Poi, all’improvviso, mi trovo uno in casa. «E tu chi sei?» chiedo. «Sono il tuo vicino, abito tre case più in là». È vero, ci siamo già visti, so più o meno chi è. «E cosa fai qui?», dico io, «Sistemo le mie cose» risponde lui tranquillo. «Scusa, in che senso?», comincio ad allarmarmi. «Nel senso che pensavo di spostare qui il mio salotto e di usare quella camera come studio. Ho molti libri, sai?». «No, aspetta. Questa è casa mia», dico cercando di tenere un tono fermo. «No, questa era casa tua, adesso è casa mia», afferma serenamente. «Ma questo non si può fare!», esclamo io, agitato. «Certo che si può, tutti noi che abitiamo oltre la rotonda ci stiamo prendendo le case in qua, come la tua. Non sei l’unico, sai?». «Eh, non è che questo mi consoli. Ma perché volete cambiare casa?», chiedo ma sto andando in confusione. «Non stiamo cambiando, ci stiamo allargando. E la ragione è ovvia, perché abbiamo bisogno di spazio. Di più spazio». Non capisco. «E io? E il mio spazio?». «Ah, a me non importa», dice, «puoi andare dove vuoi, puoi spostarti verso est». Resto interdetto. «Al momento», prosegue, «puoi restare in una stanza, quella in fondo, ma quando ne avrò bisogno dovrai smammare». «Ma le mie cose?», balbetto. «Le tue cose le ho buttate, detto tra noi tra l’altro facevano schifo», spiega paziente, «quello che resta l’ho buttato dalla finestra, lo trovi giù». E, non contento, «il cassettone invece lo tengo, quello è bello». «Ma è mio!», insisto. «Allora sei de coccio, ora serve a me». «Ma… non… non si può…», le parole mi si strozzano in gola. «Eeeeeh, ciao, ci vediamo, ora vai che devo sistemare le cose» e mi spinge verso la porta. «Guarda che chiamo la polizia, se non vai», mi ingiunge. «La chiamo io la polizia», ribatto. «Ahah», ride, «la tua polizia adesso è la mia. Ora va’ che ho da fare». E io mi ritrovo fuori dalla porta di casa mia.
Si può chiamarla invasione, si può chiamarla occupazione o, più pacatamente, necessità di «spazio vitale». Il concetto è sufficientemente mostruoso quando viene declinato occupando lo spazio altrui, che evidentemente vitale non è. O, se anche lo fosse, è vitale meno meno, o è vitale per una forma di vita che conta meno. O chi se ne importa, in fondo. Ed è così che il primo settembre 1939 i tedeschi occuparono la Polonia, per riguadagnare il proprio «spazio vitale», il lebensraum. C’era stato un patto otto giorni prima, il patto Molotov-Ribbentrop, che noi in Italia studiamo come patto di non belligeranza, o di mutua non aggressione, tra Germania e Unione sovietica. I polacchi, invece, lo studiano come il patto di spartizione della Polonia e, in effetti, è difficile dare loro torto. Come si diceva ieri, mai fidarsi dei tedeschi, nemmeno quando sottoscrivono un documento ufficiale, perché della non aggressione se ne fecero un baffo poi, ma per i primi tempi andò bene così: la Germania si pigliò buona parte del paese, l’Unione sovietica il resto e buonanotte alla Polonia. Il sentimento, come dargli torto?, qui è molto diffuso: non possono vedere i tedeschi e, tantomeno, i russi. E fin qui è comprensibile. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, il famoso colpo di fucile di Danzica nella notte del primo settembre, noi lo studiamo come il risultato delle mosse espansionistiche della Germania nazista dall’anschluss austriaca alla questione dei Sudeti alla conferenza di Monaco, qui lo studiano come l’aggressione congiunta di Germania e Unione sovietica alla Polonia. I primi, poi, li hanno occupati per sei anni, i secondi per i successivi cinquanta o giù di lì, in sostanza. Fin qui si può capire, dicevo, poi meno.
