La rotonda di Belluno sul Piave nel nord est che produce. Forse non così centrale da poter trarre dati commerciali dalla frequenza di furgoni bianchi.
Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più bustrofedica dell’isolato, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.
Addirittura una via, brutto, brutto. (Non sfugga la telecamera con cui esso tiene d’occhio tutto, specie gli atti, le opere e le omissioni delle signore).
Dopo la bella intervista di ieri, due particolari della vicenda mi piacciono parecchio, credo valga la pena riportarli. Il primo risale alla formazione del governo nel settembre 2022, Forza Italia chiedeva per sé il ministero della cultura, Meloni oppose una considerazione che riporta in questi giorni il Post: disse di avere per quel posto «un nome enorme, incontestabile». Lui, Sangiuliano, è lui il nomone. Signore, grazie perché ci doni la realtà. Inarrivabile. Il secondo è di oggi, da Palazzo Chigi fanno sapere che – sempre col tono lagnoso e perseguitato classico di questa destra – sospettano ci sia «una regia occulta» dietro le astutissime mosse di Boccia, donna «lucida» e «diabolica», niente di meno. Ovvio ci sia una macchinazione dei poteri forti, della Spectre, del Cremlino di una volta. E perché accade questo? Perché Sangiuliano «sta lavorando per smantellare un sistema consolidato negli anni del Pd», ovvia quindi la reazione del sistema contro i veri rivoluzionari picconatori spingitori di cambiamento. Ho proprio bisogno di una vescica più resistente.
Aggiornamento: leggo su Repubblica un virgolettato di Liliana Segre a proposito della vicenda, ovvero: «Le vicende a cui assistiamo sono in antitesi con qualsiasi forma di intelligenza». Ora, conosciamo la disinvoltura con cui volano le virgolette, trasformando chissà che in dichiarazioni, per cui meglio cautela. Non posso dire però che non mi piaccia la schiettezza. Meglio comunque affidarsi alle virgolette successive, più plausibili: «È una vicenda squallida e triste».
Non ridevo così tanto dalla morte di madre teresa di Calcutta. Sangiuliano – ministro della cultura del governo Meloni, fedele alla propria carriera – va su raiuno, sfrattando la trasmissione in palinsesto, e si fa intervistare dal direttore del tg1 sul caso Boccia (uso privato di mezzo pubblico, tra l’altro): non mancano le finte lacrime, le scuse «a mia moglie, a Giorgia Meloni e al mio staff», al paese no, eh, si dichiara pronto a fare qualsiasi cosa per restare con la moglie – sempre dopo, son disposti a tutto, dopo – e fa tutti gli errori possibili, uno dopo l’altro, dopo tutti quelli dei giorni scorsi. Come quello madornale di chiamare la ex, Boccia, lasciata l’8 agosto, per assicurarsi che lei riporti correttamente i fatti (secondo ovviamente Sangiuliano), come dichiara nell’intervista. Siccome questa è la classica testimonianza che poi sparirà, restando solo a spizzichi e bocconi, mi son acchiappato il video integrale e vualà, lo lascio qui a perenne ludibrio:
Citando Bizzarri, non ha un amico, Sangiuliano, che lo consigli di stare zitto e sparire? Che gli spieghi che non si chiama una ex, donna ferita in questo caso, per dirle pure cosa deve o non deve fare? Che fare dichiarazioni incaute ogni giorno cui lei risponde pubblicando su IG carte e video che lo smentiscono non sia una buona linea di difesa? No, evidentemente no, se no non sarebbe il Sangiuliano della luminosa sequela di gaffes e cretinate indicibili. È evidente che non ci sia altra strada che le dimissioni, nonostante la presidente del consiglio desideri far finta di non dover rimpastare e faccia finta di non vedere anche Santanchè.
Nel 1980, per le olimpiadi di Mosca, tutte le discipline a vela furono svolte a Tallinn. Ha senso, era il mare più vicino a Mosca o quasi, diciamo. Tra le strutture costruite apposta, oggi brilla la Linnahall, un enorme auditorium piazzato proprio sul mare in aggraziato cemento armato com’era uso. Dopo qualche breve momento di celebrità, dopo le olimpiadi intendo, ovvero qualche concerto post indipendenza tipo i Duran Duran, restò lì dove Mosca l’aveva messo e lì sta. Anche perché a questo punto non si sa bene che farne, troppo concreto per farlo saltare, irrestaurabile e lunghissimo e costoso da demolire.
