Arriva l’app per monitorare i contatti. Per farla brevissima, funziona così: con il bluetooth registra la vicinanza con altri dispositivi per un tempo sufficiente al contagio e se uno dei dispositivi incontrati, poi, risulta positivo, allora avvisa e segnala tutti coloro che sono entrati in contatto, tracciando una mappa ipotetica della trasmissione. Ora: l’installazione è ovviamente su base volontaria e ancor più volontaria è la decisione di dichiararsi positivi al contagio, qualora avvenga, e così far partire l’avviso a tutti i contatti precedenti e la segnalazione. Non me ne intendo di app sulle pandemie e tantomeno di comportamenti umani, ma ho il dubbio che venga un po’ da non dichiararsi apertamente in caso di positività. Lo facesse una persona terza, un medico, lo capirei di più. Inoltre, questo sistema nulla dice della fase di asintomaticità, ovvero la peggiore perché si diffonde il contagio in modo inconsapevole. Infine, un’app del genere non ha funzionato in Corea e lì, come dire?, era il posto migliore: ipertecnologici e iperconnessi. A questo punto della narrazione, direbbe un discente fresco fresco di scuola di scrittura creativa contemporanea, il frame successivo inquadra l’azienda incaricata di fornire l’app: sede in corso Como a Milano, giovani e smart, carini, di successo, cosa si vorrebbe di più? Nulla, a me drammaticamente vengono solo in mente Belèn e le olgettine e ho l’impressione che l’operazione app sia una di quelle cose che si fanno perché è meglio farle, non importa se poi serva a qualcosa o meno. Ma se vengo smentito son contento.
Nel frattempo, a proposito di monitoraggi, il CNR – ente un filino più serio – ha pubblicato online un questionario da compilare, nel tentativo anche qui di fare una panoramica sulla situazione. Mezzo balengo rispetto a un tampone, ovvio, ma in mancanza di altro almeno questo è uno strumento di analisi dai contenuti certificati, riconosciuti e condivisi a livello sanitario. Buffo che sia anonimo e poi, va detto: se vuoi, ti chiedono l’indirizzo mail per fasi successive di ricerca.
Riapertura. Bene. L’OMS, quei pignoli che stanno chissà dove, dicono che per pensare di riaprire anche timidamente un paese dal lockdown serve rispettare almeno sei condizioni. Vediamole rapidamente: uno, trasmissione del contagio controllata. Mmm. Due, il sistema sanitario dev’essere in grado di isolare ogni caso e rilevare ogni contatto. Vedi app qui sopra, domanda: questo vale anche per gli ospizi? Se sì, abbiamo un (altro) noioso problema. Il terzo punto – «i rischi di epidemia devono essere “ridotti al minimo in contesti speciali quali le strutture sanitarie e le case di cura”» – faremo sìsì con la testa e faremo finta di non averlo letto. Poi, quarto, misure preventive nei luoghi di lavoro, scuole etc. Eh, quello vedremo ora. Quinto, i rischi di importazione del contagio devono essere gestiti, immagino al momento sia il più praticabile. E, infine, sesto, lo cito: «le comunità devono essere pienamente istruite, impegnate e autorizzate ad adeguarsi alla ‘nuova norma’». Ecco, ehm, ma che brutto avverbio, ‘pienamente’. Abbastanzamente. Uhm, secondo me siamo a due su sei, a esser buoni. E a esser buoni buoni buoni nemmeno la sufficienza di un tre su sei.
Vado in una forneria/gastronomia a procacciarmi del cibo minimo, entro che siamo in due oltre ai fornai e in breve entrano altre tre persone, così siamo in cinque in uno spazio ristretto. È permesso, data la metratura come riporta il cartello in vetrina, ma mi accorgo che mi dà fastidio. Troppi e troppo vicini. Devo però confessare che anche prima, in quella che era la vita normale fino al sette marzo, un po’ mi dava fastidio lo stesso. Adesso, comunque, lo noto e divento insofferente. Esattamente come al supermercato quando qualcuno non si scosta simmetricamente, per strada quando qualcuno non ha la mascherina – cosa del tutto irrilevante per distanza e situazione, eppure – o magari in coda si avvicina un po’ troppo. Credo capiti a tutti, non ho dubbi, la domanda che mi faccio è quanto tempo e in che condizioni questo atteggiamento sparirà? Temo che nel mio caso, essendo già sensibile come ho detto all’interazione ravvicinata con gli altri esseri umani, non passerà, non del tutto almeno. A meno che non sia una moltitudine da concerto, indistinta e sudata: ecco, quello mi piace. Controsensi.
