In Italia lo slogan che si è affermato per la quarantena è stato, si sa, «Io resto a casa», persino il decreto del 9 marzo si è intitolato comunemente «#IoRestoaCasa», figuriamoci l’hashtag (gesto esplicativo con le quattro dita incrociate). Nel mondo anglosassone, invece, questo: «Stay Home. Save Lives.». Una certa differenza c’è. Non che io voglia da questo dare chissà quale lettura sociologica da sottoscala, però qualcosina, -ina, vorrà pur dire che da noi manca proprio la seconda parte che si riferisce al collettivo. O no? Secondo me sì, qualcosa significa. Perché l’invito a stare a casa trova davvero compimento con l’idea che se non lo fai per te, almeno lo fai per salvare vite altrui. Anche di più: non c’è l’«io» (volutamente minuscolo), non c’è l’individuo nello slogan anglosassone, ci sono due imperativi molto chiari, da noi è davvero diverso. Beh, a me il collettivo piace di più, ancora una volta.
La Regione Lombardia fa un altro casino – lo so, sembra che io ce l’abbia con loro ma non è così, fanno tutto da soli – e proclama che offrirà mascherine gratis per i cittadini. Bravi, come la Toscana e molti comuni nel paese. Però poi precisano che non sono ancora disponibili e a quel punto è tardi: le farmacie sono già state prese d’assalto e si trovano, come se già non ne avessero, a spiegare che no, non ci sono. Quando arriveranno? Non lo sa nemmeno la Regione, questo è ancor più bello. Io dico: ma un minimo di buon senso nella comunicazione – vedi anche INPS settimana scorsa – per intuire, non dico sapere, che stai per creare un pandemonio, lo vuoi avere? No, evidentemente no. Poi la Regione precisa pure che le mascherine saranno tre milioni. Devono aver travisato ciò che ha fatto la Regione Toscana, consegnando tre mascherine a ogni cittadino: qui c’è una mascherina ogni tre abitanti, dato che siamo nove milioni. Quindi io posso averla il lunedì, il giovedì e la domenica, se sono fortunato. Speriamo che gli altri due comproprietari della mia mascherina vivano almeno nella mia stessa città e, soprattutto, non siano asintomatici.
Oggi, e ieri, faccio fatica. Sono cicli, lo so anch’io, in alcuni periodi va meglio, più piana, in altri la reclusione pesa di più. Ora pesa di più. Non provo alcuna noia, mai provata nella mia vita, ho anzi fin troppa roba da fare, tra cui finire una poderosissima pleilista di canzoni degli anni Novanta che consiglio a chi apprezza il genere (si trova su Spozzifai, «90s (Nineties): almost everything»), nessuno l’ha fatta così grossa. Faccio fatica, dicevo, perché non posso fare alcune cose che sono essenziali per il mio equilibrio e che portano bellezza e meraviglia nella mia esistenza. Lo so, capita a tutti, ma i tutti non sono nella mia testa e devo invece conviverci io con me stesso. In generale, invece mi manca qualcuno che dia il ritmo, che dia prospettiva, che si atteggi a figura che ha ben compreso le cose e che tiene salde le redini. Ho detto atteggi, mi accontento di quello, non deve saperlo per davvero, mi basta sia convincente. Perché essere nelle mani di Fontana non mi piace: non ho timore, mi dà proprio fastidio. Perché se proprio devo essere nelle mani di qualcuno, e già la cosa non mi piace, vorrei fosse una persona di grande capacità e preparazione. Non un leghista d’accatto.
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No Country for Old Men
Parlando oggi al telefono con mia madre, ho formulato in parole una considerazione che da un po’ stavo lasciando sedimentare: “per fortuna che, in questo casino, non c’è la nonna I.”. La mia ultima nonna, infatti, è venuta a mancare lo scorso anno e – come molte persone anziane – aveva una spiccata sensibilità per le cattive notizie, particolarmente per tutto ciò che poteva compromettere la salute (più degli altri che la propria, a dire il vero). Immaginarla alle prese con l’atmosfera che circonda il covid non sarebbe stato sicuramente un bello spettacolo. Il mio rilievo, dunque, oltre che timidamente autoconsolatorio, è stato anche abbastanza ovvio.
Con la sua ovvietà, tuttavia, evidenzia un aspetto che nella mia esperienza di questo periodo già è presente e vorrei dire quasi intrinseco, ma al tempo stesso finora non del tutto (da me) compreso nella sua complessità culturale e psicologica. Parlo del modo diverso col quale il covid si ripercuote sulle differenti generazioni, anche a seconda del fatto che esse abbiano o meno contatti frequenti con generazioni diverse dalla loro.
Il tema ovviamente non è nuovo: gli “anziani” (anche qui, con i dovuti distinguo) sono più esposti alle conseguenze del contagio e rischiano la pelle più dei “giovani”, sia per il decorso spontaneo della malattia, sia per l’eventuale “concorrenza” all’interno degli ospedali (dove in situazioni limite, purtroppo non rare in questo momento, si preferisce intubare chi ha più chance di potersela cavare).
Questa è anche la ragione per cui alcuni giovani, a partire dai figli e dai nipoti, stanno provando, in questa fase, ad evitare il più possibile che gli anziani si espongano inutilmente. Ma è anche la ragione per cui alcuni giovani non si sentono particolarmente toccati dal problema covid – vuoi perché non hanno contatti con le generazioni più anziane, vuoi perché hanno contatti ma non se ne curano – e interpretano in modo lasco norme giuridiche e raccomandazioni epidemiologiche. Cosa che, peraltro, fanno talora anche gli stessi anziani perché magari tali non si sentono oppure perché sono ormai abituati a fare di testa loro e non hanno né la flessibilità, né tantomeno la voglia di adattarsi alla situazione.
Fin qui, tutte cose risapute. A partire da questi elementi, però, si diramano riflessioni non ovvie. Anzitutto, quale responsabilità hanno (se ce l’hanno) i giovani rispetto agli anziani? Brutalmente, è lecito (e, se sì, è opportuno) obbligare tutta la popolazione a un certo comportamento per tutelarne in via prioritaria una fetta significativa ma tutto sommato minoritaria? E in questo caso, specularmente, quale responsabilità, quali corrispettivi doveri avrebbero (se dovessero averne) gli anziani rispetto ai giovani? Anche qui, per esemplificare, potrebbero essere adottate delle misure più restrittive nei loro confronti in ragione della loro maggior esposizione al rischio?
Si è discusso molto negli ultimi anni – parlando ad esempio di ambiente, inquinamento, esaurimento delle risorse – di responsabilità rispetto alle generazioni future e spesso il discorso ha assunto colorazioni un po’ vaghe, ipotetiche, tutto sommato facilmente eludibili da parte di chi non proietti il proprio orizzonte al di là della sua esistenza. Il covid attualizza questo problema e lascia meno spazio all’indifferenza, o per lo meno la rende più drammatica: esiste davvero un patto di solidarietà intergenerazionale e che contenuto ha?