Un bel relitto del passato spiaggiato. Ma non mancava nulla al classico corredo dei paesi socialisti dipendenti da Mosca, per esempio l’enorme e visibile dappertutto torre della televisione, versione ridotta, non di tanto, di quella di Berlino est. Che è a sua volta la versione contemporanea, novecentesca e tecnologica, dell’analogo palazzo dell’informazione, l’incombente grattacielo che domina invece a Varsavia e a Riga, per esempio. Una rappresentazione simbolica di come tutto arrivasse alle onnipresenti orecchie di Mosca e del governo centrale, il concetto oppressivo di ‘informazione’ come quello di ‘amicizia’ nei ponti come quello di Narva.
Piglio le mie carabattole e mi accingo al ritorno, seppur per la via larga. Ovvero traghetto per attraversare il mar Baltico dritto qui davanti e arrivare a Helsinki. Ottanta chilometri, dritto. Una volta c’era l’elicottero da Tallinn, anzi dal suo aeroporto, a Helsinki, sopravvolando il mar Baltico. Dopo l’incidente nel Golfo di Finlandia nel 2005 fu però sospeso e io mi dico peccato che un giro l’avrei fatto volentieri. Come l’elicottero dall’aeroporto JFK al Pan Am building, che bello sarebbe stato, non fosse che anche lì fu un disastro. Traghetto. Che anche l'”Estonia” nel 1994, nzomma.
Vent’anni fa lo presi in direzione contraria e ricordo una cosa specifica, vediamo se è ancora così. Lo è. Sulle banchine del porto di Tallinn sono sparsi parecchi grandi magazzini che vendono alcolici nelle più svariate forme. Ma grossi. Che ci si chiederebbe, non fosse che si capisce subito: frotte di finlandesi con carrellini vengono qui a fare rifornimento. La disparità di prezzo dev’essere tale che il costo del traghetto, poco peraltro, diciannove euro, non influisce sul senso della trasferta. Anche perché la legge finlandese stabilisce sì delle soglie ma, come dire?, piuttosto lasche: settanta litri di birra a persona, novanta di vino, dieci di superalcolici.
Perlamadonna, settanta? Novanta? E io che se bevo due medie di fila faccio voti di castità alcoolica per sempre in nome della medicina moderna? Ci penso talvolta: ma quanti ne avrà salvati internet, nelle province a nord della Scandinavia?
Probabilmente il costo del traghetto per l’auto e le soglie consentite suggeriscono il viaggio a piedi – non so, magari la stiva è piena di auto traboccanti di gin -, considerando che settanta litri di birra sono duecentodieci lattine il trasporto a piedi diventa persino impossibile. Questo per stare a un modesto consumo settimanale, immagino.
Vieni, amore, che per la domenica padre-figlia ti porto a fare una bella gita a Tallinn, che accompagni il papà a prendere una cosa che gli serve.
Bene, accomodato in una delle tante marine di Helsinki mi godo l’aria e il vento del Baltico, il cielo del Baltico, entrambi fenomenali, il sole del dappertutto, le aringhe, marinate e fritte, sempre del Baltico, insomma è il mio mare, anche lato finlacchiese. E la vista delle navi rompighiaccio, che già mi fa fresco. E mi godo gli ultimi scampolini di questa minifuga, ogni occasione è buona e da prendere. E anche l’immancabile insalata a predominanza cetriolo, ma com’è possibile? Può essere nominato la verdura universale? Lo trovavo in cima al Tajikistan come al fondo della Baviera o al centro della Cina o lungo le coste del Sudafrica. Ma cresce ovunque? Con e senza acqua? Può? Il mondo è cetriolo, in certe parti ti danno l’acqua aromatizzata a esso, è in tutti i big Mac dell’universo, li dovrei mettere anche sugli occhi, pickle Rick. Che poi si mangiano due chili di carne stracotta nel vino e panna acida con due litri di birra e quel ruseghino di notte, si, maledizione: è il cetriolo.
E mi godo l’art noveau declinata alla finlandese e, soprattutto, il modernismo del nord, notevole, e qualche Alvar Aaltata, tra cui il bar nella libreria accademica, Akateeminen Kirjakauppa, bella lingua e magnifici libreria e bar, persino le maniglie.
