Tomaso Montanari, oltre alle indubbie qualità come critico e storico dell’arte, ha un grande pregio: dice le cose senza ipocrisia. L’aveva già fatto con Luzzatto e il suo indegno libro (ne ho detto qualcosa qui) e molte altre volte. Stavolta, unico o quasi nel panorama giornalistico italiano infido e codardo, ha scritto un articolo su Giampaolo Pansa e su quanto scritto in occasione della sua morte.
Siccome, è facile prevederlo, adesso salirà l’ira scomposta dei destrorsi sostenitori della parificazione tra fascismo e antifascismo e i morti di tutte le parti, riporto l’intero articolo qui prima che qualche solerte redattore cagasotto lo renda irreperibile.
Pansa, la sconcertante santificazione di un falsario
di Tomaso Montanari
La santificazione a testate unificate di Giampaolo Pansa lascia sconcertati.
È naturalmente comprensibile il lutto degli amici e degli ammiratori, così come è lodevole la gratitudine dei più giovani giornalisti che ripensano ai loro debiti verso quello che fu, fino a un punto preciso della sua vita, un maestro del nostro italianissimo giornalismo. Ma il silenzio sulla scelta revisionista di Pansa (una scelta che assorbe, portandolo di male in peggio, quasi gli ultimi vent’anni della sua vita), o peggio i tentativi di liquidarla con accenni a un suo gusto per le questioni «controverse», al suo essere «bastian contrario» o «sempre contro», sono invece inaccettabili. E nemmeno il combinato disposto dell’intollerabile ipocrisia italica e borghese del «de mortuis nihil nisi bonum» e del corporativismo giornalistico possono giustificare questa corale opera di depistaggio.
È esattamente questa coltre di silenzio che obbliga a prendere la parola proprio ora, a caldo: perché ci sia almeno qualche voce che contraddica la canonizzazione, e instilli dubbi proprio nel momento in cui il nuovo santo viene innalzato sugli altari, a riflettori ancora accesi.
E il punto non è solo che Pansa è stato uno dei più efficaci autori dell’equiparazione sostanziale fascismo-antifascismo, cioè uno dei responsabili culturali della deriva che conduce allo sdoganamento dello schieramento che va da Fratelli d’Italia alla Lega di Salvini, passando per Casa Pound. Già, perché con Pansa, «la pubblicistica fascista sulla “guerra civile” italiana e la sterminata memorialistica dei reduci di Salò, che per un cinquantennio non erano riusciti a incrociare la strada del grande pubblico per la loro inconsistenza storiografica, hanno trovato un megafono di successo, uno sbocco nella grande editoria e nel grande schermo» (http://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2017/06/Zap-39_14-StoriaAlLavoro2.pdf). E i fascisti ringraziarono, come fece per esempio il leader di Forza Nuova Roberto Fiore, parlando in tv nel 2008: «in generale l’Italia sta cambiando e sta iniziando a valutare quel periodo in modo più sereno. C’è stato un Pansa di mezzo in questi due anni. C’è stato un sano “revisionismo storico”».
Basterebbe questo a renderne la memoria esecrabile: almeno per chi crede davvero nei valori della nostra Costituzione. Ma se almeno la qualità giornalistica del lavoro di Pansa fosse indiscutibile, potrei faticosamente arrivare a comprendere (mai ad accettare, né tantomeno ad approvare) la celebrazione corporativa della grande firma. È quello che avvenne per la Fallaci: e se trovo mostruoso che le si dedichino vie o strade, perché oggi sarebbe condannata per istigazione all’odio razziale, posso capire che le si riconoscano qualità di scrittura e di inchiesta (che personalmente, tuttavia, giudico al contrario assai modeste).
Ma i peana per il giornalismo di Pansa rivelano in chi li eleva una ben curiosa idea di giornalismo. Il punto, infatti, è che i libri di Pansa dal 2003 (l’anno in cui esce il Sangue dei vinti) consistono in una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti che mira a costruire, nella percezione del pubblico, un sostanziale falso storico. Pansa era stato uno storico: si era laureato in storia con uno dei migliori storici della Resistenza, e aveva praticato egli stesso la ricerca storica con ottimi risultati. Ma quando decise di ribaltare il tavolo e sostenere le tesi opposte a quelle in cui aveva sempre creduto – quando, cioè, decide di costruire l’apologia di chi uccise e morì per la Repubblica di Salò – non adottò il metodo storico, ma scrisse una serie di testi narrativi in cui la memorialistica e il romanzo sfumano l’una nell’altro. Una affabulazione senza nessun apparato di documenti e di note: e dunque inverificabile per il lettore.
Sono testi, i suoi, che non hanno nulla a che fare con la storiografia: ma nemmeno col giornalismo, per quanto estesa possa essere l’idea di quest’ultimo. Perché sono testi in cui è inutile chiedersi se le cose narrate siano vere o meno: ed è inutile perché è impossibile rispondere. Ciò nonostante, moltissimi storici professionisti (a partire da Giovanni De Luna) hanno chiarito in molte occasioni (si leggano per esempio questo e questo) come si tratti di testi privi di qualunque valore cognitivo, irti di coscienti omissioni, falsificazioni, disonestà intellettuali di ogni tipo. Carta straccia che racconta una storia falsa: fiction ideologica, dalla parte dei fascisti.
Nonostante questo – e con un metodo ben calcolato – l’abilissimo Pansa e un’ampia corte di giornalisti (quelli fascisti, quelli di destra, quelli che semplicemente non leggevano nulla e quelli troppo ignoranti per porsi il problema) a ogni uscita di libro hanno trasformato la percezione di quei romanzi nel racconto di una nuova storiografia di riscoperta, di revisione, di rovesciamento della verità stabilità dai vincitori antifascisti. Cosicché, nel discorso pubblico, Pansa oggi non è (come dovrebbe) l’autore di romanzetti curiosamente filofascisti, ma è il giornalista antifascista che ha svelato – dimostrando la coraggiosa capacità di andar contro ‘la sua parte’ – il lato oscuro della Resistenza. Una clamorosa distorsione della verità: una lunghissima, perversa ambiguità che non solo ha eroso, di libro in libro, il consenso alla Repubblica antifascista, ma che contestualmente ha mandato in vacca ogni idea di giornalismo, ledendo programmaticamente il primo essenziale patto che lega chi scrive e chi legge, perché «la prima cosa che chiediamo a uno scrittore è che non dica bugie» (George Orwell).
Una risposta efficace era quella di Giorgio Bocca, un giornalista che aveva eguale udienza presso i media, e che definiva Pansa, semplicemente, «un falsario».
Invece, contro questa mistificazione gli storici veri hanno avuto più difficoltà a rispondere: perché come disse (con straordinario cinismo) lo stesso Pansa allo storico Angelo D’Orsi, che lo rimproverava di non mettere nessuna nota nei suoi libri: «Tu vendi 2.000 copie e io 400.000… vuoi anche le note?». La stessa situazione, a me ben nota, in cui si trova lo storico dell’arte che voglia smontare le bufale di Dan Brown su Leonardo, o anche solo l’ennesima attribuzione farlocca a Caravaggio sparata in prima pagina dal redattore orbo di turno.
Come si possa salutare oggi, dando fiato senza risparmio a tutte le trombe della retorica, un ‘maestro di giornalismo’ è veramente un mistero doloroso del rosario di fake news, falsi storici, manipolazioni o semplici sciocchezze che si snocciola ogni santo giorno sui media italiani. Per fortuna, in queste ore non sono mancate lucide voci contro: per esempio quelle del collettivo Nicoletta Bourbaki, rilanciate dai Wu Ming, o quella di Luca Casarotti su Jacobin Italia. Ma sulla carta stampata non si è trovato davvero nessun antidoto (salvo un timido cenno sul Manifesto): e non per caso anche queste righe non appaiono su un giornale, ma su un sito felicemente eretico.
La triste morale è che è inutile, ipocrita, e in ultima analisi intollerabile, inondarci di retorica sull’insegnamento della storia nelle scuole e difendere sdegnati la libertà di stampa e i giornali indipendenti, se poi è la nostra idea di giornalismo (e dunque di democrazia) a esser così gracile, ipocrita, superficiale.
(15 gennaio 2020)