arrivarono ottocentomila tutti in una volta. Ma anche per demografia matta, non ho conosciuto nessuno che avesse meno di quattro figli in questo giro, dal tassista al dirigente politico. E sei fratelli, almeno. Ad Amman c’è l’ospedale di Medici senza frontiere più importante di tutta la zona, proprio perché la Giordania raccoglie i profughi e i feriti da tutto il medio oriente. E soprattutto dallo Yemen, adesso, in cui una guerra civile disastrosa infiamma la regione da più di dieci anni, coinvolgendo nove stati sunniti contro quelli sciiti, bombardamenti aerei inclusi. Nell’ospedale di Medici senza frontiere curano chiunque arrivi, un ferito è un ferito, non chiedono nemmeno l’identità, ci sono state alcune puntate di Cecilia Sala recentemente sul punto. Ed è, credo, l’unico atteggiamento possibile in una zona del mondo in cui il Fronte di liberazione palestinese è in conflitto con il Fronte di liberazione della Palestina.
Vado a Jerash, Gerasa una volta Antiochia sul fiume d’oro e così qualche altro nome dell’antichità che va a posto, per quel che durerà. L’Antiochia sull’Oronte è invece in Siria ed è quella la più nota, capitale dei seleucidi. Mai una volta che a scuola ci abbiano fatto vedere una mappa, eh? Va bene, ma cos’hanno fatto i Romani per noi? Uhm, gli acquedotti, l’igiene, le strade, le fognature, l’irrigazione, l’istruzione, il vino, le terme pubbliche, la sicurezza e la salute pubblica. Va bene, ma a parte l’igiene, la medicina, l’istruzione, il vino, l’ordine pubblico, le fognature, l’irrigazione, le strade, il sistema di acqua potabile e la sanità pubblica, cosa hanno davvero fatto i Romani per noi? Jerash è una delle città romane più imponenti e sontuose che io abbia mai visto, due teatri, tre decumani maggiori allineati, un foro ellittico che solo forse Palmira, colonne in granito rosso d’Egitto che solo Roma si poteva permettere, quadrivi monumentali, templi con dentro altro templi con dentro altri templi. Sì, ma quindi? Niente, non hanno fatto niente per noi. Sembra una battuta ma è così, il sentimento generale è che tutto provenga da qui e, in effetti, in parte è anche vero, provenendovi un bel pezzo di civiltà umana. Però, insomma, moderazione e realismo, dai. Il superbonus è nostro.
Difficile arrivare a un punto, qui. La Giordania stessa è un paese palestinese legato a doppio filo a Israele, poco lontano da qui ci sono le basi americane e francesi e inglesi che vanno in appoggio quando serve, oggi c’è stata la prima incursione in Iran, per quanto terrestre, e a molti tocca abbozzare. Pare che Ragna regina di Giordagna sia a Parigi da due mesi e che il re mediti di fare lo stesso, abdicando. Per quanto l’erede sia stato definito nei modi più svariati da coloro che hanno risposto alle mie domande, da good guy a totally jerk con tutte le tenui sfumature che ci sono in mezzo, le relazioni non cambieranno e la tanto sospirata unità dei popoli arabi non ci sarà. Perché il Fronte di liberazione palestinese farebbe volentieri la pelle al Fronte di liberazione della Palestina ben prima che a Israele.
I racconti si accumulano. Mentre Israele ha attaccato non solo il sud ma anche il nordest del Libano, contraddicendo le previsioni ottimistiche di voler solo creare un’area cuscinetto a nord di Israele, qui non se ne percepisce alcun effetto. Se non nei discorsi. Sento racconti personali, di famiglie di Jaffa scacciate ed espropriate dei propri beni nelle tende dei profughi in Giordania e Siria, in condizioni disumane senza documenti con potere di movimento ma solo di identità; e discorsi massimalisti – due ore di cena interminabile, per esempio – in cui si spazia tra Lawrence d’Arabia, colonialismo inglese, accordi di Oslo, i Rothschild, la rete dell’ebraismo internazionale fino ai protocolli dei savi di Sion, figuriamoci. Sento di tutto, dal ragionamento politico su Israele, Egitto, Iraq e i reciproci rapporti passati e attuali, pacato e basato su fatti, all’antisemitismo più assurdo, fatto di luoghi comuni triti e insensati, dall’usura alla regia occulta di ogni avvenimento della storia. Ovvio.
