A conclusione del minidiario, non perché la pandemia sia finita, tutt’altro, anzi oggi si segna pure un rialzo del numero dei contagiati in Lombardia, oltre che in Cina, senza accennare al disastro-Brasile, bensì perché come già detto è finita la reclusione, o quasi, a conclusione dicevo un piccolo riassunto di alcuni passaggi che hanno caratterizzato questi mesi. Un riassunto, dopo tante parole, per immagini.
1. l’ospedale
Il 24 gennaio le autorità cinesi decisero di costruire un ospedale a Wuhan, dedicato ai malati di covid-19. La cosa che suscitò scalpore da noi fu l’annuncio che l’ospedale sarebbe stato costruito in soli dieci giorni e così fu, consegnato il 2 febbraio. Come avremmo capito dopo, il tempo era fondamentale per contrastare l’avanzare del contagio ma noi, ancora, non lo sapevamo. Perché ai primi di febbraio noi facevamo come molte volte abbiamo fatto in questi anni, tra SARS, aviaria, suina e ogni altra epidemia, abbiamo fatto spallucce e ci siamo detti che tanto da noi non sarebbe potuto accadere. Con gli impliciti del discorso, schifosetto. E invece poi l’ospedale l’abbiamo costruito anche noi, anzi loro, e non uno solo ma ben due, a Milano in Fiera e a Civitanova Marche, con esiti inesistenti.
2. l’infermiera
Poi il coronavirus, come lo chiamavamo allora, arrivò anche da noi. Pensammo fosse una sciocchezza e ci dilettavamo ancora a far battute su Codogno e in un men che non si dica gli ospedali, quelli lombardi e quelli veneti in una prima fase, scoppiarono. Terapie intensive stracolme, pronto soccorso assediati e cintati dall’esercito a respingere le persone spaventate, strutture che dovettero stravolgere i reparti, occupando anche sgabuzzini, cucine e ogni altro locale disponibile per cercare di ricoverare il maggior numero di persone possibile. Poi cominciammo a mandare gente in Germania e nelle altre regioni, almeno i più gravi, per poi arrivare a lasciare le persone a casa e accogliere solo i casi più gravi. Il passo successivo fu, purtroppo, gestire i respiratori secondo criteri di probabilità di sopravvivenza, ovvero favorire i pazienti con maggior possibilità di scamparla. Il personale sanitario, medici, infermieri, operatori, amministrativi, dirigenti, volontari sulle ambulanze, chiunque fosse coinvolto, fu investito da un’ondata senza precedenti, e tutti quanti furono costretti a turni massacranti, scelte tremende e difficilissime, al lavoro senza adeguate protezioni, a curare un’infezione senza averne esperienza. Furono chiamati «eroi», «angeli» e poi, mesi dopo, quando fu il tempo di dare loro contratti dignitosi era troppo tardi, il sostegno era svanito. Puf. L’8 marzo, giornata della donna, fu scattata una fotografia a un’infermiera del Pronto soccorso dell’ospedale di Cremona, crollata per la stanchezza nel corso di un turno massacrante. La foto fece il giro della rete, lei si scusò pure perché mancava un’ora alla fine del turno, spiegò che aveva pianto, diventò il simbolo della situazione drammatica negli ospedali. Due giorni dopo, scoprì pure di essere positiva al contagio, come del resto quasi tutti i lavoratori degli ospedali, cui non facevano i tamponi per non doverli mandare tutti in malattia. Elena Pagliarini, questo il suo nome, poi fu giustamente nominata Cavaliere della Repubblica da Mattarella, per il servizio reso alla comunità.
3. i camion
Il 19 marzo per le vie di Bergamo passò un triste corteo di trenta camion dell’esercito carichi di bare. Nelle settimane in cui nella provincia di Bergamo morivano più di novanta persone al giorno, i cimiteri e le sale crematorie non avevano più spazio. Furono vietate le camere ardenti, i funerali, assistere alle cremazioni, molti se ne andarono da casa in ambulanza e tornarono dentro un’urna e i familiari non seppero nemmeno dove erano stati portati. Lo sapranno in futuro, forse. Le bare, accatastate nelle sale dei cimiteri, furono portate con i camion in Emilia, dove esistevano ancora strutture in grado di accoglierle. Fino a quel momento le persone chiuse in casa cantavano sui balconi, suonavano strumenti, si ripetevano che tutto sarebbe andato bene e no, da quella sera fu chiaro a molti che non sarebbe affatto andata bene. Andava già molto molto male.