I polacchi son gente simpatica, non proprio dei burloni ma abbastanza gioviali, diciamo. Hanno qualche problemino, di cui dirò poi, ma in sostanza sono piuttosto piacevoli. Certo, non è che ti gettino le braccia al collo o instaurino conversazioni complesse con gli estranei se sono sobri (e qui comincia a delinearsi il primo problema) ma sono sufficientemente gentili, ci si può facilmente parlare e per strada si gira tranquilli. Presi individualmente. Perché collettivamente sono proprio un’altra cosa: ultranazionalisti e iperreligiosi. Quando alcuni anni fa noi avevamo un evidente problema con Berlusconi, i polacchi erano riusciti nel non semplice compito di essere messi peggio di noi: avevano eletto due gemelli idioti ultrareazionari, uno alla presidenza della Repubblica e uno del Consiglio. Cosa statisticamente probabile quanto un asteroide che colpisce in testa Elvis Presley mentre è a cavalcioni di un dinosauro. Poi, uno dei due gemelli si è schiantato con l’aereo e i polacchici hanno avuto la bella idea di seppellirlo sulla collina di Wawel a Cracovia, dove sono sepolti i re Jagelloni, bellissimo posto. Certo, anche i bulgari fanno la loro bella figura, visto che alla caduta della monarchia hanno votato l’ex re come presidente della Repubblica, ma qui voliamo abbastanza alto, se mi si perdona l’immagine aerea avendo appena parlato di incidenti mortali.
Quindi, se il legittimo risentimento, politico e storico, per la congiunta invasione viene letto in chiave ultranazionalistica, la cosa comincia a farsi pesante. Ancor di più se a questa viene sovrapposta la metafora religiosa: la Polonia – non sto scherzando, la si legge dappertutto – è il Gesu Cristo d’Europa. Bistrattata, umiliata, crocifissa ma, alla fine, nel giusto. E con pazienza e infinita virtù di sopportazione.
Ecco, io con questo sentimento collettivo ho le mie difficoltà a rapportarmici. Individualmente, bene, l’ho detto. Hanno solo qualche problemino con gli alcoolici – non tutti i polacchi, i giovani molto meno, e mai in maniera troppo aggressiva – e con Gesù, che torna sempre quando devono decidere qualsiasi cosa inerente la propria vita quotidiana e sociale. Ma è collettivamente che diventano difficili. Il governo nazionalista guidato da Morawiecki, del PiS («Diritto e Giustizia»), sta ovviamente facendo il contrario di quanto dichiarato nel nome, devastando lo Stato di diritto e suscitando non poche perplessità a Bruxelles. E l’andazzo prosegue da trent’anni.
Ecco, l’avevo promesso, ho parlato della Polacchia e dei polacchi. Io ora andrei avanti, rapportandomi con loro il più possibile in modo individuale e cercando di cogliere il meglio, senza dire stupidaggini ad alta voce su Wojtyla, Gesù, Stalin, Hitler, gli Ucraini – odiano pure quelli, che si son presi Leopoli e tutte le zone circostanti – e ricordando, magari, i bei tempi in cui avevamo un papa polacco, Boniek la sera galoppava verso l’area e la Panda la costruivamo qui. I bei tempi dell’amicizia italo-polacca, due pappine in semifinale ai mondiali del 1982 e bon, tutti amici e perciòffelici.
Venendo a me e alle mie avventurelle, oggi ho raccattato le mie carabattole, ho salutato Łódź e mi sono rimesso in moto su altri intercity in direzione della Pomerania. Certo, voivodato della Cuiavia-Pomerania, mi scuso, non volevo parlare a vanvera ed essere impreciso. In Pomerania non è che abbiano le mele, semplicemente in polacco vuol dire «vicino al mare», perché è lì che gradatamente, con calma grazie ai potenti mezzi pubblici polacchi, sto andando. Sto cominciando a delineare un itinerario, il giro si sta facendo chiaro sulla mappa, alla fine. Ho preso il treno per Danzica ma io a Danzica ci son già stato, per cui mi fermo un pochetto prima.
Oggi vado a trovare Copernico.
Da domani, promesso: basta bigini di storia raffazzonata. Più minidiario di viaggio e meno contesto. Ce la farò? Mmm, non mi fido di me. Nel frattempo, per predispormi, ascolto Sprawl II degli Arcade Fire. E in polacchico «sì» si dice «tak», un po’ strascicato, tipo taaàc. Che a me fa ridere perché mi viene in mente di continuo: il letto minimal reclinabile dalla parete per una vita moderna? Taàc.
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