Sì ma ora che succede? Molti sono convinti che una seconda ondata in autunno sarà inevitabile e comunicano la cosa come assodata, probabilmente sull’esperienza degli altri coronavirus, come influenza e raffreddore. Secondo alcuni questa seconda ondata sarà meno intensa, perché i soggetti deboli che potevano sviluppare una risposta grave sono già stati interessati dalla prima ondata, detta tecnicamente ci sono meno polimorbidità, secondo altri invece sarà più intensa, perché i virus mutano e diventano, talvolta, più forti e il fattore climatico favorirà questo processo. Secondo qualcun altro, invece, la seconda ondata ci sarà ma in tempi brevi, ovvero dovuta alla ripresa delle attività economiche e sociali, e ci costringerà a un secondo lockdown e ciclicamente ad alternare aperture e chiusure per mantenere il livello del contagio a un punto sopportabile. Anche in questa ipotesi, gli scenari sono comunque variegati: c’è chi ritiene che di fatto gli stati di quarantena saranno prevalenti fino al 2025 intervallati da brevi periodi di maggiore libertà e chi, invece, ritiene che questa situazione sarà passeggera, almeno fino al vaccino, quindi un anno, un anno e mezzo. Ma c’è chi pensa che il vaccino potrebbe non esserci mai, perché i coronavirus mutano, e di conseguenza l’unica risposta possibile sia quella farmacologica, utilizzando combinazioni di medicinali già esistenti, e chi pensa che si arriverà a una forma di vaccinazione simile in sostanza a quella dell’influenza attuale, ovvero differenziata di anno in anno per ceppo. Ci sono, però, coloro che pensano che il virus stia già mutando e che stia diventando meno aggressivo, il che sarebbe testimoniato dalla diminuzione dei ricoveri in terapia intensiva, mentre altri spiegano che sia scorretto parlare di un solo virus perché, in realtà, le tipologie sarebbero già parecchie e sarebbero destinate a incidere in modo diverso nei paesi del mondo. Chi esprime questo tipo di posizioni, parla di «convivenza» con il virus, di adattamento del corpo umano, e lo fa non con rassegnazione ma con la tranquillità di chi vede oltre il contingente. Chi, poi, guarda al passato riporta l’esperienza dell’influenza spagnola – il virus dell’influenza A sottotipo H1N1 – che tra il 1918 e il ’19 fece tra i cinquanta e i cento milioni di morti per sparire poi abbastanza all’improvviso, forse perché nella vita civile tendono a sopravvivere i ceppi virali più leggeri, forse perché migliorarono le cure. Alcuni però obbiettano che proprio la spagnola ebbe diverse ondate per nulla legate al fattore stagionale, quindi climatico, e di conseguenza non possiamo pensare a una recessione del covid-19 nei prossimi mesi. A quello, però, sopperirebbe la fine della pandemia decretata socialmente, sostengono altri, nel senso che il desiderio di riprendere la vita quotidiana e la stanchezza per le misure di contenimento porterebbero le persone a comportarsi come se il virus sia stato debellato, anche se non è così. Tale ipotesi sarebbe credibile nel caso del covid-19 perché il timore ingenerato dalla malattia non sarebbe alto come in altri casi, dato che la mortalità, sia detto con il rispetto dovuto nei confronti di chi ci ha lasciato le penne, non è alta come in altri casi di epidemie e pandemie ben più fatali, come l’Asiatica del 1958, per citare la più recente, o la pandemia russa del 1889.
Che dire, dunque? Non vorrei banalizzare il concetto dicendo che è inutile girarci attorno perché nessuno ha idea di come andrà. Vorrei, come credo che sia, considerare che si stiano offrendo contributi al ragionamento, ciascuno stia mettendo sul tavolo le proprie ipotesi e, con il tempo, si stiano vagliando collettivamente le più credibili. Ovvio che al momento si stiano mescolando le idee più serie e strutturate, avvalorate da conoscenza scientifica, e le ipotesi più sbalestrate, spesso avanzate per scopi altri inserendo elementi di confusione, per esempio millantando fantomatici studi riportati da Science, che fa sempre gioco. Solo il tempo farà pulizia anche se in modo non definitivo, più avanti i racconti di questa pandemia saranno ancora differenti e variegati, le spiegazioni non univoche, i ragionamenti non concordi.