4. la fila
La spesa la può fare una persona sola per nucleo familiare, all’entrata verrà provata la temperatura, si dovranno indossare mascherina e guanti, dentro il supermercato potranno stare solo una persona ogni quattro metri quadri, dovrete recarvi nel supermercato più vicino e, comunque, non fuori dal comune di residenza, ma non abbiate paura: il cibo non mancherà. Mancarono fin da subito, invece, i disinfettanti, l’alcool, i guanti monouso, le mascherine, l’acqua in una prima fase, la pasta, in un delirio di accaparramento per fortuna sgonfiatosi in poco. E fu così che noi italiani imparammo a fare la coda. Non durerà ma in quei giorni lo imparammo. La foto di un supermercato di Prato diventò emblematica di una situazione diffusa, le lunghe code per fare la spesa. Cambiarono gli orari, i dipendenti ai banchi, nelle corsie e alle casse si sentivano giustamente esposti, tornarono l’acqua e la pasta e sparirono lievito e farine, anche se non sempre per questioni di accumulo. Tutto sommato, la cosa fu disciplinata, al di là di eventi singoli più che altro nella fase iniziale. Il timore, giustificato, di vedere l’esercito per strada che consegna le razioni non ebbe, fortunatamente, esito.
5. le oche
A Marina di Pietrasanta le oche attraversarono la strada in gruppo, a Venezia apparvero i pesci nei canali e, si dice, un polipo, ovunque volpi, conigli, qualche camoscio, io stesso ho visto una cornacchia e una biscia lottare in mezzo alla strada deserta, e poi i cinghiali a ravanare nella spazzatura, i delfini a Cagliari, i tassi in centro a Firenze, le anatre in piazza di Spagna a Roma, nelle città ricomparvero gli animali. O c’erano sempre stati ma erano sempre stati guardinghi, per non finire stirati sotto le auto. Ora meno, diminuito il caos, il rumore, con l’assenza di persone per strada, si ritrovarono in un habitat meno aggressivo e meno mortale. Con meno inquinamento, pure, nonostante qualcuno si divertisse a sostenere il contrario.
6. la piazza
Il 27 marzo il papa rivolse una preghiera sul sagrato della Basilica di San Pietro con la piazza completamente vuota. La pioggia, i colori della sera di fine marzo, il blu del cielo e il giallo delle luci, il beige del travertino, i riflessi, soprattutto il bianco, unico, della tunica papale, il deserto di una piazza solitamente mai vuota, nemmeno a notte fonda, composero un’immagine perfetta, ben più in là di ogni fervida immaginazione fino a quel punto. Un uomo solo in preghiera per l’umanità preda della pandemia, si può anche non essere sensibili alla cosa ma non si può negare la grandiosa potenza simbolica della situazione. Non un’immagine bella né rassicurante, anzi inquietante per molte ragioni, triste, solitaria, composta però di elementi perfetti che il caso e la regia hanno reso eccezionalmente forte.
7. la fossa
A inizio aprile arrivò il contagio anche negli Stati Uniti. Già si era allargato all’Europa nei giorni precedenti, seppur in ritardo rispetto all’Italia, e si diffuse con velocità a partire da New York, nonostante le improvvide e incaute affermazioni del loro presidente. Nello Stato atlantico i contagi raggiunsero i centosettantamila in pochi giorni e, di conseguenza, i decessi aumentarono rapidamente, fino a raggiungere gli ottomila il dieci di aprile con un ritmo di oltre settecento al giorno, un numero abnorme. Anche lì gli obitori, le camere ardenti, i camion refrigerati non bastarono più, il periodo per reclamare una salma passò da sessanta a quattordici giorni per timore di infezione, per cui il sindaco decise di seppellire i morti a Hart island, l’isola di New York dove da un secolo vengono inumati i corpi non reclamati da nessuno. Le immagini dell’enorme fossa comune suscitarono sensazione in tutto il mondo, in particolare quello cattolico romano, poco abituato al pragmatismo razionale del mondo anglosassone anche in tema di sepolture. Di certo, l’immagine trasmetteva con chiarezza la portata del disastro anche oltre oceano. Poi, da est il contagio si spostò negli stati centrali e a ovest.