Che poi non conosco molti paesi come la Finlandia che siano passati in pochi anni dall’avere le pezze al culo – gergo economico stretto – alla ricchezza spalmata su tutto e tutti, parlo di Nokia e del benessere diffuso per i cinque milioni di finlacchiesi, e come con la stessa velocità abbiano poi perso parecchio, facendo il percorso contrario. I paesi arabi col petrolio, mi verrebbe da dire, ma le moli sono diverse e la durata pure. Oggi Nokia è un industriona, per carità, e un capolinea del treno, fantasia, ma non più il colosso di una volta. Come avere il novanta per cento del mercato e mancare la svolta fondamentale, il caso viene illustrato nelle università. Abbastanza europeo, direi, come approccio generale.
Per carità, intendiamoci: avevano veramente le pezze decenni fa, con un’autonomia di un secolo e il peso russo a fianco, ora per quanto l’epopea Nokia non sia più florida hanno comunque un pil nominale maggiore del nostro. Sono pochi, certo, questo aiuta.
Il telefono ha ricominciato a squillare, le mail ad arrivare, i messaggi, le proposte dei contratti energetici, è decisamente lunedì ed è decisamente settembre. Se io fossi una persona furba, proprio per questi motivi mi dileguerei ancora più lontano ma tanto furbo non sono, per cui piglio la strada di casa. Ma oh, certo che appena vedo uno spiraglio telo, chiaro, e mi tengo sereno la tariffa del gas peggiore.
Un classico dei paesi dell’est sono le biglietterie dei treni che vendono anche alimentari. Di solito presidiate da donnone arcigne di mezza età la cui espressione massima è il monosillabo gnnghrf che vendono variamente biglietti del treno, patatine e cioccolata, senza sentirsi in apparenza sminuite. Spaccare qualche faccia, magari, quello sì.
In questo caso c’è un supermercatino vero e proprio e un’elegante sala di attesa prospicente. E in questo caso la signora della biglietteria mastica l’inglese, cosa non solo non scontata ma solitamente improbabile. I binari sono a scartamento europeo e non russo, ben più larghi, non credo sia così in tutto il paese. Ma i treni li fanno comunque più larghi, comodi. E a differenza di altri paesi baltici, la Lettonia per esempio, la minoranza russa non è del tutto ostracizzata e a fianco di tutto quanto scritto in alfabeto latino si trova qua e là il cirillico, indicazioni, nomi, alcuni giornali. Alla fine, tra russi, bielorussi e ucraini sono il venticinque per cento della popolazione.
Che è, complessivamente, meno di un milione e mezzo di persone. Niente male. Al momento la stagione offre frutta grandiosa tra cui brillano lamponi e mirtilli, oltre che finferli. Non proprio a buon mercato, come quasi nulla qui – indice internazionale cappuccino: quattro euro, però ne vien via un tolotto – ma son ben spesi, enormi e succosi. Il pentimento poi.
Sul tabellone delle väljumised appare il mio treno, vado. Per l’inevitabile e solitamente umiliante spazio-civiltà, segnalo che sull’espresso su cui viaggio, unica categoria di treni esistente a parte il transbaltico europeo, non solo ci sono spazi per passeggini, biciclette e bagagli, prese elettriche, moquette ben tenuta, ma c’è anche la macchinetta, oltre che per valideeri il biglietto, per comprarlo proprio. Sul treno. E devo dirlo? Manco un telefono che suona, mai. Qualcuno che parla, raro e a bassa voce, ma suonare mai. MAI.
Signore, perché ci mescoli così male? Fuori piove, ci sono tredici gradi e le mie due ore di treno a guardare il paese fuori dal finestrino sono veramente un’ottima idea. In generale, oggi ancor di più. Bosco, bosco, Tapa, bosco, gruppo di case nel bosco, Rakvere, bosco, lago, bosco, Kiviöli, bosco. Mi torna la ricorrente tentazione di una casetta georgiana in legno in un villaggio baltico, tra la pineta e la spiaggia. Betulleta. Magari un mese, prima o poi. Fine del pezzo di costume.