Io non so come andrà. Durante il lockdown non ho fatto la pizza in casa, non mi sono messo a correre, non sono diventato un epidemiologo o un virologo, quindi non lo so. Sulla base della mia formazione, mi piace pensare che possa accadere ciò che accade in certi racconti popolari brevi, quando verso la fine, dopo aver raccontato ciò che importa, di solito morti, amori andati male, genitori dispotici, burle ben riuscite, la narrazione taglia via brutalmente e nelle ultime due righe condensa tutto ciò che succede dopo: «E fu così che da un giorno con l’altro il virus sparì senza lasciare traccia e le persone tornarono alla vita normale», ovvero l’equivalente nelle fiabe del «E vissero felici e contenti», amen e via. Mi piace pensare che possa accadere perché mi piace pensare a me stesso su un treno per Hanoi tra pochi mesi, pronto a mangiare la prima cosa vista su una bancarella, magari non un pipistrello, e a dormire in una bettola vicina alla stazione, senza troppo pattume. Ognuno spera ciò che gli va, no?
I giorni precedenti:
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Settimane lunghe
Nella ormai sterminata letteratura sul covid sempre più si stenta a riconoscere le voci sensate all’interno della varia spazzatura che quotidianamente ci viene propinato, per cui spesso si rischia di discutere sul proverbiale niente. Parlando con un amico, tra l’altro non sprovvisto di competenze mediche, oggi mi riportava la considerazione – a suo dire assai diffusa; su questo aspetto non mi pronuncio – secondo cui il virus avrebbe senz’altro visto attenuarsi la sua pericolosità (i suoi effetti più gravi, non la trasmissibilità) entro l’autunno. Alla mia domanda relativa alle basi scientifiche di questa prognosi, la risposta è stata (relata retulit) che questo sarebbe il comportamento dei coronavirus; ma alla famiglia dei coronavirus non appartengono proprio i virus influenzali che ogni anno ci funestano da ottobre a dicembre? Qui calava un silenzio plumbeo.
Alla radio, invece, sentivo un tizio che riportava una considerazione a suo dire condivisa da “tutti gli esperti in materia”, vale a dire che per valutare gli effetti dell’allentamento delle varie chiusure cominciato il 4 maggio si sarebbe dovuto aspettare l’inizio di giugno. E qui allora non capisco più niente. Anzitutto, va bene quel che scrivevo ieri in ordine alla differenza tra periodo più breve (media 5, massimo 14 giorni) di incubazione e quello più lungo di diffusione epidemiologica, ma se il secondo – certamente più significativo per valutare l’impatto di certe misure – fosse così lungo, allora davvero troppi conti non tornano. Anzitutto, che senso avrebbe avuto dare delle scadenze di sole due settimane per valutare se procedere con ulteriori riaperture, come peraltro puntualmente e generosamente abbiamo fatto dal 18 maggio? Che senso avrebbe avuto, e tuttora ha, basarsi su dati che ancora, secondo questa stima, dipendono ancora direttamente dal lockdown per diffondere messaggi ottimistici mentre abbiamo amenamente preso commiato dai comportamenti statisticamente alla base di questi risultati? Ma soprattutto: possibile che io questa cosa la senta soltanto oggi, dopo tutto questo tempo?
La mia prima reazione sarebbe di rubricare anche questa osservazione nel gran mucchio del pattume informativo di questo periodo, e tuttavia alcuni indici della sua plausibilità li abbiamo sotto gli occhi ormai da tempo.