8. i generi primari
Negli Stati Uniti, il sopraggiungere del contagio verso gli stati centrali significò immediatamente per centinaia di migliaia di persone la perdita del lavoro e di qualsiasi mezzo di sussistenza, come capita sempre nelle economie iperliberiste in caso di crisi. Lavoratori e lavoratrici che nell’arco di pochi giorni si ritrovarono senza un lavoro e senza alcuna tutela si rivolsero alle cosiddette Food bank, istituzioni filantropiche che distribuiscono da sempre derrate alimentari agli indigenti attraverso le food pantries, una sorta di mense dei poveri. Poiché, però, il timore del contagio e soprattutto l’aumento vertiginoso della richiesta causarono un sovraffollamento pericoloso, fu deciso di distribuire il cibo lasciando le persone in auto, in coda. Significativa fu la fotografia scattata a San Antonio, in Texas, con un enorme parcheggio pieno di auto in attesa, il cibo e i generi primari di sopravvivenza vennero distribuiti da addetti che li posavano direttamente nel baule, seimila auto per ricevere circa cinquecento tonnellate di cibo, due pacchi a testa per circa un mese. Vorrei mettere l’accento sul fatto che non si trattava di poveri, i poveri venivano indirizzati alle mense e di certo non avevano l’auto, bensì di lavoratori messi in crisi dalla pandemia, privati di un lavoro perché le aziende erano in lockdown e privi di risparmi propri, come tipicamente accade negli Stati Uniti, oppure in attesa di assegni di assistenza federale che ci avrebbero messo settimane ad arrivare.
9. i controlli
Pattuglie, droni, moto, quad, cellulari, elicotteri, polizia, guardia di finanza, vigili locali, carabinieri, le forze messe in campo per garantire il rispetto del lockdown sono state ingenti. Per liberare altre risorse, in alcuni comuni lombardi, tra cui Milano, Bergamo e Brescia, fu inviato l’esercito, per svolgere mansioni di controllo quotidiano. Controlli ripetuti, moduli su moduli di autocertificazioni, multe deliberate e ingiustificate, ammende e ramanzine sommimistrate a piacimento, nella prima metà di aprile la pressione sui cittadini fu davvero intensa. Una certa impressione fecero i droni dotati di sirena e faro, incaricati di sorprendere gli atleti in giro a correre, segnalandoli in maniera decisamente spinta. Nei centri abitati il rispetto delle norme fu sicuramente maggiore che in provincia, più abituati a una certa distanza e a consuetudini dure a morire, non c’era giorno in cui non fossero diffuse notizie di multe pittoresche ed evasioni creative, quasi tutte inventate come sempre. Serviva anche quello a ricreare le ore di reclusione. L’immagine dell’uomo che prendeva la tintarella a Rimini, incastrato dal drone e dalla pattuglia di poliziotti in quad, fece anch’essa il giro della rete, sia per la composizione della foto, indubitabilmente bella, sia per lo sforzo profuso, decisamente eccessivo. Sia, va detto, per una certa somiglianza con una scena di Star Wars.
Ne parleremo ancora, magari con frequenza settimanale o giù di lì, perché la situazione è tutt’altro che risolta, ma il minidiario, cominciato più di cento giorni fa, finisce qui. Grazie in particolare al signor F., che mi ha accompagnato con il suo personale e puntuale minidiario ogni giorno (per chi non se ne fosse accorto è il primo commento a ogni post del mio minidiario), con il quale mi sono confrontato e grazie al quale ho avuto una visione simile e diversa di giorno in giorno; grazie poi alla signora T., che ha condiviso qua e là il suo minidiario occasionale, e a tutti quelli che hanno voluto condividere un pensiero in questi mesi di pandemia. Infine, grazie a tutti coloro che hanno letto, non hanno lasciato segno scritto ma mi hanno riferito a voce di avere apprezzato (e, talvolta, riso). Grazie, non è stato sempre facile ma sapere che c’era qualcuno là fuori come me è sempre stato il pensiero più importante.
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