Ne cito provocatoriamente solo uno per tutti:
«Dobbiamo essere grati a Mandela perché ha segnato come pochi la storia del secolo scorso con il coraggio e la determinazione delle persone libere e con la forza della non violenza» (Matteo Renzi)
Ma potrebbe essere Obama, Cameron, Letta o chiunque altro in questi giorni.
Nonviolenza? Ma che cazzo dite?
Delle due l’una: o celebriamo una persona, tutta intera, o celebriamo una figurina, da attaccare nel grande album dell’irrealtà.
Non che Mandela non abbia meriti grandissimi, sia chiaro: prima di tutto si fece ventisette anni in carcere a causa di un regime allucinante, poi ricompose un paese disastrato, gestì una transizione difficilissima inventandosi la Commissione per la Riconciliazione – che era una cosa serissima, non una fandonia all’italiana per far scendere il sipario – e, tutto sommato, con la sua presidenza riuscì a portare il Sudafrica fuori da un pelago alquanto pericoloso.
Ma Mandela era un duro, ai tempi girava con un pistolone lungo tanto e non era certo uno che ci pensava due volte.
Quando nel 1961 contribuì a fondare l’MK, l’ala militare dell’ANC, sostenne con forza l’istituzione di campi militari di addestramento alla guerriglia e al sabotaggio, perché in certe situazioni la lotta dev’essere lotta (anche) fisica. Quando gli offrirono, decenni dopo, la possibilità di uscire dal carcere in cambio della rinuncia alla lotta armata lui rispose: «le belle balle» (più o meno, non tutti gli storici sono concordi sulla citazione). Di sicuro, proponeva azioni «tra l’incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata», sempre lui nel 1980.
Ora: senza entrare nemmeno nel merito della cosa, lotta armata piuttosto che azione politica, ognuno si gestisca le proprie preferenze (io andai a Soweto sull’onda dell’entusiasmo del tempo, quindi sono partecipe), è un fatto che dalla metà degli anni Ottanta Mandela rappresenta un simbolo e come tale è celebrato a prescindere dalla concatenazione di avvenimenti reali e senza tenere conto delle situazioni effettive, che come sempre sono un pochino più complesse delle semplificazioni celebrative. Va bene così, basta esserne coscienti, stiamo celebrando un concetto che chiamiamo «Mandela» così come potremmo celebrare – o celebriamo già – Gesù, Goldrake, Kennedy, Madre Teresa di Calcutta, Gandhi, Johnny Appleseed, Lincoln, Machiavelli, Cattaneo e così via. Nessuno se ne abbia, sono tutte figure attualmente mitologiche che poco hanno a che vedere con delle persone reali. Probabilmente è opportuno rivelare un paio di segreti a questo proposito: Gandhi era un tipetto davvero aggressivo e Madre Teresa di Calcutta aveva la stessa idea di carità di un predicatore televisivo americano con tre cadillacs nella rimessa.
A questo punto, date le premesse, vorrei celebrare anche de Klerk che, più di Mandela e di chiunque altro, contribuì fattivamente alla caduta del regime dell’apartheid, legalizzando l’ANC, il SACP, il PAC, aprendo i negoziati e terminando la segregazione. Il tutto contro i propri interessi di afrikaans e di leader di partito, aveva solo da perdere e così fu, in termini di potere, di status ed elettorali. Ma lo fece lo stesso, si guadagnò il nobel in coabitazione con il simbolo contrapposto, Mandela appunto, e lasciò libero il campo quando fu travolto dalle elezioni libere del 1994, come aveva facilmente previsto e com’era ovvio. E sono del tutto condivisibili le sue critiche recenti allo stato di cose attuale in Sudafrica, retto da un ANC devastato da criminali, imbecilli, incapaci di cui Zuma è il più cane di tutti (già ne dissi, qui e qui).
Viva Mandela, dunque, ovvero Nelson Rolihlahla Mandela, la persona e non la figurina, cui sono grato, e molto, ma non per le ragioni di Renzi e compagnia bella. Ci dedico allora, a lui e de Klerk, una canzone che ha segnato il mio essere pischello – nel 1984 fu il primo quarantacinque giri che mi comprai nella mia vita – Scatterlings of Africa di Johnny Clegg & Savuka: