Ennemilionesima autocertificazione, tocca andare alla stampante, perché oltre che compilata deve essere pure autocertificazione cartacea. Ma la stampante sta dove deve stare, in ufficio. Quindi, uscire di casa con modello antiquato di autocertificazione, recarsi in ufficio senza una comprovata necessità lavorativa – il paradosso si involve – scaricare l’apposito modulo, compilarlo nella parte anagrafica, stamparne diverse copie per ogni evenienza, mettere nel pacco di carta usata tutte le autocertificazioni precedenti. Lo faccio. Una volta fatta, sono in regola. Ma fino a quando? Forse domani, se va benissimo dopodomani, ma magari già ora potrei non esserlo, in una spirale kafkiana senza uscita in cui la burocrazia deforma la realtà.
Mi guardo intorno: l’ufficio è stato abbandonato abbastanza in fretta, chi prima e chi dopo ma tutto sommato abbastanza rapidamente. Ci sono parecchi computer accesi perché il telelavoro (lavoro agile, smart working ormai) organizzato al volo richiede di poter usare le risorse del pc principale con quello, secondario, di casa. Chissà gli alimentatori per quanto dovranno reggere, bella domanda. E poi? Poi il riscaldamento, perdio, per fortuna qualcuno me lo ricorda via messaggio: spegnere. Giusto, cambia la stagione e poi anche quello chissà per quanto sarebbe rimasto acceso. Le piante, oddio le piante. Le trovo boccheggianti, nessuno ci ha pensato e, comunque, non c’era modo. Se sull’autocertificazione scrivessi ‘innaffiare le piante in ufficio’ come motivazione di necessità come la prenderebbero? Eppure…
C’è un sacco di gente al lavoro nei negozi di fronte e negli uffici a fianco. Tutto questo non torna, nessuno è strategico e buona parte di essi, lavorando nel settore dei servizi informatici, potrebbero benissimo stare a casa a lavorare. Non parliamo del negozio di fronte, che vende, mmm, barbecue. Essenziale? Qualcuno ovviamente direbbe di sì ma c’è sempre qualcuno che direbbe qualcosa. Che poi… chi va a comprare un barbecue in questo periodo? Salve, signor poliziotto, guardi, sono in regola, è una necessità, sto andando a vedere i barbecue per quest’estate. Oh, beh, certo, vada pure.
Questo microscopico spaccato di vita esterna mi conferma due cose: la prima, che c’è un sacco di gente che non sta in casa; la seconda, che c’è un sacco di gente che, pur non potendo, continua a lavorare. Poiché siamo nella provincia più colpita dai contagi la cosa assume una certa rilevanza. Ma pur di guadagnare due lire e, ovviamente, fregandosene di tutto il contesto, molti non chiudono, rallentando quindi tutto il processo di contenimento del contagio. Cosa che, oltre a fare incazzare me, farà perdere anche più soldi a loro stessi ma, evidentemente, non è l’unica cosa che non capiscono. Subire direttamente le conseguenze dei comportamenti altrui è davvero difficile. Accade anche in tempi normali ma, adesso, è davvero evidente.
I giorni precedenti:
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Vivere nel presente
Anche oggi sembrano confermarsi i primi segnali di miglioramento. Ovviamente vediamo gli effetti di quello che è stato il nostro comportamento fino a 14 giorni fa, e faremo bene a ricordarcelo, nel bene e nel male, quando si discuteranno nuove misure. E c’è da scommettere che il dibattito sarà ampio, a maggior ragione se – come si inizia a sussurrare – tra una settimana potrebbe essere raggiunto e superato il picco epidemiologico.
Nel frattempo, però, si tratta di far passare il tempo, con giornate che tendono a replicarsi molto simili l’una all’altra. Per me non è mai stata un problema, la “noia”. E anche adesso non lo è particolarmente. Inoltre l’isolamento e la ripetitività, di per sé, non mi dispiacciono e in passato ho praticato entrambi per periodi di tempo anche più lunghi di quello finora sperimentato causa Covid.
Nondimeno… nondimeno oggi quello che manca, rispetto alle esperienze passate, è l’orizzonte temporale predefinito. Si può decidere di restare in un eremo un mese, un anno o anche tutta la vita, ma è proprio il termine che conferisce senso all’esperienza, positiva o negativa che essa sia. Sono esistite ed esistono legislazioni penali assai crudeli, ma nessuna mi risulta abbia mai concepito una pena di durata non nota al reo: l’ergastolo o la sedia elettrica vanno ancora bene, ma condannato “a non si sa quanto” non si può.
Noi ovviamente non siamo in carcere (anche se via via che si susseguono le ordinanze qualcuno che pensa a limitazioni della libertà personale, oltre che a quella di circolazione, inizia ad esserci), eppure il non sapere quanto durerà questo stato di cose finisce psicologicamente per pesare. Cosa possiamo fare per dare un senso al nostro tempo? Quale progettualità esprimere se non abbiamo un termine per i nostri “arresti domiciliari”?
Qualcuno osserverà che anche con la vita tout court è lo stesso, visto che non ne conosciamo la data di scadenza, il che di solito non ci impedisce di fare dei programmi e di porci degli obiettivi di medio e lungo termine. Tutto vero, con la differenza però che affrontare la vita come se essa non dovesse finire mai, oltre a facilitarci una certa progettualità, è una illusione per molti versi rassicurante; fingere che la nostra situazione attuale sia destinata a protrarsi indefinitamente, viceversa, oltre a essere decisamente poco plausibile, è opzione che istintivamente respingiamo in quanto gravida di sicuri scompensi emotivi.
E quindi?
Credo che la soluzione sia necessariamente da ritrovarsi nell’anello che congiunge normalità (la vita “normale”) ed eccezionalità (la parentesi Covid), vale a dire un equilibrio tra il nostro passato (che è certo) e il nostro futuro (che è strutturalmente incerto, o per lo meno noi lo percepiamo così). Si tratta, in altre parole, di imparare a vivere il presente, senza divenire (troppo) schiavi né del passato, né del futuro.
Non è certamente cosa nuova, tantomeno cosa così semplice, a maggior ragione in un momento in cui tutto parrebbe congiurare per distrarci, per toglierci concentrazione, per proiettare la nostra mente indietro o in avanti nel tempo. Eppure, se non ora quando?