I giorni precedenti:
giorno 40 | giorno 39 | giorno 38 | giorno 37 | giorno 36 | giorno 35 | giorno 34 | giorno 33 | giorno 32 | giorno 31 | giorno 30 | giorno 29 | giorno 28 | giorno 27 | giorno 26 | giorno 25 | giorno 24 | giorno 23 | giorno 21 | giorno 20 | giorno 19 | giorno 18 | giorno 17 | giorno 16 | giorno 15 | giorno 14 | giorno 13 | giorno 12 | giorno 11 | giorno 10 | giorno 9 | giorno 8 | giorno 7 | giorno 6
Frame by frame
Esattamente un anno fa, inciampando tragicomicamente in un gradino alla stazione, ho sentito un po’ male alla caviglia sinistra. Non mi faccio ovviamente prendere dal panico e scruto la situazione con la freddezza dello scienziato: gamba da una parte, piede dall’altra. Dallo spavento mi giro e, mentre la caviglia rientra in sede, sento: “crok”. Cala il sipario. Più volte, in seguito, mi è capitato di ricordare quegli istanti come al rallentatore, facendo scorrere la pellicola del ricordo frame by frame, per poi a un certo punto accelerarla di colpo, perché anche solo rivivendolo così il trauma, ogni tanto, era ancora troppo vivo.
Mi domando se, trascorso un po’ (quanto? comunque un bel po’…) di tempo, ci sarà qualcosa di analogo pure rispetto all’esperienza che – collettivamente e come singoli – stiamo vivendo ora. Il momento in cui siamo venuti a conoscenza del primo caso di covid (correva il giorno 21 febbraio e per un po’ si è parlato di “paziente 1”), l’istituzione delle prime zone rosse (fine febbraio) e la chiusura prima della Lombardia (ma anche di parte del Veneto e dell’Emilia-Romagna) e poi dell’Italia, i vari decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e le varie ordinanze dei Presidenti delle Regioni, la sequenza delle autocertificazioni (nessuno ne parla più, ora, chissà chi la porta ancora con sé…) e avanti in questo modo.
Queste pagine quotidiane servono anche a questo, a conservare memoria di un periodo per certi versi unico della nostra vita, e che tuttavia non per questo in futuro sapremo necessariamente ricordare, tanto meno nei singoli fotogrammi. Questo a maggior ragione per quanto concerne giorni come gli ultimi appena trascorsi, decisamente meno ricchi di novità e appiattiti su una routine quasi del tutto identica a se stessa. Anche grazie all’apparente assenza di una strategia chiara a livello governativo (in Germania e in Svizzera, intanto, sono già usciti gli “scaglioni” per la ripresa delle varie attività, scuole comprese; qui prima di settembre ovviamente non se ne parla…), viviamo infatti un periodo di semplice sospensione, privo di un orizzonte d’attesa determinato. Così stando le cose, non è infrequente che ci si dimentichi quale giorno sia della settimana, a che punto si sia del mese, e quindi fissare almeno alcuni paletti giornalieri per le nostre mappe future trovo sia una prassi particolarmente salutare.
Una costante del periodo, che però si è notevolmente accresciuta in questi giorni di piatta, è la diffusione di fake news che ci intrattengono – in modo più o meno sgangherato – sugli scenari e le tempistiche della ripresa. Ci sono quelle che possono essere scoperte a un primo sguardo e che ingannano solo gli stranieri e quelle che invece a cui magari abboccano anche i presidenti di importanti enti pubblici. Quando la realtà latita, del resto, è naturale che la commedia (qui, più che altro, la farsa) la rimpiazzi come scimmiesca imitatio vitae.
Intanto anche nel mondo accadono stranezze. Non stupisce quasi più per nulla Trump, che nel giorno in cui gli USA registrano il maggior numero di morti (4591 in un sol giorno) dall’inizio dell’epidemia vorrebbe già “riaprire l’America. Colpisce diversamente, almeno me, la notizia che Wuhan riveda un attimino i numeri della sua catastrofe: passi per il blando aumento di 325 unità del numero dei contagiati (che così arriverebbero a 50.333, qualche caso non inizialmente conteggiato per via dei ritardi nei risultati dei test, o qualche falso negativo etc.), ma cosa pensare del fatto che i deceduti aumentino di 1.290 unità (da 2.579 a 3.869)?
Il Governo afferma che “revisione è conforme a leggi e regolamenti, e al principio di essere responsabili verso la storia, le persone e i defunti” e il portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian, rassicura circa il fatto che “il governo non permetterebbe mai” un insabbiamento rispetto alle statistiche del virus. Bene, restiamo in attesa di sapere quali siano le leggi e i regolamenti che imporrebbero la revisione. Resta però il fatto che, dal punto di vista del senso comune, quello da “vivo” a “morto” è un bel cambiamento di diagnosi. Non se n’erano accorti?