Il treno ferma e non c’è un dove, oltre. La Narva, un bel fiumone, secondo nel golfo di Helsinki dopo la leggendaria Neva ghiacciata, scorre tra due alte rive e rupi e divide due imponenti fortezze, Narva e Ivangorod. Esse si fronteggiano da secoli, a partire dal dodicesimo secolo, quando il re danese ne fece il confine delle proprie conquiste, rispetto a ciò che vi era di là, un pericolo oscuro e costante, fossero russi o, in quel momento, l’Orda d’oro mongola. Poi furono l’ordine teutonico, gli svedesi, Nevskij e la Livonia, fu costruita anche l’altra fortezza e da allora si guardano per rive opposte quando la Russia o la Svezia recedevano. Lo storico ponte che univa le due sponde fu distrutto nella seconda guerra mondiale nella battaglia di Narva, una delle più terribili, che distrusse la città stessa, una volta famosa per il barocco tipico e chiamata ‘la perla del Baltico’. Niente più perle, niente più barocco. Dall’indipendenza, le due fortezze si guardano da Russia ed Estonia e il ponte che le unisce, chiamato con il tipico sarcasmo sovietico ‘dell’amicizia’, oggi fa da terra di nessuno. Come quello tra Uzbekistan e Afghanistan poco tempo fa, stesso nome e stesso tipo di amicizia.
L’amicizia oggi si percorre solo a piedi e dopo innumerevoli controlli. Se Istanbul è uno dei varchi aerei per la Russia, questo è uno di quelli pedonali, ancora un confine a piedi, coincidenze. Una galleria fatta di rete e filo spinato passa sul ponte e porta di qua e di là. Non essendo belligeranti UE e Russia, il confine non è chiuso. Una lunga fila di persone aspetta di entrare in Russia, la maggior parte ha l’aria di persone venute di qua con un trolley per riempirlo di cose. Ma non è detto, alcuni sembrano proprio turisti. E anche in uscita, in effetti.
È pur sempre una frontiera, non è che ci sia molto da far domande anche se una ragazza orientale mi dice sbrigativamente di essere in effetti una turista in uscita, andandosene prima che io menzioni la guerra. Mentre da un bastione osservo la fortezza di là, scorgo chiaramente un gruppo di visitatori su un mastio, hanno ombrelli e stanno ascoltando la spiegazione di una guida. Stanno certamente ascoltando le stesse cose che io ho appena letto, da prospettiva diversa, animati dal desiderio di sapere. Lo stesso mio desiderio, cosa che ci lega. Ma io di qua non posso andare di là e viceversa, io non posso visitare la loro fortezza e loro la mia, l’assurdità definitiva di un confine.
A seguito dell’indipendenza dell’Estonia nel 1920, al crollo dell’impero russo, e del trattato di Tartu, secondo l’articolo 122 della Costituzione estone il territorio di Ivangorod apparterrebbe ancora all’Estonia, visti però i rapporti tesi tra i due paesi la frontiera non è stata ancora riconosciuta dai russi. Stranamente. A parte le zone limitrofe al ponte, il resto del confine non è cintato, a parte i punti sensibili come la centrale elettrica, si può quindi nuotare o imbarchettarsi e andare di là. Però i cartelli multilingue parlano chiaro: quindici anni se si viene beccati di là senza visto. Ma poi chi andrebbe di là solo per vedere? Sano di mente, intendo, quindi non io, che scruto la riva facendo piani e sono venuto fin qui apposta per vedere di persona.
Un tizio pascola il gatto al guinzaglio e io è meglio mi trovi un caffè dove farmi asciugare e aspettare qualche ora il tardo treno per tornare a Tallinn, che il buio e il freschino e la pioggia incalzano.
Sto contemplando la fortezza di Ivangorod, al di là del fiume Narva. Il fiume fa da confine da non molto, sono trent’anni, lo era stato prima, per la breve indipendenza degli anni Venti, con la Svezia ancor prima, per secoli è stato solo un fiume da valicare, ora però è un punto molto caldo. Perché di là è Russia e di qua no.
Vado con ordine, ricomincio dall’inizio. Colgo la palla al balzo di un piccolo appuntamento per dare al me stesso del presente ancora qualche giorno di vagabondismo, che il rientro si preannuncia intenso. Tornato dal Tajikistan, qualche giorno di lavoro fatto, sbrigata un’incombenza fastidiosa, attaccate le calamite al frigo, lavato tutto, dai che tre giorni ci stanno ancora. E siccome da parecchio vorrei vedere il confine di cui dicevo, e qualche giorno al fresco lo passerei volentieri, anche in prigione, rimollo gli ormeggi e organizzo il girino.