Andando verso sud, visito alcune tra le fortezze più importanti di questo lato del mar Morto, Masada, quella della rampa romana per l’assedio, è di là. Kerak, Shobak, viste le posizioni eccezionali su spuntoni di roccia in mezzo alle valli carovaniere, grandi canyon di roccia gialla nel punto più basso della terra, furono occupate dal paleolitico, poi da non ricordo chi, dai greci, nabatei, romani, seleucidi, omayyadi, mamelucchi, bizantini, crociati, ottomani e così via. A me piacciono le pinete sul mar Baltico, moltissimo, ma se c’è un motivo per cui poi finisco sempre in questi posti battuti dalla sabbia è proprio questo: il susseguirsi, direi l’accatastarsi, di vicende umane. Una spremuta di melograno per strada, un’insalata araba, come la greca ma al posto della feta ha un chilo di cipolla, grandi saluti con tutti e ancor di più quando mi sanno italiano – la politica filoaraba di Mattei, Craxi e compagnia bella? – e proseguo per la depressione del mare.
Dove c’è acqua, si coltivano persino angurie, e poi pomodori, cipolle, carote, patate, banane, tutto buono, fuori sabbia, saline nella parte sud del mar Morto che perde ogni anno un metro di profondità, forse esagerato, ovvero quaranta chilometri di lunghezza negli ultimi decenni, questo si vede a occhio. E indovina? Esatto, l’acqua del Giordano è stata deviata dagli israeliani nel 1968 a seguito della guerra dei sei giorni e della quintuplicazione del territorio israeliano. Mi colpisce a un certo punto Samir quando parla dell’ebraismo come “religione biologica”, intende che si è ebrei per nascita e solo per parte di madre ma sottende il concetto di ‘popolo eletto’ e, quindi, alla fine trionfatore, mentre l’accento di islam e cristianesimo sarebbe di più sull’inclusione, senza distinguere più di tanto tra convertiti e non. C’è del vero. L’ebraismo non contempla la conversione, se non in termini occasionali e comunque non paritari, non la incoraggia, a differenza di musulmani e cattolici, non tende ad allargare la comunità se non in termini, appunto, biologici. Sarebbe un bene, diceva Natalia Ginzburg in un articolo dopo la strage alle olimpiadi di Monaco del 1972, se Israele non fosse “una nazione potente, aggressiva e vendicativa” ma un “piccolo Paese inerme e raccolto”. Il ragionamento seguiva una strage e una rappresaglia prevedibile del Mossad e proseguiva spiegando che la sola scelta possibile è “essere dalla parte di quelli che muoiono o patiscono ingiustamente”.
Giù, al confine con l’Arabia saudita, al Wadi rum, un deserto rosso di grande effetto. Attraversato da sempre da carovane provenienti da sud e da est, lo testimoniano numerosi graffiti rupestri, oggi è una riserva naturale, seppur in certe zone ampiamente frequentato. I nabatei, rieccoli, erano i padroni delle rotte e delle tratte, lunghe carovane di oro, incenso e mirra – ricorda qualcosa? Sì, erano loro -, spezie, tessuti e così via dal lontano est verso il Mediterraneo. E le vie del deserto bisognava conoscerle a menadito, è grande e pare tutto simile, facile perdersi. E dietro le famiglie, il cibo, le guardie, gli esploratori, Petra era dunque al centro di queste rotte, sensato farne la propria capitale. Esco a guardare le stelle, che in pianura padana non conosco, e a godermi il silenzio. Mi han detto di stare attento ai cani, finché non abbaiano non ci sono. Vado, ascolto e sto a tiro di corsa, difficile negoziare coi cani, non è che uno arriva e spadroneggia nel deserto.
Qualcuno mi racconta che, nel 1947 all’arrivo dei primi ebrei in fuga dall’Europa, i suoi nonni donarono loro alcuni terreni che, poi con l’istituzione dello stato di Israele, diventarono quel che poi sono oggi, il centro di Tel Aviv. E i nonni fuori. Poi, io che considero come tutti gli europei il governo giordano una monarchia costituzionale e tutto sommato rispettosa di certi diritti vengo contraddetto molte volte, mi viene spiegato come sia invece il contrario, nessuna opposizione se non controllata dal re stesso, nessun quotidiano discordante, nessuna radio se non quelli, appunto, controllati.