Primo indice, remoto: di tanto in tanto si riceve la notizia che Stati asiatici che avevano riaperto, dopo un po’ (un paio di mesi o a volte anche meno) hanno dovuto tornare a chiudere tutto o quasi. Si tratta di Paesi come Singapore, la Corea, la stessa Cina, insomma realtà tutt’altro che sprovvedute e non esattamente trascurabili in termini di efficacia (di ordine pubblico, sanitaria e anche tecnologica) nella lotta al covid. Loro sì e noi no? Va bene, ma in virtù di quale nostra superiorità o differenza?
Secondo indice, prossimo: il tempo che è stato necessario per frenare la curva dei contagi. Quando si è chiuso tutto a marzo, tra amici si commentava: se per due settimane restiamo chiusi in casa, chi ha contratto il virus lo svilupperà, per lo più venendo isolato e quindi non potendo più trasmetterlo, mentre gli altri saranno sicuri di non poterlo contrarre. Va bene, ci possono essere gli asintomatici, ma con il lockdown, il distanziamento e le mascherine le poche volte che si esce per andare a fare la spesa, per tanto che possa succedere la trasmissione del contagio dovrebbe essere bassissima e ad esaurimento. Giusto? Sbagliato. Ci abbiamo messo praticamente due mesi per normalizzare la cosa. Adesso cosa sarebbe cambiato?
Si attendono risposte da chi di competenza.
Sono disorientata, il 4 maggio mi sono detta ” proviamo con calma ad uscire e a riprendere contatto con la realtà”.
Vediamo se funziona il senso civico, la responsabilità di un essere umano nei confronti degli altri, se i timori vissuti nei mesi scorsi ci metteranno nella condizione di rientrare alla normalità ( quale, la mia, la tua, la sua?) lentamente a piccoli passi con lungimiranza, con il desiderio preciso di non tornare indietro, al 6 marzo, come nel gioco Dell’oca, sbagli una mossa perdi tutte le posizioni ma ricominci e cerchi di arrivare al traguardo.
Ma il traguardo qual’è? Poter tornare liberamente a spostarmi dove desidero e come desidero, non fare code, non usare i guanti e le mascherine, non continuare a sanificarmi le mani, non rinunciare al cielo azzurro e al silenzio del mattino e ai cinguettii?
Ancora cerco di darmi delle risposte, da che parte iniziare, lo studio da riaprire, i moduli da compilare, sono fortunata perché sono poche le cose che mi vengono richieste, che arriva il 18 maggio, tutti liberi e mi trova impreparata.
La reazione è immediata, le persone hanno il desiderio di dimenticare, dimenticare freneticamente. Ci sono ancora limitazioni è vero, non posso andare a Venezia, ma posso andare dal dentista che mi ha chiamata per l’appuntamento annullato di febbraio.
Che esperienza, visto che non avevo urgenza, mi sono detta alla fine, potevo non andarci. La mia dentista ha uno studio piccolo con una sala d’attesa piccola e due ambulatori. Dalla riapertura riceve una persona alla volta, a distanza di mezz’ora una dall’altra, in maniera tale che tra pazienti non ci si incontri. Mi chiede di lasciare la borsa e la giacca dentro un contenitore di plastica, mi fa sanificare le scarpe su una pellicola adesiva e le mani con il gel, mi fa compilare un modulo nel quale dichiaro che etc.. etc.. e poi inizia la seduta.
Nuove modalità, due sciacqui con non mi ricordo più cosa, ma ricordo perfettamente il sapore di acqua ossigenata, lei si muove con difficoltà, indossa oltre alla solita mascherina, la maschera di plexiglass e gli occhiali con lenti da ingrandimento.
Mi chiede continuamente scusa perché mi urta muovendosi, è più difficile nel piccolo ambulatorio , che però era l’ideale fino a pochi mesi fa, deve tenere le porte aperte per arieggiare il più possibile e tolgono spazio. Nella piccola corte all’interno della quale si affaccia lo studio ci sono bambini che giocano e mamme che urlano di non fare rumore, lei è nervosa, lo sento, lo percepisco dai suoi gesti che da quando la conosco sono sempre stati leggeri e delicati e oggi non lo sono.
