Eccola là: uno studio indipendente, effettuato dalla Fondazione Gimbe, non solo «dimostra che la curva del contagio non è adeguatamente sotto controllo in Lombardia, Liguria e Piemonte», e questo in qualche maniera è stato detto da più parti, ma sostiene con chiarezza che la Regione Lombardia fornisce «dati aggiustati per evitare nuove chiusure», il tutto in modo convincente, devo dire. Non voglio e non vorrei dire che l’avevo detto, perché sarebbe falso, ma quando il 22 maggio (giorno 76) ho assistito in diretta al crollo dell’indice di contagio da 1 a 0,51 (scrivevo: «il ministro Speranza annuncia di voler bloccare i trasferimenti tra regioni con diversi gradi di rischio, non sbagliato, e in due ore l’indice di contagio Rt della regione Lombardia crolla a 0,5 e il rischio si abbassa da medio a basso. Vualà») devo dire che l’impressione decisa di un abbattimento forzato ce l’ho avuta. Ma non basta. Perché sembra che non basti mai, da mesi a questa parte: lunedì, tre giorni fa, l’ATS di Milano, Sistema Socio-sanitario di Regione Lombardia, ha inviato a un numero ignoto di persone un SMS di tal fattura: «ATS Milano. Gentile Sig/Sig.ra lei risulta contatto di caso di Coronavirus. Le raccomandiamo di rimanere isolato al suo domicilio, limitare il contatto con i conviventi e misurare la febbre ogni giorno». Già l’errore in sé ma per non lasciare i propri assistiti senza divertimento per rettificare ci ha messo ventiquattro ore («Agli interessati è stato inviato un ulteriore SMS di rettifica nella giornata di martedì 26/05»). Roba da denuncia, prima lo schioppone, poi ore per pensare a chi potesse essere il contagiante, poi a chiedersi se quel raspino in gola fosse già un sintomo galoppante, poi preoccuparsi per i conviventi, i congiunti e gli amici, poi a chiedersi come organizzare la quarantena in senso stretto, come fare con il lavoro, magari, o altro, poi a chiedersi dov’è finito il termometro, passarci su una bella notte pensando ai casi di trapianto di polmoni perché devastati dal covid-19 e il giorno dopo: «Ci scusiamo per il disagio». Ma io vengo lì con un dilatatore rettale incandescente, altro che disagio. Si esige una pena proporzionata all’errore e al disagio, direi pubblica impalazione in mezzo all’A4, barriera di Agrate. Ormai è un’iperbole continua, ogni cazzata offusca la precedente e alza l’asticella verso vette ritenute irraggiungibili da qualsiasi regione non lombarda del mondo.
Oggi è l’anniversario dello scoppio della bomba in piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio 1974. Solitamente ci si trova in piazza prima delle 10:12, ora in cui la piazza si azzittisce e dei rintocchi, uno per ogni vittima, segnano il momento dello scoppio. Poi riprende la cerimonia di deposizione delle corone e dei discorsi di circostanza. Oggi no, la piazza è chiusa ed è concesso entrare solo alle delegazioni, tre persone per ciascuna. Brutto modo, questo, per evitare assembramenti: domenica a Torino per le frecce tricolori nulla è stato fatto in questo senso, in qualsiasi centro commerciale riescono a mantenere un numero costante e accettabile di persone all’interno, una esce l’altra entra, qui in una piazza abbastanza grande no, bisogna star fuori. Brutto modo. Ma siccome a me e ai miei amici che erano in piazza con me, T. e C., i brutti modi non piacciono, siamo entrati lo stesso. Perché oggi facciamo memoria di persona, se avessimo dovuto farla a distanza, come peraltro tutto il resto dell’anno, saremmo rimasti a casa. Perché poi in giornate così è bene stare insieme, più tardi siamo andati a prendere un aperitivo in una piazza del centro, in tre con due tavolini abbastanza distanti, delle tristi patatine ancora nel sacchetto ma il sole, la brezza, lo stare insieme all’aperto, le chiacchiere sono tutte cose talmente belle, piacevoli e da troppo assenti che hanno oscurato tutto il resto. Le abbiamo assaporate, con calma.
