Ecco, l’ora legale: è sempre stata una gioia, una festa per gli occhi, sette mesi di luce in più e fin dal giorno dopo ogni attività si è prolungata verso la sera, che so?, camminare in collina o giocare all’agricoltura o stare fuori, in generale. Ecco, ora no. Stavolta no. Succede uguale, viene buio più tardi ma il pensiero, non solo mio da quanto vedo, è stato: oh, quand’è-che-viene-buio? Perché non poterselo godere è peggio che non averlo. Come, direi, ogni cosa. Straziantella, a pensarci.
I dati sono in timida discesa e la cosa è rassicurante, sia dal punto di vista concreto – i malati – sia dal punto di vista dei reclusi, lo sforzo ha significato. Bene. Naturalmente non se ne parla di allentare le misure, mi pare giusto, ancor più visto che tra due settimane è pasqua e sarebbe un delirio di gente in giro con salame e uova a fare i contagi di pasquetta. Qualcuno ora dice fine aprile, qualcuno dice maggio, ipotesi, è troppo difficile fare previsioni su una situazione come quella attuale, per vari motivi: prima di tutto non esistono situazioni di riferimento dalle quali trarre conclusioni attendibili; in secondo luogo, la diffusione di una pandemia è dovuta all’intreccio di un numero così alto di fattori complessi da essere difficilmente dipanabile mentre accade. Cominciano però a circolare alcune indicazioni su cosa avverrà dopo e le riporto qui, quelle plausibili, per fare un confronto quando saranno accadute: si ipotizza una ripresa graduale, sia per età che per attività, il tutto punteggiato da test a tappeto e mascherina in ogni momento. Qualcuno, poi, si spinge oltre: uno scenario credibile ipotizza che a una riapertura graduale seguirà poi una ripresa delle restrizioni, magari non tutte, non appena il contagio ricomincerà a crescere (aeroporti e stazioni chiuse, parchi, cinema etc. chiusi, ristoranti e comportamenti sociali contingentati e così via). Attraverseremmo, quindi, diversi cicli di misure contenitive prima di raggiungere o la cosiddetta «immunità di gregge» attraverso i contagi graduali o attraverso la vaccinazione massiva della popolazione. In entrambi i casi, ci vuole tempo. Infatti, queste misure non possono portare a zero i contagi ma servono a proteggere i soggetti più deboli e a dare il tempo alle strutture sanitarie di curarli come si deve. La sfida, a questo punto, sarà trovare un punto di equilibrio tra questa esigenza e le esigenze lavorative ed economiche del paese, ed è per questo che già, in Italia, si fa un gran parlare di chi guiderà il paese in questa seconda fase. Danno tutti per escluso Conte, al momento, e il nome sugli scudi è quello di Draghi. Plausibile, vista l’esperienza specifica, io l’ho detto nell’autunno 2018, in tempi evidentemente insospettabili. Ci sono fattori, però, – tornando ai possibili scenari – che non conosciamo, per esempio se con il caldo il contagio possa recedere o meno, se per esempio alcune strategie come la localizzazione, i test a tappeto, il tracciamento dei contatti possano in qualche modo evitare il ritorno a forme di quarantena diffusa. Poi c’è il fattore farmacologico, ovvero che oggi non possediamo dei medicinali specifici ma qualora saltasse fuori un rimedio efficace, o una combinazione di rimedi già esistenti, allora la situazione potrebbe cambiare favorevolmente. Anche le ormai comprese modalità igieniche e di distanza sociale potrebbero aiutare a non ricadere in forme di isolamento così forti, difficile dirlo. Ma l’ipotesi di cicli di contenimento al momento pare la più probabile. La Corea del sud, memore delle esperienze di SARS e MERS, ha invece fatto scelte diverse e durevoli nel tempo, forniture costanti di dispositivi di sicurezza personale e aziendale, comportamenti diffusi, strutture sanitarie pronte all’evenienza e così via, ma è pur vero che il modello non è del tutto esportabile in Occidente, poiché in Corea il controllo statale è davvero ferreo.
Cosa ci aspetta? Vedremo. Nel frattempo, quand’è-che-viene-buio?
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“Ai tempi del coronavirus”
L’espressione “ai tempi del coronavirus” è rapidamente diventata uno dei tormentoni di questo periodo. Non c’è articolo, intervento, post, video o comunicazione via chat in cui non compaia questa immancabile dicitura.
Ammetto: l’ho utilizzata anch’io, una volta. Però in tempi meno sospetti (correva il 23 febbraio) e con sfumatura scherzosa (pensavo al libro di Márquez – ovviamente – e nessuno immaginava il casino che sarebbe poi scoppiato anche qui). Adesso, dopo quel che è successo e sta succedendo, la formula si è come imbalsamata, divenendo una clausola di stile enfatica, logora e molesta quasi quanto il “2.0”.
Sono sempre rimasto colpito da come una buona parte delle persone si nutra passivamente della ripetitività di bassa lega. Anche una trovata divertente, dopo due o tre volte che la sento, solitamente viene a noia, direi. Sbagliando, perché pubblicità e propaganda insegnano come la cosa più importante sia il martellamento, la reiterazione ossessiva. Del resto, se qualcosa – un’espressione, un atteggiamento, un modo di dire o di pensare etc. – diventa quel che si dice un “luogo comune”, il motivo è proprio quello.
E allora avanti con l’economia, l’amore, la comunicazione, l’arte, l’aperitivo, i viaggi “ai tempi del coronavirus”, con tanto di foto divertenti di spiegazione/accompagnamento. Non è difficile prevedere anche un discreto torrente di contributi scientifici con amene quanto divertenti variazioni sul tema.
La cosa per me singolare è riscontrare come ci sia una sorta di compiacimento infantile nell’omologarsi e nel ripetere a macchinetta prodotti evidentemente “industriali” come slogan e frasi fatte. Ma perché?
In fondo, le parole – quelle che pronunciamo, ma anche solo quelle che pensiamo, con le quali pensiamo – sono importanti e nutrirsene a caso, in modo passivo, è una cattiva alimentazione per la nostra salute mentale. E mantenere una mens sana (sul corpus sanum mi riservo magari una riflessione autonoma) dovrebbe essere un obiettivo non da poco in un momento come quello attuale.
Lo so. Se fossi più intelligente, dovrei stupirmi del mio stupore. La critica, come la profilassi, costa fatica e proprio lo stress porta rapidamente a semplificare, a delegare anche e soprattutto il pensiero. Ma in questi casi l’indisponibilità ad accettare una prospettiva tanto disturbante si camuffa da incapacità di comprenderla.