Tallinn per cominciare. Estonia, la repubblica baltica più a nord, anch’essa sul mar Baltico che chissà perché tanto mi attrae. Che aria, qui. Sfogliando la guida, mi porto qualche libro da scorrere, alla ricerca di qualche notizia utile: il fresco-fresco The Baltic revolution: Estonia, Latvia, Lithuania and the path to independence di Anatol Lieven, fresco nel senso che è del 1993, fresco di indipendenza; l’interessante Remains of the Soviet Past in Estonia: An Anthropology of Forgetting, Repair and Urban Traces di Francisco Martinez, che non deve aver vissuto direttamente le vicende, a occhio. Tralascio i trattati sui castelli dell’Ordine teutonico nei paesi baltici, magari più avanti, e altrettanto avanti il tremendo Bang Estonia: How to Sleep with Estonian Women in Estonia di tal Roosh V – specialista nel tema con altri saggi come Game: How To Meet, Attract, And Date Women e Day Bang: How To Casually Pick Up Girls During The Day – in cui sono incappato per caso, e resterò con il dubbio sul capitolo: Why Estonia’s entry into the Euro zone has made your seduction mission harder che, chiaramente, non leggerò. Chissà perché, comunque.
Chiaro che qui la questione russa è all’ordine del giorno da secoli, mica da ora. Per lungo tempo questa è stata Russia, URSS, zarista e bolscevica, in tutte le declinazioni. San Pietroburgo è lì, in fondo al golfo, aguzzare lo sguardo, in tempi normali pullman e traghetti partivano ogni mezz’ora. E io no, dai, ci sarà occasione, pensando le cose immutabili in Europa. Bravo, furbo.
Russa come svedese come danese come d’ordine teutonico come prussiana, le questioni qui sono state tante, più facile continuare a pestarsi i piedi in un mare chiuso come il Baltico o il Mediterraneo, la lega anseatica resta invece un modello irraggiunto di organizzazione e coabitazione. Certo, ogni tanto ci si radeva la città al suolo vicendevolmente ma il tenore generale era di commercio cordiale. In Estonia le città devono avere per legge nomi di cinque lettere, Tartu, Narva, Pärnu, Valga, Keila, infatti Tallinn è capitale perché ne ha sette. Tartu tra l’altro è in fibrillazione perché quest’anno è capitale europea della cultura, ne dicevo tempo fa perché ormai questa cosa pare la promozione europea di paesoni senza troppe prerogative. E infatti qualche giorno fa, per cultura, hanno inaugurato il festival del bacio. Dell’analoga norvegese non so ma non credo faccia faville.
Tallinn vent’anni fa era una città abbastanza conservata, al centro medievale anseatica con aspetto generale tedescheggiante, attorno russa per porto, magazzini, fabbriche. Complessivamente abbastanza dirupata. Oggi è una città turistica che ha beneficiato grandemente dell’entrata in Europa – nessuno è più europeista delle repubbliche baltiche, che non sono russi, non sono tedeschi, non sono polacchi, non sono finlandesi o scandinavi, sono appunto baltici e temono tutto l’attorno -, gradevole da girare e in cui trascorrere un po’ di tempo. Meno fascinosa di Riga, più di Vilnius. Ha degli scorci belli.
Per quanto riguarda il recupero delle fatiscenze industriali, aggiungiamo una tappa obbligatoria alla deportazione dei nostri assessori all’urbanistica, dopo Lodz, Kaunas, Poznan, Varsavia, così che vedano come fanno qua fuori.
Non dico debba piacere ma, qui, non radono al suolo per costruire centri commerciali affetti da infantilismo, già vecchi e dalla vita breve, recuperano bensì a borgo, con gli edifici della fabbrica che sono di volta in volta uffici, alberghi, negozi, cinema e così via. Un altro piccolo centro città che si gira come lo giravano gli operai e gli impiegati. Dico solo di venire a vedere, prima. Le notti migliori in Europa le ho sempre fatte in alberghi dentro ex fabbriche, che ho scelto apposta perché sono più belli, non necessariamente di lusso. Da noi no, fabbriche brutte, inventarsi passato nobile e secondo tradizione.
