Dopo il 31, abituati ai mesi, verrebbe l’uno, così si ricomincia, mese nuovo abitudini nuove. E invece no, ho cercato di non sbagliarmi con la numerazione di questo minidiario e oggi è 32: pare un controsenso ma non lo è. A proposito del minidiario, non l’ho detto finora: più di quindici anni di blog in rete nei quali non solo non ho mai detto il mio nome ma nemmeno la città (le città) dove ho vissuto e vivo, le cose che faccio, insomma per farla breve ho parlato molto raramente di me e ora, in questa situazione imprevedibile, mi ritrovo a doverlo fare, anche se in misura minima, tutti i giorni. È curioso, è pur vero che ho scelto io di farlo e dedicarmici perché so che in futuro mi sarà utile aver raccolto le impressioni giorno per giorno, per capire come da un punto A (un tizio a Codogno ma poi scopriremo che non è così, che si deve retrodatare la cosa di parecchio) a un punto C (che ancora non conosciamo) attraverso parecchi punti B (la quarantena, la chiusura della Lombardia prima e del paese poi) che prima parevano inimmaginabili. Per esempio, sono certo che tra qualche anno non ricorderemo esattamente come si passò, nell’inverno 2020, da una situazione di normalità, o quasi, alla chiusura dei confini regionali e all’impossibilità di muoversi all’interno del paese, sarà un ricordo indistinto, non preciso. Per questo serve scrivere le cose giorno per giorno, anche frettolosamente come sto facendo qui io. Mi si perdoni l’inverecondo accostamento, poi mi spiegherò meglio, ma ci ho pensato più volte: mi sono chiesto spesso, alzando gli occhi da un libro o in un museo o ai racconti sentiti qua e là, perché gli ebrei – lo so, mi si scusi, ma cerco di capire la dinamica – non siano scappati dalla Germania nazista non appena intuito il pericolo nel 1933? C’è chi lo fece, per carità, ma furono una minoranza. E gli altri? Perché non scapparono, visto che il pericolo era evidente?
Perché non se ne resero conto, mi sono sempre risposto. Una risposta teorica, generica senz’altro, è una conclusione e non un’osservazione diretta e, per questo, non l’ho trovata mai esaustiva perché non ne conosco i dettagli. Ovvero: come si può passare da una situazione di libertà a una di costrizione senza accorgersene o, quantomeno, senza prendere qualche contromisura utile come scappare o nascondersi? Ora lo so: perché, nonostante il precipitare degli eventi tutto attorno si ritiene impossibile che si arrivi a certe conclusioni. Mi spiego meglio: arriva la notizia dei contagi in Cina verso la fine dell’anno e noi tutti qui a pensare che tanto da noi non può succedere; poi i contagi compaiono in Thailandia, in Corea del Sud, Giappone e Australia e noi tutti qui idem; poi a febbraio il primo contagiato in Italia e noi tutti a pensare che vabbè, lo si ricovererà, lui e quanti saranno, e la cosa finirà lì; poi la situazione si allarga a Codogno tutta e noi tutti a pensare che si farà cordone e intanto facciamo un po’ di battute su quanta gente passi settimanalmente dal lodigiano; poi si istituisce la zona rossa, i treni non fermano più nelle stazioni, non si entra e non si esce più e noi tutti a pensare che è un focolaio e che verrà contenuto; poi c’è un secondo focolaio in Veneto e tutti noi qui pensiamo che è uno di Codogno che è andato là o viceversa ma comunque qua da noi, ovunque sia il qua, non può accadere. Questo nell’ultima settimana di febbraio.
