Fase 1, direi che possiamo dire di averla fatta. A questo punto, non vedo l’ora cominci la fase 2, anche se il governo stenta a comunicarcela nel dettaglio per non rovinarci la sorpresa. Giusto, altrimenti poi non facciamo uuuh e poi oooh e diamo tutto per scontato. In ogni caso, la fase 2 che, come sappiamo, prevede la collettivizzazione dei mezzi di produzione, si inserisce nel primo piano quinquennale, mi si scusi l’ovvio, del governo Conte, 2018-2023. Che poi parla parla ma alla fine si tratta sempre di produrre più acciaio, mica altro, e come sempre di ridurre il divario nei confronti della Germania. Sempre la stessa storia, maledetti crucchi. Inevitabile, poi, il periodo di rieducazione per Fontana e Gallera in un’allegra fattoria cooperativa in Molise a causa di ego (plurale? eghi? egos? egoi?) strabordante, dopo alcuni mesi saranno in grado di passare da: «siamo bravissimi, tutto giustissimo» a: «scusate, abbiamo sbagliato». Ma sto già sconfinando nella fase 3, non voglio rovinare la suspans.
Mettiamola così: per fortuna – e qui mi perdonino le vittime e i parenti delle vittime se risulto offensivo, non sarebbe mia intenzione – questa non è una pandemia delle più letali, intendo di quelle dove metà popolazione europea se ne va in un soffio, vedi la peste nera del 1348, quando a nulla valsero gli sforzi che osteggiarono l’avanzare del contagio. Fu come cercare di fermare un’orda mongola lanciata al galoppo con un fucile a tappo. Oggi, dicevo, per fortuna la pandemia di covid-19 è tremenda ma non decima (in senso letterale) e non falcidia la popolazione umana, il che ci permette di mettere a punto le procedure e i protocolli per affrontare una situazione limite come un’epidemia su vasta scala senza cadere come fuscelli. E ci permette anche di sbagliare, di fare confusione, di non capire bene quale sia la cosa migliore. Ciò che ci succede, con tutte le storture possibili, che andranno comunque perseguite, indagate e non giustificate, ci servirà – io spero – in un futuro per affrontare meglio un malanno più grave e più rapido. In quest’ottica, stiamo lavorando per il presente ma, soprattutto per il futuro. Un futuro nel quale la sanità pubblica non sarà messa in discussione, nel quale i fondi non verranno tagliati, nel quale le professioni mediche, infermieristiche, assistenziali, godranno del riconoscimento che meritano, un futuro nel quale la quantità di letti sarà adeguata alla consistenza della popolazione. E ci saranno procedure e protocolli validi, non inventati in teoria da un impiegato svogliato che non ha nemmeno mai visto un dispositivo di protezione individuale: oggi sappiamo, grazie, che una mascherina a testa ogni trenta giorni non basta. E che, magari, ha più senso produrre respiratori che tamagotchi. Tanto verrete collettivizzati, rassegnatevi, e allora sì che produrremo il necessario.
Perché poi si siamo riempiti la bocca nei decenni passati con parole come «globalizzazione», «interconnessione», abbiamo fatto film sul «butterfly effect» pensando che in Giappone uno si innamorasse e, di conseguenza, a Tbilisi aumentasse la felicità. Fuffa, come al solito. La realtà è che uno bacia sulla bocca un pincher da un’estetista di Merate e poi il mondo si ritrova recluso sul balcone a prendersi a martellate la zucca. Perché era comodo pensare che la globalizzazione fosse solo comprare vaccate dalla Cina pagandole una cicca, eh no, così non vale. Se vuoi quello, ti pigli anche questo, se vuoi sfruttare un tizio in capo al mondo il cui lavoro vale una zolletta di zucchero, allora ti devi accasare l’intero pacchetto.
Ed ecco, alla luce di questo, un elenco improvvisato di cose che non faccio dall’otto di marzo, quarantacinque giorni, e – incredibile – sono sopravvissuto: comprare su Amazon, farmi spedire cose che necessitino di un corriere, usare l’auto, cambiare le gomme invernali, comprare abiti, comprare scarpe, cambiare notebook (devo confessare che quello ci stavo provando, l’ho comprato il 25 gennaio ma non è mai arrivato), andare a fare la spesa in un centro commerciale, andare ovunque fuori dal mio comune di residenza a fare la spesa, bere un cappuccino la mattina, cambiare telefono, acquistare un televisore più grande, approfittare degli sconti da Divani&divani, comprare su AliExpress, comprare online in generale, cambiare il piano dati del mio telefono per avere cento giga in più, andare a vedere un film di Star Wars o della Marvel, fare la coda al semaforo, fare la coda in autostrada, comprare la pasta coi cazzetti in autogrill, mangiare un panino schifoso in un bar (anche in autogrill), comprare cibo che poi sia andato a male nel mio frigo, acquistare cose non necessarie, fare spese compulsive al Brico comprando cose che già ho, comprare cose da Hao-mai o dai cinesi in generale che tanto costano niente, lavare l’auto, stampare cinquecento o più fogli al mese, inviare decine di mail e centinaia di messaggi inutili, bere quattro caffè al giorno, andare a mangiare pizze cattive, fare chilometri al giorno per andare a lavorare, abbonarmi alla palestra, comprare magliette a due euro da Decathlon che durano un lavaggio, partecipare a incontri di lavoro senza alcuna conclusione, andare dal barbiere, andare dalla cartomante.
