Oggi è il giorno più bello dell’anno. È la festa più bella, la più importante. I vari Salvini, Meloni, Berlusconi, Mussolini, Santanché, La Russa e così via dovrebbero essere tra i più fieri sostenitori della Liberazione, visto che è grazie allo sforzo di centinaia di migliaia di partigiani se loro possono dire le vaccate che hanno brama di dire in tutta libertà. Ma non qui, non ora, ora voglio parlare della festa. Solitamente, il 25 aprile è per me dedicato a una giornata a Milano, da molti anni: ritrovo la mattina con gli amici affezionati, puntata al cimitero Monumentale a deporre delle rose o delle gerbere, a seconda del fioraio di fronte, sulle tombe di Giovanni Pesce e Norina Brambilla, come simbolo di tutti i partigiani, un panino o un kebab ai giardini di corso Venezia e poi in manifestazione, fino a sera. Il fatto di trovarsi in una vera fiumana di gente lì per manifestare, in senso letterale, la propria adesione al ricordo e ai valori della Resistenza, è per me, noi, sempre un’iniezione robustissima di fiducia, ottimismo e speranza: vedere decine di migliaia di persone come me, tutte insieme, tutte contente o incazzate, a seconda degli anni, è una vera gioia. E poi ci sono gli amici, tutti quelli che si vedono solo una volta l’anno, proprio in manifestazione, e quelli invece che si è sempre d’accordo senza bisogno di dirlo, il 25 si sta a Milano.
Non è tutto: il 25 aprile è una festa vera perché, fin dal mattino, ci si telefona e ci si scambia messaggi per augurarsi «buona Liberazione», se ne fate parte lo sapete. Come il natale o la pasqua per altri, tuttavia se oggi è possibile per tutti votare o esprimersi liberamente non è grazie al Signore. È un modo per condividere la gioia del giorno, un modo per sentirsi, salutarsi, condividere la vicinanza, esprimere la riconoscenza per chi ha combattuto, magari ci ha lasciato le penne, per noi. È anche un modo per stabilire un punto fermo, che il fascismo non può e non deve passare, che i valori della Resistenza sono i valori fondanti del nostro Stato, che certe cose non si possono dire né fare. La cosa davvero stupefacente, ogni anno, è constatare come la festa della Liberazione, invece di essere largamente condivisa e partecipata, sia ignorata dalla maggior parte della popolazione italiana. Quella che si riconosce anche nei valori democratici della Costituzione ma non riconosce la festa, non la festeggia, non sente la ricorrenza, vuoi per mancanza d’abitudine, vuoi per ignoranza, vuoi – e la cosa mi stupisce ogni anno – perché la considera una festa di una sola parte politica. Si tratta chiaramente di una scemenza sotto ogni punto di vista, sia perché i valori stabiliti dalla lotta di Liberazione sono ampiamente condivisi e condivisibili, sia perché i partigiani furono di ogni collocazione politica, tranne ovviamente una.
È il destino della festa, lo so. Siamo al settantacinquesimo, man mano che passa il tempo la ricorrenza diventerà come altre ricorrenze precedenti, il 4 novembre per la prima guerra mondiale, la breccia di porta Pia, fino a più indietro, il Risorgimento. Date. Qualche esponente degli enti pubblici coinvolti, qualche corona al ciglio della strada e via. Ciò fa parte del corso naturale delle cose, chi di fatto non avrà mai incontrato un partigiano di persona o ne avrà sentito i racconti, farà fatica a sentirsi parte della Resistenza. Ciò, e di questo sono sicuro, non accadrà però finché ci siamo noi, intendo la mia generazione, perché siamo parte di quella storia. Anche quelli un po’ più più giovani, a tener fede alle persone che vedo in manifestazione, dovremmo quindi essere tranquilli ancora per qualche decennio, da questo punto di vista.
