minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno quattro, Olanda

Lascio Spira e faccio un balzo: dritto verso l’Olanda. Oddio, dritto: carretto fino a Mannheim, poi treno bello fino a Duisburg – luogo in cui qualche anno fa noi italiani abbiamo dato segno del nostro bel carattere prendendoci a pistolettate in una pizzeria – e poi altro treno veloce per scavallare la frontiera e arrivare a Utrecht. Che se ieri «Spira» significava «Dieta», «Utrecht» significa «Trattato di» (anche se spesso lo si chiama «Pace di») per chi si è dovuto smazzare le guerre di successione spagnola del primo Settecento. Un incubo. A Mannheim, tra il carretto e il treno bello, ho circa un’ora, me la sono ritagliata apposta perché voglio vedere il castello. A un certo punto, il principe elettore del Palatinato, il più importante, si spostò da Heidelberg, qui vicino, a Mannheim, facendosi costruire appunto l’enorme castello barocco.

Come è possibile apprezzare dalla foto, a Mannheim paiono essere tutti morti. O sono stati contagiati e appariranno all’improvviso come orda urlante per mangiarmi il cervello. Ahah, state freschi. A Mannheim c’ero già stato alcuni anni fa per un concerto degli AC/DC – al vicino circuito di Hockenheim, per essere precisi – ed è stato in assoluto il concerto peggio organizzato e, non bastasse, pure il più pericoloso. Mannheim ha due prerogative interessanti: la prima, tangibile, è che è una città a pianta quadrata inscritta in un cerchio non chiuso; per questo motivo, le vie non hanno nomi ma numeri e, guarda un po’, sembra New York per questo (il contrario, in effetti); la seconda, è che essendo una città industriale fin dall’inizio, ha assistito alla nascita di due fondamentali mezzi di trasporto moderni: la draisina, antesignana della bicicletta, invenzione del barone von Drais nel 1817 e la prima auto, il triciclo dotato di motore di Karl Benz del 1885, che poteva arrivare all’inebriante velocità di 12 chilometri all’ora. Il doppio del passeggio, non prenderei la cosa con leggerezza.

Mentre sono in treno verso Duisburg, qualche cosa sulle ferrovie tedesche devo dirla. Quindi, vi avviso: inizia l’«Apologia senza freni dì Deutsche Bahn (facendo capire senza dirlo che Trenitalia al confronto fa cacare)». Potete saltare da qui, se la cosa non vi appassiona. Dunque, dopo aver acquistato il biglietto con la DB App, mi arriva una conferma di questo tipo. Ve ne sottopongo alcuni elementi.

Vado a iniziare. Primo fatto: a fianco dell’orario e del luogo di partenza, indicano il binario. Grazie, signori, io vi dico: grazie. Ed è pure giusto, sempre, perché se dovesse cambiare ti inviano una notifica con largo anticipo. Chiunque abbia sperimentato delle coincidenze strette sa benissimo quanto sia comodo sapere in anticipo il binario di arrivo (c’è anche quello) e quello di partenza dell’altro treno. Iddio vi benedica. Secondo, non trascurabile: indicano la destinazione finale del treno, altra cosa comoda, rispetto a conoscere solo la propria destinazione finale che, di solito, è una fermata intermedia e non è citata nei tabelloni delle stazioni. D’accordo, con l’ora e il numero del treno si fa lo stesso ma così è più comodo. E non costa niente farlo. Terzo elemento, prima di arrivare all’estasi finale: questo è un elemento-pandemia, nel senso che prima non c’era, ovvero l’avviso giallo sotto che avverte quando più della metà dei biglietti è stata venduta e, dunque, non ci sarà il distanziamento. Che, peraltro, in Germania non è obbligatorio sui treni, quindi è solo una gentilezza avvisare. Ed eccomi alla sublimazione: il pulsante rosso «Komfort Check-in» permette, schiacciandolo, di inviare al capotreno l’informazione che uno è al proprio posto e, ovviamente, ha il biglietto. Il che significa, in sostanza, che non gli verrà chiesto il biglietto né altro per tutto il viaggio, il che significa, ancor più in pratica, che ci si possono mettere le cuffie, sballarsi di metanfetamine e dormire per le ore successive in tutta tranquillità. Se vi pare cosa trascurabile, siete dipendenti di Trenitalia o viaggiate davvero poco in treno. Come non bastasse, la stessa app permette di cambiare posto, perché lo si scambia o se ne preferisce un altro, e segnalarlo con il check-in di prima, senza quindi dover pronunciare la frase: «Salve, io avrei il posto 14b ma mi sono spostato…». La differenza grossa, in questo, è che qui i posti liberi sono segnalati, così uno sa che non si siede al posto di un altro che salirà dopo (non potendosi così fare di metanfetamine, dovendo stare sveglio). Una volta era così anche da noi, con i bigliettini di carta sui treni a lunga percorrenza, poi abbiamo perso la bella abitudine. Tutte queste sono piccole cose in sé, siccome però costa molto poco farle e renderle disponibili ai viaggiatori – i dati ci sono già tutti – e la qualità del viaggio ne guadagna moltissimo, io chiedo: perché non lo fate, trenitalioti? Sì, io vi odio. Fine dell’«Apologia senza freni dì Deutsche Bahn (facendo capire senza dirlo che Trenitalia al confronto fa cacare)». Anche se credo di averlo detto.
Il compagno di viaggio più simpatico del tragitto tra Mannheim e Colonia è questo signore ultrasettantenne con i sandali, lo zaino in pelle e la mascherina con la bocca rossa warholiana dei Rolling Stones. Lunga vita al rock – intendo come atteggiamento di vita, in questo caso – amico. Buon viaggio, ovunque tu stia andando.