Anche il re giordano sarebbe in mano al governo israeliano, mi spiegano in molti, e il trattato di pace avrebbe allora tutto un altro aspetto. Anche tutti gli aiuti internazionali, erogati per aiutare a sostenere la pressione dei profughi della macroregione sulla Giordania, almeno formalmente, sarebbero invece un modo sostanziale per mantenere lo stato allineato all’occidente. Certo, ovvio che devo fare mille tare a quanto mi viene detto ma, come sempre, è utile venire a vedere dall’altra parte. Ah, qui non la chiama nessuno Giordania: la chiamano Palestina. Per saperlo, ecco. Anche in Yemen, sul fondo della penisola arabica, c’è la guerra, in questo caso una guerra civile, ma gli effetti della situazione a Gaza si ripercuotono anche lì, con gli Houtu che nel mar Rosso intercettano le navi in nome della libertà palestinese. Si tratta chiaramente di strumentalizzazione ma fa parte del sistema di geometrie variabili per cui chiunque nell’area si muove in reazione a un’azione altrui, vuoi per vicinanza, convenienza va a sapere che. Ormai è tutto talmente compromesso e da troppo tempo che cercare una logica lineare è una perdita di tempo e risalire di azione in azione, di posizione in posizione indietro nel tempo, altrettanto. L’idea che mi viene trasmessa maggiormente è che Netanyahu non solo non si fermi perché criminale ma, a questo punto, non si possa più fermare perché, a potere perso, dovrebbe rispondere di ciò che ha fatto in questo anno. Forse negozierà un’uscita ma non ora.
Scendiamo a sud, ovviamente voglio vedere la piccola e la grande Petra, ci mancherebbe che già che son qui non ci andassi. E così è. Un paio di cose, altrimenti sarebbe troppo lungo e complesso raccontarne e poi, comunque, esistono le guide esaustive. La prima è che noi chiamiamo Petra un solo monumento, anzi a essere precisi, una tomba mausoleo, quella che sbuca fuori al termine della gola, quella di Indiana Jones e chiamata, propriamente perché lo è, “il Tesoro”. In realtà, Petra è un’enorme città, le tombe scoperte sono circa ottocento, molte delle quali simili alla prima, ed è ancora in gran parte da scavare. Per arrivare all’ultima, “il Monastero”, cammino prima un’ora e poi in salita per quasi mezz’ora, per più di settecento gradini tra le gole di roccia rossa. Questo per dire delle dimensioni. Fino a pochi anni fa la vecchia Petra, abbandonata per un millennio dopo le glorie nabatee, era abitata dai beduini e in piccola parte ancora lo è, in alcune grotte ai margini. Poi fu costruito un villaggio qui sopra, sono in realtà case modello-calabrese, per i beduini, in cambio dello spostamento. I nabatei, poi. Ci sarebbe molto da dire, popolazione davvero interessante di cui sto apprendendo ora le caratteristiche e la storia, fino a due giorni fa per me ignote. Magari più avanti, è già venuta lunga oggi e non è nemmeno mezzogiorno.
Come da prescrizione, tralascio le coppe più sontuose e scelgo la coppa più umile, quella certamente fabbricata da un modesto falegname. Eccola.
Se questo è il sacro Graal, allora qualcuno stia molto molto attento a sé da adesso in poi, eheh. Anche se, forse, non era proprio questa l’idea iniziale, sospetto.
La prima collisione è con Mamdouh, simpatico e spiritoso autista-guida che aggancio con facilità mai vista prima. Si vede subito che i turisti si sono dissolti da un anno a questa parte, dai fatti di Israele. E me lo conferma subito, dai cinque viaggi al mese che faceva di media, adesso ne fa a malapena uno, è a mia disposizione e mi accompagnerà ovunque io voglia. Mai vista una cosa così, l’offerta è evidentemente troppa per una domanda molto scarsa, vengo addirittura disputato tra due autisti ma per fortuna la spunta Mamdouh, ex portiere professionista e padre di sei figli perché, volendo una femmina, ha avuto prima cinque maschi. Forte, già chiacchieriamo come amici grazie al suo inglese migliore del mio. La stessa R., altra collisione fin dall’aeroporto, viene accaparrata da un altro autista e per andare nello stesso posto facciamo una specie di corteo presidenziale fino al centro di Amman. Poi naturalmente si aggiunge subito il giordano che ha vissuto trent’anni a Napoli facendo il pizzaiolo e sposando una di lì con figlio annesso che ciacola con buffo accento partenopeo di come italiani e giordani una fazza una razza, mi diverto molto. E che poi scende in mezzo al niente, chissà. La guerra incombe, l’instabilità che procura danni a tutti, ci tengono tutti a dire come qui sia sicuro e a garanzia specificano convinti che se fosse pericoloso se ne sarebbero già andati, che non è un granché come motivazione. Turisti zero o quasi, gli immancabili giapponesi che non si spaventano di fronte a nulla, qualche francese, profughi molti, la stessa Giordania si fonda sui profughi palestinesi fuggiti nel 1948, e ancor più indietro al 1921, quando la Giordania è nata dalla Palestina, tutto per ora appare tranquillo. Ci sarà tempo per parlare di politica più seria.
