la poesia e la sedia (J. Rodolfo Wilcock)
Il sommo e mai troppo ricordato J. Rodolfo Wilcock, presenza imperitura nell’olimpo dei maestri venerati da trivigante, in un libretto-raccolta pubblicato l’anno scorso, “Il reato di scrivere”, spiega che senza dubbio i vertici della poesia – ossia di un prodotto che non si produce più – furono certo con Dante. E lui fu il punto più alto “di qualcosa che si chiamò poesia, in un ciclo ormai chiuso”. E non si illudano i poeti posteri di avere anche solo vagamente sfiorato i confini di un ciclo esaurito già nel Settecento: ora è impossibile, per qualsiasi uomo che si nomini poeta, aggiungere qualcosa.
Ecco cosa dice Wilcock:
“Non perché non lo sappiano fare, bensì per la mancanza sia di movente che di scopo nel farlo; è ovvio che un fabbricante di sedie, consapevole che il mondo è pieno di sedie eterne, e che altre sedie non servono, comincerebbe a fabbricarle, per risparmiare, dapprima senza zampe, poi senza schienale, poi prenderebbe un sasso e lo dichiarerebbe sedia, poi un ramo secco, o una bottiglia, e infine lascerebbe perdere il problema sedie, non ci penserebbe più. E’ anche possibile che finisca col sentire un certo fastidio di fronte a una sedia vera”.
Ma, prosegue, “il resto della gente seguiterebbe a servirsi delle sedie pre-esistenti”. Meglio di così, non saprei come.
(Wilcock si trasferì in Italia dall’Argentina nel 1957 e scrisse in italiano tutti i suoi libri successivi. Scrisse su molti giornali e celebri sono le sue recensioni di spettacoli che non aveva visto e di libri che non aveva letto. Chiese la cittadinanza nel 1975 e gli fu concessa nel 1979, un anno dopo la morte. Nemmeno quando vengono da noi li sappiamo riconoscere).