Una settimana fa ho scoperto il cotone. Cioè, sapevo dell’esistenza del cotone e ne conoscevo la forma in calza o maglietta o mutanda ma ne ignoravo la forma naturale, ammesso che ne avesse una. Poi ho letto della politica delle monocolture dell’URSS e di come Uzbekistan e una piccola parte del Tajikistan fossero stati scelleratamente dedicati alla coltura del cotone e allora mi sono avventurato in un campo, in senso letterale, per vedere questo cotone come diavolo fosse fatto. E ho scoperto che a) è una pianta, b) richiede molta acqua e lavoro, ottima quindi per luoghi semidesertici, c) a un certo punto come è d’uopo fa un fiore:
d) poi questo fiore si impallina e si imbozzola, per fare come è anch’esso d’uopo, il frutto:
e) alla fine si apre e, magia!, il nucleo è una calza di spugna praticamente già indossabile:
Tra le tante conseguenze della presenza del cotone, una mi tocca da vicino, dalla vita in giù. Fedele cliente di Carrera Jeans da quando Levi’s divenne troppo cara, anche per pantaloni di ogni forma e colore diverso dai jeans, e fedele alla linea politica dell’azienda veronese, «one life, one race, one world, one jeans», sapevo della loro verticalizzazione assoluta del processo, ovvero dalla coltivazione del cotone alla produzione di abbigliamento al negozio. Come sapevo della delocalizzazione in Tajikistan, sia per la coltivazione della materia prima che per la lavorazione, ho potuto constatare di persona la presenza in tutte le città tajike del marchio:
In questo caso è una storia originale. Non bella come quella di Dolce & Gabbana in Uzbekistan, che quando decisero di aprire un negozio a Tashkent scoprirono la decennale esistenza di centinaia di negozi a loro nome nel paese.
Ovviamente tra passato e futuro o tra due martelli di bronzo. Sulla torre dell’orologio in piazza san Marco a Venezia, in cima, ci sono due statue di bronzo raffiguranti due pastori che battono con un martello le ore su una grande campana.
Il motivo è ricorrente in parecchie città dominate da Venezia. In questo caso, le statue sono chiamate mori di Venezia per il loro colore bruno e, sebbene paiano identiche, in realtà una ha la barba e l’altra no.
Questo perché una rappresenta un vecchio e l’altra un giovane. Ma non basta, ecco il bello: il moro vecchio batte le ore due minuti prima dell’ora esatta, ed è il passato, il moro giovane invece picchia due minuti dopo l’ora precisa, per rappresentare il tempo che verrà. E il presente, quella fissazione dell’ora tonda, non lo batte nessuno, si sentono il prima e il dopo, che dopo non è più perché ti giri un secondo ed ecco che è un prima. Ma poi dopo di che? Che cosa stupenda.
A fianco degli orologi rinascimentali, esisteva la figura del temperatore, o moderatore, che di fatto era un manutentore che provvedeva alla regolazione di pesi e contrappesi, della lubrificazione degli ingranaggi, al perfetto funzionamento del meccanismo. Spesso, come nel caso della torre di Venezia, all’interno vi era un’abitazione nella quale il temperatore viveva, così da essere sempre pronto alla bisogna. L’appartamento della torre di Venezia, che tale è perché sviluppato su tre piani con ambienti di soggiorno e di lavoro, esiste dal 1499, anno di entrata in servizio del primo temperatore. Dopo trentatre temperatori e quattrocentonovantanove anni, l’ultimo di essi, Alberto Peratoner, venne mandato in pensione perché dopo l’ultimo restauro venne installato un meccanismo automatico di ricarica. E così il 30 marzo 1998 l’ultimo temperatore chiuse la porta e lasciò l’orologio incustodito, dopo cinque secoli. Qui alcune fotografie scattate da Peratoner. Vedi il presente? Svanito.