Oggi però non è andata come al solito. Ovvio, perché siamo chiusi in casa e, di certo, non è possibile manifestare. Un bel paradosso, a pensarci, non poter festeggiare la Liberazione. Già. Molta gente ha però cantato dai balconi, «E le genti che passeranno / ti diranno “Che bel fior!”», molti altri hanno fatto dirette, hanno commentato e scritto, tanti hanno partecipato. E poi le telefonate e i messaggi, quelli sì, ci sono stati anche più del solito. È stata una festa, comunque, con la promessa di rivedersi l’anno prossimo, sottinteso: in piazza. Liberi. Io no, non ho cantato: io sono scappato. Lo ammetto, mi spiace davvero per chi non lo può fare, sono uscito e me ne sono andato a camminare per i campi. Senza incontrare nessuno, senza contagiare nessuno, senza parlare con nessuno, ho portato un fiorellino alla lapide di un partigiano non distante da casa, e poi ho camminato. Perché va bene non andare in piazza ma stare pure chiuso in casa anche il 25 aprile non ce l’ho fatta. Ho camminato, ho pensato, ho canticchiato, mi sono commosso, ho ricordato, ho celebrato, ho parlato e salutato chi non c’è più, ho ringraziato. Come sono certo hanno fatto molti come me.
Alla fine della giornata, però, abbiamo festeggiato insieme: un brindisi collettivo in cortile, alle giuste distanze e ognuno nel proprio cantone, per non lasciar passare la festa. La terza bottiglia, forse, è stata di troppo, ci siamo salutati che era buio pesto e cominciava a far freddo, per fortuna un nuovo amico semibelga ha avuto il furore da frittura e ci ha sfamato a piatti e piatti di patatine fritte sul momento, abbiamo fatto una cosa che, tutto sommato, non era poi così distante dalla spaghettata sull’aia di casa Cervi. È stata comunque una festa e si è stati insieme, per quanto distanti e magari solo per via del telefono, questo conta. L’anno prossimo sarà meglio.
I giorni precedenti:
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Brame divisive
Ormai la strada davanti alla mia finestra, sempre trafficatissima, mi ha abituato a un silenzio che spesso mi induce anche a guardare il cielo, spesso bellissimo in questi giorni e nient’affatto velato dalla consueta foschia.
Così, mentre quest’acustica agostana ravviva la mia brama di vacanza ed evasione, è arrivato il 25 aprile e con esso le ormai consuete polemiche, le immancabili provocazioni, le varie proposte pacificatorie e revisionistiche.
Fin da piccolo, non sono mai riuscito a sentirmi a mio agio nelle celebrazioni pubbliche, a partire da quelle in chiesa dove mi portava mia nonna I. sperando che lo Spirito Santo mi illuminasse per arrivare ai cortei per le strade e le piazze cittadine. In entrambi i casi ho sempre provato la sensazione che il pensiero che si manifestava, e al quale avrei dovuto aderire con canti, gesti o altri passaggi simbolici, non fosse davvero “mio”. Le liturgie, tanto quelle religiose quanto quelle politiche, le ho sempre evitate proprio per quello, per non fingere di essere quello che non sono, di sentire quello che non sento.
Così, la retorica che solitamente (e giustamente: ‘retorica’ non è una brutta parola) circonda molti eventi importanti e solenni la posso capire, magari anche apprezzare, ma non mi appassiona. E va da sé che quando la percepisco come perorazione enfatica, logora, magari pure utilizzata strumentalmente da persone poco credibili (cioè, in sintesi, quando è cattiva retorica), non soltanto non mi appassiona, ma suscita in me una certa insofferenza. Credo di non essere il solo, del resto, a pensare che se a tenere un discorso sul valore morale della libertà al posto di Calamandrei ci mettiamo Berlusconi non è che sia proprio la stessa cosa.
