Si può fareeee. Ce l’ho fatta, sono fuori. È possibile valicare il confine, la coppola, lo scacciapensieri, l’asinello e il carretto con le nappine sono serviti, non se ne sono accorti e sono nella Svizzera verde. A parte la temperatura misurata con lo scanner un tanto al chilo in stazione Centrale a Milano, nessun controllo. A Domodossola due vivaci poliziotte con giubbetto antiproiettile mi hanno semplicemente chiesto se avessi nulla da dichiarare (aggiunta spontanea: carne, alcoolici… ma che? Niente più soldi?) e via, nonostante l’evidente confine con la Lombardia. Ahah, non mi riporterete indietro. In treno la mascherina è obbligatoria e devo dirlo, dando inizio a un tormentone ricorrente di questo minidiario, temo: non solo tutti la indossano ma nessuno in modo men che corretto. Niente naso fuori, sul mento, dietro la testa, appesa all’orecchio, niente. Respirano tutti bene. Su la mascherina e basta, poche storie, avranno una conformazione dell’apparato respiratorio diversa dalla nostra. Bene, la solita umiliazione degli italiani all’estero, oltre al fatto, come sempre, che nessuno telefona e se lo fa esce dallo scompartimento o lo fa rapidamente e a bassa voce. Però, bisogna dirlo, al di là della frontiera il cielo è più velato, non azzurrissimo come questo giovedì italiano, se ne deve tenere conto. E poi come si mangia in Italia, perdio.
Dopo un lago Maggiore splendente di luce riflessa, con le isole Borromee addirittura scandalose per amenità, attraverso la Svizzera, affiancando a un certo punto il treno per Zermatt e il Cervino, bello rosso che fa subito plastico ferroviario, punto il confine francese ma mi fermo a Basilea, voglio vedere com’è e così domani come prima cosa scavallo. Non c’è, devo dire, alcuna sensazione di emergenza, l’unico segnale tangibile al valico è stato un sms in tema covid-19 che raccomanda di seguire le indicazioni dell’Ufficio federale della Sanità pubblica, nient’altro. Nemmeno il solito messaggio di benvenuto dal nuovo gestore telefonico. Tutto molto tranquillizzante.
E così ancor di più appena arrivo a Basilea. Stento a capire, alcuni hanno la mascherina, altri no, sia all’aperto che al chiuso. Poi, dopo un po’, capisco che è a piacimento. Se uno desidera, mette, altrimenti non rientra nelle raccomandazioni sanitarie in senso stretto (distanza, disinfezione, sputazzi nel gomito). Ma nemmeno nei posti chiusi, il che è strabiliante per me, abituato agli ultimi mesi. Capita così che si veda gente in bicicletta con la mascherina che la toglie per entrare in un negozio, oppure novantenni senza e tredicenni con. Vado al Kunstmuseum, dato che ci sono una gran quantità di Holbein e Cranach che voglio vedere, oltre a un paio di Otto Dix sensazionali, per capire come funziona nei musei.
Visto? Niente prescrizione per la mascherina. Ma mentre l’addetto mi mostra la mappa del museo e mi dice iu can co apzterz io non ascolto più e penso amico, tu sei davvero troppo troppo vicino, dalle mie parti adesso saresti arrestato, disinfestato, rinchiuso e «Immuni» avrebbe cominciato a suonare. Mi sento persino un po’ a disagio a non avere la mascherina al chiuso, come mi sentivo a disagio ad averla nei primi tempi. Come ci si educa, no? Dura poco, la metto in tasca e poi è proprio bello non averla. Raccomandano distanza sui sedili, sui treni per esempio vendono un biglietto sì e uno no, come da noi, ma non sentono il bisogno di attaccare adesivoni e appendere cartelli sui posti non utilizzabili, dato che si procede a prenotazione. Ogni sportello, che sia museo, biglietteria, albergo o cassa, ha la separazione in plexiglas, la mattina presto passano a disinfettare panchine e fontane nei parchi ma mi pare che, grossomodo, finisca qui. E tutto è abbastanza sereno. Vado a salutare Erasmo da Rotterdam nella cattedrale e a vedere il museo Vitra almeno da fuori.
Erano quattro mesi che desideravo scorrazzare per quel meraviglioso là fuori che è il mondo, che – pare difficile a credersi – esiste anche quando non lo visito o sono rinchiuso in casa per pandemia, Finalmente ci sono: prati, musei, montagne, capre, città e paesi, persone, nuvole, fiumi, auto e aerei, tombe, supermercati, boschi, villette, condomini, panini, lattine, sandali con le calze, piste ciclabili, la grazia e la bellezza, la gentilezza e la brutalità, l’interesse e il disinteresse, il desiderio e la povertà, c’è tutto e non potrebbe essere meglio. Grazie a dio adesso si può, come sembrano lontani quei giorni in cui ci si parlava attraverso le porte e, allo stesso tempo, come pare lungo e faticoso questo periodo. Incredibile pensare siano solo mesi o settimane. Ora è il momento di godere di tutto ciò che si riesce a ottenere di nuovo. Dice Guccini che la gente dopo la guerra aveva una voglia di ballare che faceva luce, fatte le debite proporzioni e con la cautela del caso, anche ora è tempo di ballare, almeno un po’.
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