Ineccepibile la descrizione di Marco Polo: «Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini». Nemmeno una parola falsa o imprecisa, non lo si becca in castagna, Polo. Sono quasi tutte così le sue descrizioni di città e luoghi, tipo (parafrasi): «e vi eran cose molto belle» e son la minoranza del Milione, che si dedica invece lungamente a Kublai Khan e alle vicende dell’impero mongolo, mica la fa lunga sui posti, così usava. Ma chi non l’ha letto e lo cita pensa sia così. A Samarcanda qualcosina in più c’è ma per gran parte arrivò dopo Polo, quindi assolto con beneficio. Perché Alessandro Magno disse invece: «Tutto quello che ho udito di Marakanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi» e oltre a essere ineccepibile anche questo, è un accenno che rimanda immediatamente alla storia millenaria della città, meravigliosa fin dalle origini. Afrasyab, Marakanda, poi Samarcanda, lo dicevo ieri, sottintendendo la prima città, capitale della satrapia della Sogdiana sotto gli Achemenidi di Persia, poi fiorita ancor di più sotto i Sasanidi per poi divenire una delle città più ricche di tutto il mondo islamico sotto arabi, persiani e turchi. Quando Polo la vide, Samarcanda aveva subito le due devastanti invasioni mongole che la ridussero al lumicino. Fu poco dopo che Tamerlano, Amir Timur, la fece capitale dell’impero timuride, immenso territorio che andava da Costantinopoli a Mosca a Delhi, e suo nipote Uluğ Bek proseguì l’opera rendendola talmente grandiosa da togliere il fiato ancora oggi. Che bravo sono stato quest’anno, ho visto Tebe, Cartagine e Samarcanda, bel malloppo di città leggendarie, mi emoziona ripensarci.
Vabbè, comunque facile parlar bene di Samarcanda. «Anche tu? Vanno tutti in Uzbekistan quest’estate» mi aveva detto un amico prima di partire e io mi ero sorpreso perché non so mai cosa facciano questi tutti e poi, ora, devo dire che aveva ragione: tra Bukhara e Samarcanda questi tutti li ho visti proprio, insieme. Il fatto è che lo stato uzbeko, nella persona del suo poco luminoso presidente Mirziyoyev, successore del cane Karimov, ha adottato negli ultimi anni una robusta politica di apertura, cercando di attrarre investimenti e turismo nel paese e, in effetti, i risultati si vedono. Certo, il giro canonico Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent, con volo diretto da Milano, è di grande golosità, tre città su quattro contengono monumenti di straordinaria bellezza, e i nostri turisti europei rispondono in massa, ma è anche inevitabilmente molto addomesticato. Si può alloggiare in alberghi di tipo occidentale, mangiare come a casa facendosi togliere i sapori molesti, girare sicuri e spavaldi, spendere come dei ricconi in Florida, sbattersene delle sensibilità locali e girare in ciabatte e braghini.
Ora: se questo servisse a dare una svolta ai diritti sociali e politici degli uzbeki allora sottoscriverei subito e, forse, sul lungo periodo sarà pure così. Pasolinianamente massificando tutto ma tant’è, il mondo pare oggi abbia un’unica regola e nessun modo alternativo. Se, invece, come è ora, si traduce semplicemente nell’invasione di una razza padrona cui i locali servilmente in cambio di valuta con alto potere d’acquisto vendono luoghi ed esperienze autentiche, allora faccio più fatica. E il calzolaio fa l’autista, il contadino spilla birre e la maestra col velo vende tazze alle turiste in costume sognando chissà cosa ma nel frattempo si guadagna di più. Il tutto sempre autentico, però. Per carità, le cose viste son talmente belle che non mi sentirei di scoraggiare nessuno, anzi, ma sono contento di aver messo al centro del mio viaggio il Tajikistan e l’Uzbekistan remoto del sud. E di non aver incontrato quasi nessun turista, men che meno italiano, che sopporto meno. Mica perché italiano, nonostante una certa sguaiatezza esibita nei costumi nazionali, più che altro perché capisco cosa dicono, è quello il problema. E comunque quando vedi apparire il tatuaggetto fatto a cazzo, sicuro son loro. Ma io mica voglio parlare di questo, fermati.
Tutti ‘sti presidenti, il tajiko Rahmon compreso, sono vecchioni provenienti dall’URSS, delfini di qualche satrapo allevato a pane raffermo e KGB e a loro volta despoti appassionati di potere e familisti orrendi. Certo, con loro l’argine all’islamismo integralista c’è ed è fermo, pur con tutte le storture (in Tajikistan, per dire, sono proibite le barbe) e quando essi soccomberanno al tempo e poi, spero alla storia, non è detto che andrà meglio. Anzi, potrebbe esserci la deriva fanaticheggiante, Iran e Afghanistan sono qui da vedere. Non c’è come proibire una cosa per allevare devoti.