Ecco, se a questo punto qualcuno avesse detto a me, o a tutti noi, che entro pochi giorni sarebbero state chiuse stabilmente scuole e università, cinema e teatri, stadi e ogni luogo di aggregazione, non ci avrei creduto. Mi vedo: figurati, non si può fermare il paese. Ed è esattamente quanto è accaduto il 4 marzo, pochi giorni dopo. Stessa cosa per il passaggio successivo: se mi avessero detto che sarebbero stati chiusi i confini regionali, facendo della Lombardia intera una zona rossa, l’avrei semplicemente ritenuto impossibile. È questa la chiave: impossibile. Non ho preso in considerazione qualsiasi ipotesi di muovermi prima – non so, andare in qualche altra parte d’Italia che al tempo avrei ritenuta migliore o più sicura – perché non ho ritenuto plausibile che si sarebbe mai arrivati a quel punto. Ricordo perfettamente come mi sono sentito la sera del 7: ero a cena al ristorante con un amico (al ristorante, oddio, pare una fantasia, ora) e abbiamo letto sui telefoni la notizia del lockdown. Mi sono sentito crollare, un misto di sentimenti di paura, incredulità e stordimento, mi sono chiesto rapidamente se avrei dovuto prendere qualche decisione immediata, poiché il decreto sarebbe entrato in vigore alcune ore più tardi, (il mio amico, per esempio, è saltato su un aereo per la Spagna la mattina dopo, per raggiungere la famiglia, ma per un pelo) e ho concluso che non avrebbe avuto senso. Ma, in qualche misura, a quel punto era già tardi. Eravamo passati in un istante dall’impossibile al possibile.
Oggi, riguardandomi indietro, potrei dire che c’erano tutti gli elementi per comprendere appieno e prevedere l’evoluzione degli eventi ma ora so che è una valutazione che si fa a posteriori. Allora non era possibile, non tanto per i fatti in sé, che erano e sono davanti agli occhi, quanto per una certa mia, e nostra, pervicacia nel negare l’evidenza, considerando non credibili alcuni esiti che poi si sono rivelati perfettamente commisurati alle premesse.
Ecco, ora – e mi si perdoni di nuovo l’accostamento – ho compreso come avvengono le cose: si ritengono impossibili (ancora una ripetizione ma non trovo un termine analogo di pari forza per esprimere il concetto) fino a un certo punto e poi è troppo tardi. Ecco cos’è successo in Germania all’avvento del nazismo e in mille altre situazioni della storia umana, ecco perché le persone non scappano o si mettono al sicuro, ecco perché si sta lì immobili a osservare la catena degli eventi senza prendere alcuna decisione. Perché, semplicemente, non ci si crede.
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Senno di prima, senno di poi
L’amico Trivigante ha ben còlto un elemento cruciale della vicenda covid che stiamo vivendo, soprattutto dei suoi inizi: l’incredulità rispetto al succedersi degli eventi, l’incapacità di prevederli e il non capacitarsi di come le cose potessero davvero essere così. Non era possibile ed invece è successo.
Il senso di stordimento iniziale che un po’ tutti abbiamo provato, in particolare nei primi giorni, era in buona parte anche una diretta conseguenza di ciò. Non abbiamo saputo comprendere, non abbiamo voluto vedere, e se le nostre facoltà di giudizio sono risultate nei fatti così offuscate, come possiamo pensare di capire ora? Non correremo il rischio di sbagliare ancora? Non staremo anche adesso sottovalutando il problema? O magari, all’opposto, non finiremo per sopravvalutare erroneamente la situazione attuale, col pericolo di generare ulteriori problemi per via di un’ansia ingiustificata? Che fare?
Sì, non avrei (e di fatto non ho) creduto che tutto questo sarebbe successo. Mi chiedo però: ho forse pensato che tutto questo fosse impossibile (nel senso forte, astratto del termine)? Oppure ho soltanto pensato che fosse (in concreto) molto improbabile? E, in questo secondo e più interessante caso (nel primo la risposta è ovvia), ho davvero sbagliato nel pensarla così?
Alla prima domanda, dal punto di vista personale, mi è facile rispondere. Ho infatti una certa idiosincrasia al rifiuto “pavloviano” che normalmente accompagna le ipotesi più estreme, in particolare quelle più sgradevoli. Quando sento frasi del genere “non esiste che si possa fermare la produzione industriale”, “è impossibile che l’umanità si estingua”, “non si può risolvere la questione dell’immigrazione tramite una guerra” e altre affermazioni simili a piacere, la mia reazione istintiva è chiedere subito: “e perché no?”.