I giorni precedenti:
giorno 81 | giorno 80 | giorno 79 | giorno 78 | giorno 77 | giorno 76 | giorno 75 | giorno 74 | giorno 73 | giorno 72 | giorno 71 | giorno 70 | giorno 69 | giorno 68 | giorno 67 | giorno 66 | giorno 65 | giorno 64 | giorno 63 | giorno 62 | giorno 61 | giorno 60 | giorno 59 | giorno 58 | giorno 57 | giorno 56 | giorno 55 | giorno 54 | giorno 53 | giorno 52 | giorno 51 | giorno 50 | giorno 49 | giorno 48 | giorno 47 | giorno 46 | giorno 45 | giorno 44 | giorno 43 | giorno 42 | giorno 41 | giorno 40 | giorno 39 | giorno 38 | giorno 37 | giorno 36 | giorno 35 | giorno 34 | giorno 33 | giorno 32 | giorno 31 | giorno 30 | giorno 29 | giorno 28 | giorno 27 | giorno 26 | giorno 25 | giorno 24 | giorno 23 | giorno 21 | giorno 20 | giorno 19 | giorno 18 | giorno 17 | giorno 16 | giorno 15 | giorno 14 | giorno 13 | giorno 12 | giorno 11 | giorno 10 | giorno 9 | giorno 8 | giorno 7 | giorno 6
Dall’alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno
Dopo il Libano (e Singapore), anche la Corea del Sud torna al lockdown per via di un nuovo focolaio, offuscando così il mito del Paese che aveva sconfitto il diffondersi del covid grazie alla tecnologia del tracciamento. I dati che li hanno convinti a procedere in tal senso sono i seguenti: nelle ultime 24 si sono verificati 79 nuovi casi di contagio. Per intenderci, meno di quanti non ne abbia registrati oggi la sola Brescia.
Serviranno verosimilmente anni di studio per capire se i dati che ci vengono dall’estero, soprattutto da così lontano, siano esatti e comparabili per (in)affidabilità ai nostri (del resto, se da fuori dovessero fidarsi di quelli ufficiali di cui disponiamo quotidianamente in Lombardia, sarebbero messi proprio bene). Certo è che, ad oggi, pensare di comparare le risposte adottate dai vari Stati e trarne delle conclusioni ragionevoli sembra un’impresa davvero complessa. La via orientale sembra essere decisamente più drastica in termini sia di tempestività, sia di intensità della reazione, e anche i risultati sembrerebbero poi vedersi in un periodo di tempo abbastanza breve. Le decisioni delle democrazie occidentali parrebbero, al contrario, estremamente lente, molto diversificate per quanto concerne il rigore e soprattutto poco sostenibili nel medio periodo, nel quale le ragioni della politica e (soprattutto) dell’economia inquinano in modo più visibile le scelte anche in ambito di salute pubblica.
Solo il tempo dirà – forse – chi aveva ragione. Intanto i Paesi europei continuano il loro processo di graduale riapertura, in ordine sparso e con modalità diverse a seconda del luogo. Pensare a regole anche solo vagamente uniformi di gestione di questi processi, ora come ora, avrebbe l’effetto di una esilarante barzelletta: come si dice in dottrina, ognuno fa un po’ come cazzo gli pare.
Sto seguendo con distacco professionale e intimo divertimento la questione della riapertura delle scuole (per le università ci sarebbe un discorso a parte, ma siccome è noioso lo faremo semmai un’altra volta), che naturalmente è importante non solo per i bambini/ragazzi che ci devono andare, ma anche per i loro genitori che magari vorrebbero riprendere a lavorare regolarmente e che invece se li ritrovano a casa senza un supporto stabile (babysitter, nonni, amici etc.) che li possa seguire. Lo Stato italiano ha tergiversato non poco, poi ha risolto, sulla base del parere degli esperti, che non poteva correre il rischio perché una riapertura delle scuole avrebbe fatto saltare il banco dei nuovi contagi. Ci sono ovviamente state delle reazioni da parte dei genitori, ma alla fin fine abbastanza contenute, più che altro per rassegnazione immagino, e soprattutto per la fine della scuola che – con giugno alle porte –era comunque abbastanza prossima.
Resta ovviamente, dal punto di vista operativo, il problema di cosa avverrà a settembre, e dal punto di vista teorico anche quello del come mai in Francia, Danimarca, Germania e adesso persino nel Regno Unito le scuole (magari non tutte e non tutte allo stesso modo) hanno già riaperto o riapriranno a breve. Per quale ragione per loro non sarebbe una bomba epidemiologica? Al solito, si tratta anche qui di organizzazione, di strutture e di quattrini: in una parola, di investimenti. In Italia il problema semplicemente non si pone perché si parte dal presupposto che, da metà giugno a metà settembre, i genitori sono già abituati ad arrangiarsi, per cui a questo punto non serve altro che estendere questa sana abitudine a tempo indeterminato. Quel che si dice, in lessico economico, una simpatica esternalità.