La terza collisione è Samir, architetto al Politecnico di Milano e qui guida, che si aggiunge a me e Mamdouh per un giro di qualche giorno della Giordania. Mano alla mappa, mai stato così facile e immediato, la ragione che adducono entrambi è che “a casa si stufano”. Beh, allora andiamo. Ci muoviamo verso sud, a Madaba, città storica da sempre, nota per una clamorosa mappa a mosaico del sesto secolo che rappresenta, quel che resta, città e territori dal delta del Nilo fino alla Siria. Salendo sulle alture, dal monte Nebo son più emozionato a vedere Jericho, le sue possenti mura crollate al suono dei corni, il mar Morto e Gerusalemme al di là della valle del Giordano che per il luogo in cui morì Mosè, per carità. Vide la terra promessa di là come la vedo io ora e poi morì. Io no, credo. Un monastero francescano ricco di bei mosaici greci e di pietre miliari romane ne custodisce la memoria. Ma il discorso torna sempre sul vicino ingombrante, ritenuto a torto o a ragione l’espressione colonialista americana ed europea nella macroregione della Grande Siria, Israele ovviamente. Che ha sì un trattato di pace con la Giordania tanto solido quanto sbilanciato, per esempio sulla gestione delle acque del fiume Giordano che scorre ai piedi delle colline dove sono ora e che viene diverto in maniera ineguale per ragioni di agricoltura. In effetti le colline di qua sono desertiche con qualche rara oasi qua e là, di là sono abbastanza verdi di ulivi e coltivazioni. La strada e la cosiddetta strada del deserto, va giù dritta ad Aqaba, l’unico porto giordano, e fu costruita dall’Iraq ai tempi della guerra con l’Iran per poter usare lo stesso porto. Tre corsie per carreggiata, dritta tirata con un filo, attorno deserto deserto che se parlo con Mamdouh è meglio che magari mi resta sveglio. Per movimentare la cosa qualcuno supera a destra, qualcuno buca, la polizia ferma a caso. Samir ne ha per tutti, ha espressioni colorite per chiunque, paesi, figure politiche, governi, salta pure fuori che condusse una trasmissione sul mondo arabo su radio Popolare nei primi anni Ottanta. Io abbonato, vediamo se riusciamo a combinare un viaggio, allora.
Per quanto Samir provi a darsi un tono, dura poco: colpa di Israele, colpa degli americani, degli inglesi, a volte dei tedeschi, a volte degli europei tutti. L’ho detto degli israeliani? Poi, per carità, ci si può ragionare, più dal punto di vista storico, interreligioso, umano ed etico ma se si tocca appena uno tra i circa diciottomila argomenti sensibili, e non è che proprio su tutti abbia torto, risorse più che altro, allora riparte: israeliani, americani, inglesi e così via. Mamdouh è più serafico ma parla anche meno. Parliamo parecchio, attraversando il deserto e la Giordania verso sud, poi pranziamo con altre persone, di cui uno mi viene presentato come facciadiculo, piacere caro, poi deviamo verso ovest, attraversiamo villaggi abitati e non, qualche fabbrica di cemento e, in questa zona, di fosfati, tra i migliori mi dicono; poi salendo sulle colline pecore, pastori, resti di fortezze crociate e ben più antiche, si aprono gole e valli di roccia, mi mostrano i sistemi di raccolta e conservazione dell’acqua, perlopiù antichi perché la gente si sposta in città a fare il terziario avanzato, e poi ciao, mica è un diario vero, questo. Un ottimo formaggio molto salato e, come sempre in questo posti, pani e sfoglie strepitose.