Attenzione, in questo non c’è, da parte mia, alcuna volontà di aderire alla tesi (descrittiva) o alla proposta (operativa) della quale magari a buona ragione si dubita; c’è però la volontà di discuterla per davvero, e non di liquidarla con la più radicale, ma spesso anche la più semplicistica delle obiezioni: è impossibile. Certo, se un evento è impossibile per lo più è anche inutile parlarne, ma di solito non ci si confronta con affermazioni del tipo “il cerchio è un quadrato” oppure “il pianeta terra è esploso ieri”, ma con situazioni per concepire le quali non serve inventarsi geometrie non euclidee o scenari fantascientifici di aporie temporali. Mi sembra che basti ripercorrere anche superficialmente un po’ la storia – per dir così, dai dinosauri all’olocausto – perché poi risulti spontaneo chiedersi: perché no?
Tutto questo per dire che guardo sempre con diffidenza l’argomento dell’impossibilità, troppo spesso utilizzato per rimuovere dal nostro orizzonte tutto quello che ci spaventa, che inconsciamente vorremmo impossibile perché sappiamo che è possibile, e tuttavia non vogliamo affrontare.
Se è vero che non avrei dunque ritenuto lo scenario che stiamo vivendo impossibile, ammetto tranquillamente che non lo ritenevo minimamente probabile – che poi è quel che spesso comunemente s’intende quando viene utilizzato l’aggettivo “impossibile” (e che è anche l’uso che ne fa Trivigante): “impossibile”, dunque, come sinonimo di “implausibile” (per le tesi) o di “impraticabile” (per le proposte operative) non in astratto, ma in concreto, nelle specifiche circostanze date.
Ammettendo che, se non altro dal punto di vista statistico, ciò che a posteriori si verifica, a priori era (se non necessario, per lo meno) altamente probabile nelle condizioni date, acquista senso la domanda che ruota intorno alla nostra errata percezione di tale alta probabilità, che in questo caso abbiamo evidentemente (e grandemente) sottostimato.
Che tale percezione fosse oggettivamente erronea, insomma, mi pare evidente alla luce di quanto poi è successo. Lo era però anche dal punto di vista soggettivo, sulla base cioè dei dati allora a nostra disposizione e dalla nostra esperienza pregressa? In altre parole, quel che è risultato sbagliato col senno di poi, lo era anche col senno di prima? A questa domanda, quanto è successo di per sé non offre una risposta univoca.
Le nostre valutazioni, anche quando non siano affette da vizi logici, difficilmente si basano su dati tempestivi, sicuri, esaustivi e adeguatamente maneggiabili, e finiscono quindi spesso per appoggiarsi fortemente su esperienze (reputate) analoghe già vissute. Con ogni probabilità è proprio grazie a questo meccanismo inconscio e fortemente selettivo, peraltro, se evitiamo di impazzire scervellandoci senza fine su ogni questione.
Bene, cosa ci suggeriva la nostra esperienza pregressa con riferimento agli allarmi che in passato erano stati lanciati con riferimento alla influenza “suina” o alla SARS? Che alla fin fine non c’era tanto da preoccuparsi. Erano davvero situazioni che, dal punto di vista soggettivo, potevamo reputare significativamente diverse rispetto a quella attuale?
La mia risposta qui, se non altro per quanto mi riguarda, è ampiamente dubitativa, ma tende al no, quantomeno nella misura in mancavano (dati soggettivamente percepibili come) evidenze in tal senso.
A tacer d’altro, non conoscevo (e neppure ora conosco) le caratteristiche dei relativi virus, né la loro capacità di diffusione; non conoscevo (e neppure ora conosco) le differenze tra ieri e oggi in termini di rapporti commerciali, professionali e turistici tra la Cina e gli altri Stati, a partire dal nostro; non avevo ricevuto, da parte delle autorità pubbliche né da parte della maggioranza degli esperti (virologi, epidemiologi etc.) informazioni sufficienti e concordi nel ritenere il covid 19 così differente dai suoi (più o meno illustri predecessori) in ordine alla maggiore serietà e attualità della minaccia. Non sto dicendo che non in assoluto ci fossero elementi per intuire che le disanalogie erano più forti delle analogie. Sto dicendo che, mentre gli elementi di analogia erano chiari, quelli di disanalogia erano dispersi in un oceano di altri dati non facilmente governabile.
Col senno di poi, molto ci può meravigliare (e molto ci si può rammaricare) della nostra scarsa preveggenza; col senno di prima credo un po’ meno.