When I’m sixty-four. Oggi. Sessantaquattro giorni, bel numero per la matematica, bel numero per noi anche se, tutto sommato, se la situazione non precipita, abbiamo parecchi sprazzi di vita quasi normale. Per esempio, oggi il primo caffè al bar. Oddio, detta così non è che corrisponda molto alla realtà dei fatti: si è trattato di mettermi in coda, nella formazione ormai consueta del persona-duemetri-persona-duemetri, aspettare il mio turno, interloquire con il barista sulla porta sbarrata del bar, fare l’ordinazione, aspettare, ricevere un bicchierino di plastica con dentro il caffè, una bustina di zucchero e una palettina. Non solo: da consumare rigorosamente non lì, magari in macchina o, magari, visto che io non ero in macchina, nascosto dietro qualche angolo furtivo. Oserei dire che il gusto si è un pochino perso. Perché il bello, parlo per me, è appoggiarmi al banco, magari fare due chiacchiere, sentire sfiatare la macchinona del caffè, guardarmi in giro e magari sparare una minchiata. Da bar, appunto. Così no, si perde tutto il bello, infatti non saprei dire come fosse il caffè: bevuto in fretta camminando e bon, fine. Nemmeno loro, intendo i baristi, hanno ancora preso la mano sulla cosa, tendono a essere un po’ legnosetti nella gestione degli ordini e della fila. Per carità, con il tempo, è pur vero che abito in una città che dell’aver la testa dura, nel senso di dura ma anche di lenta, ne ha fatto manifesto, ma mi permetto di dare due suggerimenti al volo, da profano consumatore: a) prendere gli ordini in una volta sola di due/tre persone in coda velocizza di molto la faccenda, peraltro come di solito già facevano al bancone; b) preparare bustine e palette alla porta del bar, dove si prendono gli ordini, armonizza le operazioni. Ecco, giusto per rendermi utile. O no, in realtà lo faccio per me. Perché lo ammetto: odio fare la coda. O-d-i-o. Non da oggi, da sempre. Piuttosto vado alle quattro del mattino ma stare in coda è una cosa che mi riesce difficile. Non è l’attesa, nel senso che posso aspettare un autobus per un’ora senza grandi problemi, credo sia proprio la coda: delle persone, davanti, che fanno domande o si perdono via, facendo aspettare me. Sì, è l’elemento umano che mi disturba, finisce che sto lì ad ascoltare e invariabilmente se uno davanti a me fa una battuta non rido (e penso andiamocene fuori), se fa una domanda viene da rispondere a me (no, ha finito?), se è indeciso sceglierei io al posto suo (quello, finito!). Lo so, poco simpatico. E sarà bene che me ne faccia una ragione perché, come dicevo, la coda sarà il fattore caratteristico dei prossimi tempi. Lo è già e lo sarà ancor di più. Nel frattempo, oggi quasi ottocento nuovi contagiati, ed è un numero basso, considerando che è una quantità che non si vedeva dal 6 marzo, pre lockdown. In questi giorni i dati sui contagi e i decessi sono sempre preceduti dall’avverbio «solo», nel senso che sono in costante diminuzione, anche se riferito ai decessi suona sempre sgradevole. La locuzione esatta è: «Oggi solo».
Domenica di sole e, visto che è possibile uscire, sono uscito. E sono uscite anche le persone in reclusione stretta, dopo la prima timida uscita del 4, questa settimana hanno preso confidenza. La cosa buffa cui assisto è che coloro che sono stati in clausura osservante non hanno appreso le modalità di distanziamento sociale che noi, che più o meno siamo usciti nei due mesi scorsi, invece ormai consideriamo quasi scontate. Per esempio, quindi, vedo persone uscite da poco che tendono, invariabilmente, ad avvicinarsi troppo mentre si parla o a non pensarci. Oppure, hanno l’impulso di un gesto di affetto, un abbraccio, una stretta di mano, o di amicizia, una pacca sulla spalla, un buffetto, che ancora non trattengono perché non si sono ancora educate ai gesti della distanza. Non è un bene, intendiamoci, essere assuefatti a non toccarsi e a non scambiarsi alcunché. Per esempio, la mia mamma, con gesto affettuoso, ha preso delle fragole e me ne ha porte alcune dalla sua mano gentile (e nuda). Posso biasimarla per questo? Ovviamente no. Sono i tempi, da biasimare, eccome, tutto il resto è solo da apprezzare.