Cosa voglio dire con questo? Forse che potremmo vivere con meno e produrre con più ratio? Forse che molte delle cose che facciamo sono inutilmente frenetiche e ripetitive e che si potrebbe vivere in un’altra maniera? Forse che dovremmo recuperare valori più importanti? Ma per niente, anzi: riprendere a farle tutte e di più e con maggiore intensità. Altrimenti come recuperiamo quel -15% del PIL che dichiarano oggi?
I giorni precedenti:
giorno 44 | giorno 43 | giorno 42 | giorno 41 | giorno 40 | giorno 39 | giorno 38 | giorno 37 | giorno 36 | giorno 35 | giorno 34 | giorno 33 | giorno 32 | giorno 31 | giorno 30 | giorno 29 | giorno 28 | giorno 27 | giorno 26 | giorno 25 | giorno 24 | giorno 23 | giorno 21 | giorno 20 | giorno 19 | giorno 18 | giorno 17 | giorno 16 | giorno 15 | giorno 14 | giorno 13 | giorno 12 | giorno 11 | giorno 10 | giorno 9 | giorno 8 | giorno 7 | giorno 6
Dare i numeri
Guardare alle notizie, soprattutto quelle veicolate da numeri, da pessimo che già era sta diventando di giorno controproducente. Non ci capisco un accidenti e l’impressione è che, da parte di chi “informa”, questo non sia un effetto del tutto indesiderato.
Il PIL è stimato in calo del 15%, il risultato peggiore della storia repubblicana. È senz’altro una cosa tremenda, lo scrivo senza ironia, ma alla fin fine non comprendo perché. Mi verrebbe da dire: si produrrà di meno, si venderà di meno e si consumerà di meno, qualcuno guadagnerà di meno ma non morirà nessuno, no? No, non funziona così. Molte imprese falliranno, altre entreranno in difficoltà, molte persone andranno in cassa integrazione, altre saranno licenziate e altre ancora verranno a ritrovarsi in men che non si dica sotto la soglia della povertà. Non riesco però a non pensare che un sistema economico basato sulla costante e insaziabile esigenza di consumo che traspare da questi automatismi sia semplicemente folle.
Per l’amor di dio, NON mi si fraintenda: adoro fruire di tutta una serie di beni e servizi, se tornassero a girare pubblicità anni ’90 potrei fare da testimonial per una riedizione al maschile di “toglietemi tutto ma non il mio Breil” e non ho la minima idea di quale possa essere un sistema produttivo diverso e alternativo al capitalismo consumistico, ma tutto ciò non toglie che possa ritenere oggettivamente assurdo un meccanismo che si fonda su queste basi.
Cazzarola, basta una speculazione finanziaria o un virus da pipistrello perché ci si ritrovi tutti col culo per terra? Sì sì, va bene, non è che sia cosa nuovissima: “Come d’arbor cadendo un picciol pomo” e via avanti, ma almeno se il Vesuvio erutta non l’abbiamo deciso noialtri che ci troviamo di sotto, mentre un pochino di responsabilità per il modo di organizzare le nostre società potremmo anche sentirla. O no?
Sempre a proposito di numeri: il Paese europeo più colpito, in termini di rapporto tra popolazione e contagiati, non è la Spagna (1 contagiato ogni 232 abitanti; l’Italia sta a 1/335, la Germania a 1/559), come molti potrebbero pensare, bensì l’Islanda: 1 contagiato ogni 188 persone. Peccato però (si fa per dire) che lì abbiano un tasso di letalità dello 0,5%, mentre l’Italia è complessivamente al 13,4% (la Lombardia al 18,52%). All’autonomia del lettore capire chi sta messo peggio.
Sempre per la serie “i numeri che contano”, dopo che per settimane le uniche notizie ufficiali giornaliere dall’Inghilterra erano il numero complessivo dei contagiati ufficiali e quello dei deceduti, l’Office for National Statistics britannico segnala ora che a Londra, tra il 4 e il 10 aprile, un morto su due è stato per Covid. Great job, guys o, come direbbero a Trastevere, esticazzi?
La Germania annuncia oggi la decisione di annullare l’Oktoberfest dicendo che le cose o le si fanno bene oppure non si fanno proprio. La regola mi sembra buona e universalmente applicabile. Parrebbe averne fatto tesoro anche il Ministero della Salute, di cui sarebbe venuto alla ribalta proprio in queste ore un “piano segreto” pronto fin da gennaio per contrastare l’emergenza covid, ma che a suo tempo non era stato reso pubblico – shhhh – “per non generare il panico”. Ben fatto, 007: missione compiuta.
Per fortuna non tutte le pagine di politica interna sono di segno negativo. Di Maio, di mestiere Ministro degli Esteri, chiede finalmente scusa per aver chiesto, illo tempore, l’impeachment di Mattarella: un gesto vile che tutti ci ricordavamo con sdegno e che tuttora occupa le riflessioni dei più attenti studiosi di diritto internazionale. Commosso da tanta lealtà istituzionale e per non essere da meno, il suo collega e amico Di Battista avvia trattative segrete per sostituirlo alla guida del Movimento: neanche Leonida e i suoi alle Termopili osteggiarono il nemico muniti di così schietto coraggio.
Mi sembra tutto sotto controllo.