Non si può dire che sia un fiume grande o, meglio, lo è per certo visto che scorre nel deserto e per ciò che costituisce per le terre che attraversa. Un tempo era però molto più grande, miliardi di metri cubi, oggi oltre il novanta per cento dell’acqua viene deviato per bagnare i campi seminati e così i suoi laghi, o mari come il chiamano qui, pian piano scompaiono. Niente di nuovo, ho visto accadere lo stesso al Nilo e all’Amu Darya, per restare ai mesi scorsi, si potrebbe estendere a tutti i corsi d’acqua della terra. Ma è la storia che fa grande questo fiume, l’Eden stava senz’altro sulle sue rive, Mosè lo attraversò per raggiungere la terra promessa, per non parlare dei battesimi di Giovanni, e per quanti millenni, fino a ora, ha fatto da confine tra le nove tribù, al di là, e le due e mezza di qua, fino a oggi, tra Siria, Israele, Giordania e Cisgiordania. È il Giordano, ovviamente, già di per sé toponimo dei paesi circostanti, che affluisce e defluisce da nord tra il mar di Galilea, il vecchio lago di Tiberiade dei pani e dei pesci, il mar Morto e il mar Rosso alla fine, a sud. Tutto attorno, terre promesse da molti dii e profeti, che Federico II stupor mundi ancora se la ride: “Allorché vide la Terra promessa che Dio tante volte aveva esaltata chiamandola la terra dove scorrono latte e miele e terra di tutte la più pregevole, Federico affermò che Dio non doveva aver visto la terra del suo regno, ossia la Calabria, la Sicilia e la Puglia, perché altrimenti non avrebbe lodato in questo modo la terra che promise e diede ai Giudei”, racconta fra’ Salimbene da Parma. E mica sbaglia, a parte il verde attorno al fiume il resto son sassi.
Perché sono qui? Perché ora? Perché voglio vedere e voglio capire, capire anche se e cosa io possa fare di utile. La Giordania è il posto sicuro più vicino al tragico carnaio che sono la striscia di Gaza, il Libano, la Cisgiordania, la Siria, l’Iran e l’Iraq da decenni, da un anno a questa parte in modo crudele, in una spirale demenziale di affronti e vendette che si perde nell’Antico Testamento. Non ho ricette per questo, non ho soluzioni, se non che butterei a mare gli uni e gli altri, senza remore. Ma questo è un minidiario non un confessionale per cui alcune cose non vanno raccontate, vanno fatte. Il resto sì, ciò che vedrò in questi pochi giorni sì, lo racconterò, perché comunque certe cose andrò a vederle, in compagnia di persone che mi spiegheranno ciò che non so e non comprendo. Ne verrà fuori un minidiario turistico? Non saprei, può darsi, serve rispetto e pudore anche nei racconti, non sono un corrispondente, ce ne sono molti e bravi. Vediamo che ne verrà, io mi atterrò al mio, qui.
Nonostante attorno ci si spari a vista, quando va bene, il fiume resta sacro, ancora oggi gli eredi della corona inglese vengono battezzati con acqua del Giordano, figurarsi. Mentre sono qui a scrivere queste righette, in attesa del pullman per Amman, ho a fianco tre agenti di Frontex, la guardia di frontiera e costiera europea, lineamenti mediorientali, inglese fluente, mangiano una specie di lasagne con calma, probabilmente devono prendere un aereo. Il che mi porta già in una delle dimensioni attuali, la gestione dell’immigrazione, qui declinata in particolare sui profughi, in fuga da Gaza, Libano e Cisgiordania in uno dei pochi posti sicuri di tutta la macroregione. Che distanza, poche ore fa facevo colazione seduto a fianco di Anna Foglietta – il colpo di culo del giorno – in un baretto del rione al sole caldo e se mi avesse detto fuggiamo a Formia ci sarei andato e, ora, il contrasto è davvero stridente, brandelli di un mondo complesso che mi passano a fianco come meteore dirette chissà dove, alla ricerca di chissà cosa. Come sono io, del resto, è una faccenda di collisioni occasionali.
Mentre si celebrava come una svolta storica nelle politiche migratorie italiane la deportazione di sedici persone in Albania, al modesto costo di diciottomila euro cadauno, nel nostro Paese sono arrivati 2.285 immigrati.
E poi sono tornati i sedici.