Mi parla per stemperare la sua tensione, mi rassicura dell’igiene sul quale non ho dubbi, mi fa partecipe del suo malessere e del fatto che la prossima cliente sarà tra un’ora dopo che avrà sanificato tutto, ambiente compreso, ” sai le particelle volano”. Riconosco la sua fatica. L’amare il proprio lavoro, la responsabilità verso i pazienti ” prima le urgenze ” poi tutti gli altri sperando che vada tutto bene, i tempi che si allungano, i compensi che ritardano.
Ci si incontrava a yoga, alla scuola che entrambe non amanti della troppa gente avevamo scelto.
La stessa scuola, chiusa da marzo, che da giugno inizierà corsi individuali perché nel piccolo spazio non è possibile al momento fare diversamente.
Io non parteciperò, costano troppo le lezioni individuali e mi sentirei continuamente sotto esame, non fa per me e nemmeno per lei essere da sola con la maestra.
Ci salutiamo dicendo che andremo a camminare in montagna, entrambe amiamo farlo e sarà possibile come desideriamo, lei con il suo compagno, io con la mia amica di sempre con lo zaino in spalla e i panini imbottiti.
Vederla oggi cosi, lei che solitamente è sorridente e serena, mi ha lasciato uno strano malessere che cresce mentre mi avvio alla macchina e nel parcheggio vedo seminate qua e là mascherine e guanti oltre alla solita carta, scuoto la testa e penso che mi merito un gelato.Imbocco la strada per la gelateria di fiducia, sul marciapiede una decina di persone in coda e altre che sedute mangiano felicemente il loro gelato, il distanziamento sociale? Un sogno.
Così decido di non fermarmi e insoddisfatta e frustrata torno a casa.
Perché? Perché cosi no, non mi va. Non ho mai amato le code, adesso mi innervosisce solo l’idea. Non mi informo quotidianamente, non possiedo la TV, leggo solo il giovedi tutto d’un fiato un settimanale al quale non rinuncio cosi mi illudo di avere una visione internazionale e non locale anche se è qui che vivo, in Lombardia.
Mi arrabbio per i guanti a 14 euro, le sanificazioni da 100,00 a 500,00 euro, quali fare e perché, leggo e poi rileggo il contrario di tutto, ipotesi su ipotesi e in autunno si vedrà. Prima si apre e poi si minaccia la chiusura, prima mi permetti di sognare di andare qualche giorno al mare, ma il mare è fuori regione purtroppo e neppure passando per il Piemonte riesco ad arrivarci e poi mi punisci perché tutto è delegato alla mia responsabilità individuale. Test si, test no, tampone si, tampone no, il virus cambia, si modifica, si adatta, diventa più aggressivo. E’ proprio stronzo, inutile negarlo. Si prende gioco di noi, ci sbeffeggia, ci sfida e come in un fumetto ci fa la linguaccia o un gestaccio.
E noi? Noi che siamo state ubbidienti, rispettose, che ci siamo adeguate alla
necessità, che abbiamo avuto paura per i nostri cari, noi che sentivamo le sirene delle autoambulanze ininterrottamente dal mattino alla sera, noi che non cantavamo sui balconi e non appendevamo cartelli con “andrà tutto bene”, noi che sfiduciate dalla politica volevamo credere nella buona politica,
noi che quotidianamente stiamo qua e cerchiamo di fare per bene quello che abbiamo imparato desiderando essere altrove, oggi con quale energia
ci alziamo ogni mattino e con quanta fiducia guardiamo al futuro?
Arriverà l’estate e per la prima volta da quando ho memoria non ho voglia di far programmi e non è solo una questione economica. La vacanza è per me desiderio di libertà e non limitazioni, è interagire con gli altri, è creare incontri che possono trasformarsi in amicizie, è dormire dove capita e mangiare quando mi va, è entrare in un museo o sedermi al bar lasciando trascorrere il tempo, con lentezza, senza fretta assaporando silenzio e solitudine se mi va.
Ecco finalmente l’ho detto, ” non voglio più aver fetta ” forse se riesco a scriverlo significa che riconosco la sensazione che provo, oggi. Domani
chissà.