I giorni precedenti:
giorno 63 | giorno 62 | giorno 61 | giorno 60 | giorno 59 | giorno 58 | giorno 57 | giorno 56 | giorno 55 | giorno 54 | giorno 53 | giorno 52 | giorno 51 | giorno 50 | giorno 49 | giorno 48 | giorno 47 | giorno 46 | giorno 45 | giorno 44 | giorno 43 | giorno 42 | giorno 41 | giorno 40 | giorno 39 | giorno 38 | giorno 37 | giorno 36 | giorno 35 | giorno 34 | giorno 33 | giorno 32 | giorno 31 | giorno 30 | giorno 29 | giorno 28 | giorno 27 | giorno 26 | giorno 25 | giorno 24 | giorno 23 | giorno 21 | giorno 20 | giorno 19 | giorno 18 | giorno 17 | giorno 16 | giorno 15 | giorno 14 | giorno 13 | giorno 12 | giorno 11 | giorno 10 | giorno 9 | giorno 8 | giorno 7 | giorno 6
La libertà lombarda
I dati, anche in Lombardia, continuano a migliorare, non tutti allo stesso modo però. Il calo dei ricoverati in terapia intensiva, ad esempio, si è arrestato. Vedremo nei prossimi giorni come si struttureranno i trend, che a questo punto inizieranno – dapprima lentamente, poi con sempre maggiore rapidità – a registrare gli effetti della parziale riapertura connessa alla “fase 2”. Il “tetto” simbolico dei 500 ricoverati in terapia intensiva che la Lombardia parrebbe aver messo come indicatore per il ritorno al lockdown, al di là della sempreverde possibilità di rivederlo in corso d’opera, mi pare discutibile sotto più punti di vista.
Come opportunamente rileva l’amico t. nel suo post di ieri, anzitutto, è un indicatore quanto mai rozzo, poiché prende in esame solo i casi gravissimi e non l’andamento dell’epidemia in sé. In secondo luogo, appunto, fa suonare il campanello d’allarme quando la casa brucia da troppo tempo: sarebbe come se per ricoverare qualcuno al pronto soccorso si richiedesse una temperatura minima di 41,5 gradi centigradi; e i danni a quel punto non sarebbero più solo nelle terapie intensive, ma in tutto il sistema ospedaliero, nuovamente sottoposto a tensione in tutti i suoi reparti, con i danni collaterali a tutto il comparto della sanità (non esiste solo il covid, eh…) che facilmente possiamo immaginare. In terzo luogo, sembra un indicatore fatto apposta per non essere raggiunto così in fretta (oggi siamo circa a 350 posti occupati in Lombardia), il che significa che, con ogni probabilità, anche se le cose andassero male, non andranno così male alla fine della prossima settimana; c’è da credere che allora si chiederanno e otterranno ulteriori riaperture, il tutto senza un serio esame della situazione. Infine, questo “protocollo” – invece di armonizzare i più accreditati metodi diagnostici con le migliori tecniche di previsione epidemiologica – pare l’indice che il sistema regionale perseveri diabolicamente nell’idea, già rivelatasi fallimentare, di una gestione solo ospedaliera del problema.
A conferma di ciò si pone evidentemente anche l’indicibile vicenda dei test sierologici e dei tamponi. In attesa di un’azione pubblica, tuttora nella mente di Giove Pluvio/Fontana, che coprisse per lo meno i casi di soggetti sintomatici o entrati a contatto con un positivo certificato (senza essere un esperto, questi sono i casi che chiunque controllerebbe per primi, visto che praticamente si va a botta sicura), i test sierologici dovevano essere disponibili a pagamento per i privati già dalla scorsa settimana. Che non sia affatto fantascienza lo dimostra, ancora una volta, il Veneto che si sta già muovendo in tal senso. Bene, in Lombardia, attualmente, non si può; indovina perché? Ebbene sì, per una disposizione regionale. Certo, perché se al test sierologico, che il privato paga per fare, poi risulta che è entrato in contatto col virus, magari poi bisogna anche fargli un tampone, che nel privato non si può acquistare. Ma siccome di tamponi non ce ne sono abbastanza (e qui mi chiedo: ma come è possibile? Non ne stavamo facendo un casino al giorno? Come e a chi vengono fatti, si potrebbe sapere?), allora inutile far preoccupare la gente, impediamole direttamente di fare anche il test sierologico.
A me dispiace scriverlo, e ha ragione sempre t. quando mi consiglia di non farmi venire il sangue troppo amaro, ma l’attuale politica regionale sul covid pare davvero degna rappresentante di quell’ottuso menefreghismo d’accatto di cui parlavo ieri. Avevi dei sintomi e ti senti guarito? Esci pure, nessuno ti dirà niente. Non ti senti guarito? Tappati pure in casa, come ti suggeriranno i medici di base se interpellati, salvo poi scoprire che la quarantena, oltre che volontaria, è pure a tempo indeterminato perché gli esami (forse) arriveranno solo “a babbo morto”. Ti senti male? Chiama un’ambulanza, tanto adesso ci sono i reparti semivuoti e tutti questi reparti covid che li abbiamo costruiti a fare? Insomma, un tripudio di libera scelta, al solo patto che nessuno rompa i coglioni a chi vuol finalmente tornare a lavorare, produrre e consumare. #andràtuttobene?