Ecco, il fatidico trenta. Soglia psicologica perché tonda, ovvio che non cambi nulla, ma dire: «trenta» e pensarci, un mese, far scorrere i giorni in fila fa un sacco di tempo. Trenta, tanti, troppi, trenta giorni chiusi in casa. Ovviamente, mentre si lavora i trenta giorni passano via in un soffio, ma se qualcuno avesse detto: «adesso starete in casa per trenta giorni» l’impegno sarebbe stato enorme, insostenibile. E cosa ci sarebbe stato, nei miei trenta giorni, oltre a tutte le attività volatili perse? Il concerto di Pollini all’auditorium di Roma questa sera, per esempio. Puf. E quello di Capossela a fine febbraio a Mantova, andato. Poi svariate partite di basket, da abbonamento, e quella dell’Olimpia in coppa al Forum il dodici, speranza di buona pallacanestro. Niente anche quelle. E poi una tre giorni a Vilnius dal nove al dodici marzo, per non dire dei cinque giorni a Berlino dal diciassette, tutti viaggi già dotati di biglietto aereo. Vabbè, trenta giorni. Ma, alla fine, stare a casa è meglio, vuoi mettere le scomodità del viaggio? E poi, come commentavamo col mio compagno di concerto di stasera, alla fine Pollini lo senti molto meglio su cd sul divano, così lui non sbaglia e io mi posso stravaccare. Molto meglio a casa, bastava pensarci.
EPA/NARENDRA SHRESTHA
Si delinea sempre di più il disastro sanitario in Regione Lombardia e pare del tutto evidente, oramai, che la favola del «sistema sanitario migliore d’Europa/del mondo» sia, appunto, una favola. Che ci raccontiamo da soli, per di più. Ormai cominciano a essere parecchie le rilevazioni in senso contrario, di ieri quella della Federazione regionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fromceo) che individua almeno sette macro-errori compiuti dalla Regione nella gestione della pandemia: «mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia», «incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio», «mancata fornitura di protezioni individuali ai medici del territorio», «pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica», «mancata esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari del territorio», in sostanza, ed è la più grave, «mancato governo del territorio». Per dirne alcuni. E solo per quanto riguarda la gestione, perché poi c’è la valutazione degli interventi fatti nel passato, sotto l’infinito governo Formigoni, con i quali sono state smantellate le ASL, il braccio sanitario operativo, trasformate in Ats (Agenzie di tutela della salute), cioè agenzie di controllo burocratico e amministrativo. Ma tutta la sanità regionale, in sostanza, in parte privatizzata nei settori lucrativi e smantellata nella struttura. E non è una scoperta di oggi, è dalla metà degli anni Novanta che sento ripetere da chi è competente nel settore che le politiche di destra stavano distruggendo irreparabilmente il sistema. Questo, oggi, si tramuta in morti. Morti veri, non sulla carta. E, allora, si spiega ancor meglio il tentativo di Salvini e della Lega di tre giorni fa di far passare un salvacondotto per gli amministratori regionali.
Temo che, ancora una volta, questo non si tramuterà in nulla.
I giorni precedenti:
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Verso la “fase 2”
Solito balletto dei dati (ormai viene sempre enfatizzato quello positivo, anche se parrebbe sempre diverso dai giorni precedenti), ma il trend verso il miglioramento parrebbe finalmente essere abbastanza costante. Ottima cosa, ma adesso?
Ovviamente c’è già un gran parlare della cosiddetta “fase 2”, ma le idee sono ancora parecchio vaghe, salvo in un punto: si tratterà di provare ad allentare la stretta sulle attività produttive (anche per provare a mitigare il disastro economico che ormai tutti pronosticano), non rispetto ai movimenti quotidiani dei singoli. Meglio così, anche perché se si deve sperimentare, è meglio farlo per gradi e in modo controllato. E qui però rischia anche di cascare l’asino.
C’è infatti da augurarsi che le verifiche che finora hanno riguardato essenzialmente la “microcriminalità” delle passeggiate e delle chiacchiere occasionali per strada e ai parchi si riconvertano rapidamente in un altrettanto scrupoloso sui posti di lavoro (distanziamento, igiene, strumenti di sicurezza) e, eventualmente, anche del comportamento dei lavoratori al di fuori del posto di lavoro (perché se poi chi più esce più gira e incontra si ricomincia daccapo). Sarebbe davvero un errore pensare che tutto possa ritornare come prima e sarebbe imperdonabile rendersene conto dopo un altro paio di settimane, cosa che poi costringerebbe a ritornare al punto di partenza, con conseguenze pratiche e psicologiche che non vorrei neppure immaginare.
Se gestita bene, invece, questa prima riapertura di alcune attività produttive potrebbe essere il banco di prova per un nuovo protocollo “contenitivo” da adottare, in prospettiva e in mancanza di meglio, anche da parte del resto della popolazione. Ciò richiederà necessariamente una sinergia tra azioni pubbliche di normazione, formazione e monitoraggio da un lato e di impegno, spontanea osservanza e collaborazione da parte dei privati.
Detta così, in circostanze normali, avrei subito scritto: “non ce la faremo mai”. Nel contesto eccezionale in cui ci troviamo, la prognosi mi riesci più difficile, anche perché le incognite sono davvero tante: in che modo influiranno lo stress e la paura sul rispetto delle regole? La volontà di ripresa sarà accompagnata da quel minimo di intelligenza necessaria per evitare di sprofondare nell’egoismo isolato di azioni individuali o assisteremo ad una reiterazione senza fine del “dilemma del prigioniero”? Lo Stato riuscirà per una volta a far sentire nei fatti la sua autorevolezza, oltre che la sua autorità quando e nella misura in cui serva?
Mentre provo mentalmente a rispondere a queste domande – è più forte di me – subito scatta una musichetta patriottica che fa da sfondo musicale a un tricolore che sventola e sento una voce rassicurante che scandisce: “per un nuovo miracolo italiano”. Ecco, siam messi così.