A Utrecht ci sarei dovuto venire a maggio, per sentire Nicole Atkins (qui una sua cosa vecchia, divertente, e un’altra, dai), poi la cosa è ovviamente saltata. Eccomi qui, ora. Alla frontiera nessun cenno – e si vociferava di obbligo di prenotazione alberghiera da esibire – in stazione quasi nemmeno e mi rendo subito conto: nessuno, dico nessuno, ha la mascherina. Dentro e fuori, sopra e sotto. Ma non ce l’hanno nemmeno da accompagnamento, niente. Agli sportelli, anche alla biglietteria della stazione, hanno la parete di plexiglas e null’altro. E nulla è richiesto. Dopo un po’ di vagolare, stranito perché ormai mi fa effetto entrare al chiuso e non avere delle cose davanti alla faccia, mi accorgo che ci sono dei tizi, tipo agenti anti-movida da noi ma per il traffico, che gestiscono i flussi di persone, dirottandole in strade rese a senso unico pedonale. Hanno anche, come si vede sotto, pannelli a messaggio variabile e segnaletica varia. E fermano e direzionano davvero le persone.

Risultato di cotanto sforzo? Tutti insieme assembratamente. Belli, felici e avvinazzelli. Che dire? Sfugge il senso della gestione dei flussi se, poi, la faccenda si esplica in questo modo, lasciate perdere e ognun sia libero di fare ciò che gli va, no? Che, tanto, del doman – almeno in Olanda – non v’è certezza.

In albergo, ed è la prima volta, mi fanno firmare un’autocertificazione, tipo le nostre ma senza tutta la pappardella leguleica, in cui dichiaro sotto la mia responsabilità di non aver fatto, di non aver toccato, di non aver tossito, di non aver visto e così via. Tutto attorno, vita normalissima. Di più: vita estiva normalissima, locali, cene, balli, casino. Utrecht è città ad alta densità di studenti universitari, quasi trentamila, il dieci per cento del totale, difficile tenerli nelle gabbiette a guardarsi da lontano o chiedere moderazione. Che poi nemmeno ce l’hanno anche gli altri olandesiani, la moderazione. Bene, fate vobis, gestitevi come credete però non dovreste, olandesi, romperci le palle sul MES e sugli aiuti europei. Ecco, dunque, il programma del minidiario di domani: cose cattive sugli olandesi e il mio piano per l’Europa.

Nel frattempo, a sera, succede una cosa, e io non so se rallegrarmi o preoccuparmi.

Non vi dirò mai, MAI!, la verità riguardo le pratiche degli alieni nei rapimenti di esseri umani, specie su quelle cose brutte delle sonde anali. Non ve lo dirò mai. Capito? Mai. Non insistete.


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