Un buon esempio di quanto vado scrivendo è offerto dal destino negli ultimi anni della famigerata “bella ciao”. Testo alla mano, un inno di libertà “dall’invasore” che in teoria dovrebbe essere trasversale ai partiti come l’inno di Mameli e che al limite potrebbe essere fatto proprio pure dai leghisti o dai sovranisti di destra. Già, perché i partigiani non sono mica stati di un unico colore politico e tra loro, oltre ai comunisti c’erano anche cattolici, socialisti, liberali, ufficiali di carriera dell’ex Regio esercito, persino qualche nobile. In modo curioso ma certamente significativo, però, il centro e (massimamente) la destra non parrebbero aver mai simpatizzato troppo con qualsiasi cosa che si riportasse agli ideali della Resistenza, frettolosamente derubricati a una “ideologia” da mettere in soffitta insieme a tutte le altre (salvo la loro, s’intende: perché politica senza ideologia non è). È così che, nella pratica simbolica e nell’immaginario collettivo, “bella ciao” si è progressivamente trasformata in un motivo esclusivamente “di sinistra”: divenuto di sinistra, ma non certo per colpa della sinistra. La quale semmai (e nemmeno tutta) ha la responsabilità di aver talora abusato di un simbolo “alto” svilendolo in un tormentone sempre più stancamente replicato per rampognare gli avversari politici di volta in volta indicati come “fascisti”. L’approdo ultimo di questa metamorfosi kafkiana è La casa di carta, una soap iberica dove “bella ciao” risuona come colonna sonora della “resistenza” di un gruppo di rapinatori del Banco di Spagna contro il cattivo “sistema”.
Tornando al 25 aprile, pure qui non mancano equivoci e apparenti stranezze. La più macroscopica è la ricorrente lamentela – tipicamente di provenienza destrorsa, ma talora ripresa anche a sinistra (ah, no, scusate, era Renzi) – secondo cui la festa della Liberazione sarebbe una ricorrenza “divisiva”. Ma certo che lo è, e ci mancherebbe che non lo fosse! Si viene sempre liberati da qualcuno o da qualcosa, e se si festeggia una liberazione è proprio per via del fatto che questo qualcuno o questo qualcosa non lo si vuole (più). Giova ricordare che il 25 aprile festeggia la liberazione dell’Italia dal regime di occupazione nazifascista, e quindi almeno gli epigoni dichiarati di Hitler e Mussolini dalla festa sono (e devono essere) esclusi per definizione.
Ovviamente si può benissimo discutere se si debba essere tuttora antinazisti e antifascisti, e incidentalmente lo si può fare (nota bene: a livello privato, non istituzionale) proprio perché vige una Costituzione antifascista e democratica che lo consente, ma questo è un altro discorso. Se fosse articolato in modo espresso, per lo meno verrebbe a galla con chiarezza la coscienza politica di chi evidentemente rimpiange di non essere più sottoposto a una dittatura totalitaria e ai suoi (dis)valori fatti di militarismo imperialista, purghe e camere a gas. Si accomodino, ma per cortesia lontano dall’Italia e dal 25 aprile: lì non li vogliamo.
A parte questo, però, la festa della Liberazione non è affatto, o comunque non dovrebbe essere, la festa di una parte politica, ma appunto di tutte le forze politiche e della società civile che si sentono democratiche e contente di esserlo. Che oggi, apparentemente, solo la sinistra paia contenta di festeggiare insieme ai partigiani rinnovando il patto coi valori della Resistenza è cosa che desta meraviglia, quantomeno in tutti coloro che non hanno chiaro tutto il putridume morale in circolazione.
Se c’è semmai una cosa che gli amici del 25 aprile farebbero meglio a ricordare con maggior forza è che la resistenza armata diede certamente alla liberazione un contributo enorme sotto il piano simbolico e consistente sotto il profilo militare, ma che altrettanto certamente tale contributo non sarebbe bastato a liberare l’Italia dal regime nazifascista. A risultare determinanti furono le forze alleate, che di quella liberazione sono state fattore senz’altro necessario (senza di loro i partigiani non ce l’avrebbero fatta) e sicuramente sarebbero state fattore sufficiente (con più fatica, ma loro ce l’avrebbero fatta anche senza i partigiani). Non ci siamo liberati da soli, la Repubblica è nata solo in parte dalla resistenza: questo è un dato che certa (cattiva) retorica tende troppo spesso a dimenticare, sovrastimando colpevolmente il buono che pure c’è stato e c’è ancora nel Paese.
Buon 25 aprile!