Dei periodi di Samarcanda, dalla primordiale a quella odierna, rimangono svariate tracce. Notevole la collina della remota Afrasyab, con le sue stanze affrescate direttamente sul fango e la paglia, così simile alla vicina ma tajika Penjakent. Senz’altro la parte più significativa della città è la parte timuride, ovvero quella costruita e disposta da Tamerlano e discendenti, tra cui senz’altro il Registan, l’enorme famosa piazza sulla quale aggettano tre madrase meravigliose che ricordano un passato di sapienza e istruzione, e qualche esecuzione qua e là, vabbè, poi la moschea più grande dell’Asia centrale, la necropoli timuride, una successione strepitosa di mausolei uno più bello dell’altro e l’osservatorio astronomico di Uluğ Bek. Molte altre cose poi, il gran bazar sovieticheggiante, il quartiere cinese Shanghai. Tra l’altro in questi giorni c’è il festival di musica folk uzbeka, un grande appuntamento che ferma il centro città per alcuni giorni. In rete si trovano filmati delle edizioni passate, alcune cose meravigliose, altre terribili e dico solo Albano che bacia la terra uzbeka in favore di presidente cane.
Per me ora Samarcanda vuol dire anche aeroporto, cioè la fine del viaggio, breve tappa a Istanbul. Giusto averla piazzata alla fine, scelta saggia, partire sempre dal difficile. Che dire, ancora? Viaggio complesso, inventarsi e organizzare gli spostamenti non è sempre stato semplice, sarebbero serviti molti giorni in più, attraversare paesi come il Tajikistan richiede spesso di trovare il modo per arrivare da un punto all’altro e serve tempo per parlare, chiedere, cercare. Mi servirebbe, quindi, una vacanza, ora. Aver messo il naso in Asia centrale mi rende contento, volevo cominciare a capire. A Dušanbe scrivevo di trovarmi «nel fondo del Tajikistan che confina da vicino con l’Afghanistan, circa duecento chilometri da Pakistan e India, qualcosa meno dalla Cina e dal Kirghizistan. Oltre all’Uzbekistan, sempre dietro l’angolo» ed era vero, a Termez anche peggio, di fatto è lì che da secoli la civiltà umana progredisce e regredisce. Certo, anche noi in Europa abbiamo avuto i nostri bei (e meno) momenti, Grecia, impero romano, illuminismo, nazismo, ma chi suggerisce di guardare l’Europa come un’estrema propaggine del continente asiatico non sbaglia e ci suggerisce di aprire la mente e lo sguardo. Adesso in quest’ottica punto Iran, Armenia, Georgia e Azerbaigian.
E l’augurio iniziale? Molte persone care mi hanno augurato di tornare sereno e di trovare tranquillità e soddisfazione e io sono loro grato per questo augurio premuroso. Ma non è il tipo di viaggio che serve a questo né, probabilmente, io cerco tranquillità e soddisfazione, andando a sbirciare paesi complessi e non addomesticati. La mia amica A. mi aveva augurato di tornare «appagato», ed è stato l’augurio migliore, anche se pure in questo caso non è la conseguenza possibile delle intenzioni di viaggio. Capire di più è quello che voglio, non divertirmi o svagarmi, non vado in vacanza: vado in capienza, al contrario, in riempimento. E torno più consapevole, proiettato nel mondo, più concentrato.
Il che vuol dire che non solo non sono più sereno e accomodante ma, anzi, sopporto decisamente meno le meschinerie e le piccolezze: dopo aver diviso del formaggio essiccato a quattromila metri contemplando laghi glaciali e osservato l’immensità della storia da un monastero nel deserto, è ovvio che tollero ancor meno le sciocchezze, le miserie, le lagne, chi non parla con onestà, chi non agisce seguendo giustizia. Vedo dunque nubi all’orizzonte.
Bah, il fatto positivo è che la Nera Signora non c’era, o non era a Samarcanda che attendeva me, quindi ancora in pista, bucato fatto, sono pronto a ripartire. Chissà, magari pure a breve. Grazie a chi ha seguito.
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