Ricevo e pubblico volentieri.
C’è chi asseconda le proprie passioni andando per osterie e chi per DPCM. (Talvolta i due piani si intrecciano, visto che pare attestato in letteratura un aumento del bisogno di alcolici successivo alla lettura di un DPCM, anche se fatalmente spesso il DPCM ha per contenuto proprio il divieto di esercizio per i ristoratori…).
Oggi (4 novembre), dopo lunga gestazione, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha partorito la sua ultima creatura, i cui disposti dovrebbero entrare in vigore venerdì (6 novembre) e mantenere la loro efficacia per lo meno fino al 3 dicembre. E già qui si consuma il primo mistero, visto che il testo del Decreto inizialmente riportava (art. 12) come entrata in vigore quella di giovedì 5 novembre, ma tant’è, a posticipare c’è sempre tempo.
Il DPCM detta alcune regole di carattere nazionale (ad esempio: “coprifuoco” dalle 22 alle 5) e poi prevede la suddivisione del Paese in tre diverse aree, a crescente intensità del rischio, prontamente soprannominate dalla stampa zone “verdi” (poi mutate in “gialle”, per non dare l’errata impressione di una sicurezza che ovviamente non c’è), “arancioni” (art. 1-bis: scenario di elevata gravità e da un livello di rischio alto) e “rosse” (art. 1-ter: scenario di massima gravità e da un livello di rischio alto). Alla crescente intensità del rischio corrispondono maggiori restrizioni, che sono quindi massime nelle c.d. “zone rosse”.
A individuare le zone arancioni e rosse si provvederà (art. 1-ter, comma 1) «con ordinanza del Ministro della salute, adottata sentiti i Presidenti delle Regioni interessate, sulla base del monitoraggio dei dati epidemiologici secondo quanto stabilito nel documento di “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno invernale”, condiviso dalla Conferenza delle Regioni e Province autonome l’8 ottobre 2020 (allegato 25) nonché sulla base dei dati elaborati dalla cabina di regia di cui al decreto del ministro della salute 30 aprile 2020, sentito il Comitato tecnico scientifico sui dati monitorati».
Norma dal contenuto particolarmente sibillino per tutti i non addetti ai lavori e che prontamente ha scatenato polemiche di cui si sentiva un forte bisogno da parte dei Presidenti delle regioni, a partire da Attilio Fontana, che ovviamente non vorrebbero essere incluse nella lista dei cattivi. Uno degli argomenti addotto da Fontana per lamentarsi anticipatamente della (quasi certa) inclusione della Lombardia nelle zone rosse è che i dati utilizzati per effettuare la valutazione sopra accennata sono vecchi di una decina di giorni. Obiezione di per sé inappuntabile, ma che a fronte delle performance lombarde dell’ultima settimana rischia di restare un po’ sterile se non si precisano quali sarebbero i nuovi dati che dovrebbero deporre nel senso di un miglioramento (e non di un ulteriore peggioramento) complessivo della situazione.
È peraltro prevista anche la possibilità (art. 1-ter, comma 2) che, all’interno di una regione classificata come zona rossa, si diano delle sottozone (il DPCM non ne precisa il criterio di individuazione: province? comuni? aree ancora diverse non meglio precisate?) che potrebbero essere in tutto o in parte sottratte alle limitazioni più stringenti previste per la macro-zona. Infatti, «Con ordinanza del Ministro della salute adottata ai sensi del comma 1, d’intesa con il presidente della Regione interessata, può essere prevista, in relazione a specifiche parti del territorio regionale, in ragione dell’andamento del rischio epidemiologico, l’esenzione dell’applicazione delle misure di cui al comma 4». Quindi, Lombardia zona rossa non significa automaticamente che lo sia anche Gardone Riviera.
Interessante (art. 1-ter, comma 3) anche il meccanismo disposto per il monitoraggio della permanenza in situazione di alto rischio: «Il Ministro della salute, con frequenza almeno settimanale, secondo il procedimento di cui al comma 1, verifica il permanere dei presupposti di cui ai commi 1 e 2 e provvede con ordinanza all’aggiornamento del relativo elenco fermo restando che la permanenza per 14 giorni in un livello di rischio o scenario inferiore a quello che ha determinato le misure restrittive comporta la nuova classificazione. Le ordinanze di cui ai commi precedenti sono efficaci per un periodo minimo di 15 giorni e comunque non oltre la data di efficacia del presente decreto». Da una prima lettura della disposizione non si capisce se il Ministro della salute, che è tenuto a verificare il permanere dei presupposti almeno settimanalmente, possa aggiornare l’elenco anche prima e indipendentemente (ma sulla base di quale criterio, allora?) dalla permanenza (continuativa? Ma accertata ogni quanto?) per 14 giorni di un territorio in uno scenario di rischio inferiore, permanenza che parrebbe implicare l’automaticità del mutamento di classificazione. Il fatto che le ordinanze abbiano efficacia per non meno di 15 giorni farebbe propendere per l’impossibilità di un cambiamento in corsa, soluzione che potrebbe anche essere sensata per attendere gli effetti delle misure di contenimento più severe (ma lo stesso ragionamento non vale per le eventuali sub-zone “esentate”); in questo caso, tuttavia, si ripropone il problema dell’aggiornamento dei dati, visto che decidere – come sta avvenendo ora – sulla base di dati vecchi di dieci giorni, per di più forniti dalle stesse regioni, rischia di inceppare non poco il meccanismo.
Per quanto concerne, infine, le limitazioni previste per le zone rosse, esse sono abbastanza simili a quelle del lockdown di marzo, salvo per il fatto che parrucchieri e liberi professionisti possono lavorare: divieto generale di spostamento anche nelle ore diurne, salvo che per «comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute» (art. 1-ter, comma 4, lett. a), sicché per muoversi servirà sempre l’ormai classica autocertificazione.
Postilla sulla possibilità di movimento. L’art. 1-ter, comma 4, lett. e, prevede che sia «consentito svolgere individualmente attività motoria in prossimità della propria abitazione purché comunque nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona e con obbligo di utilizzo di dispositivi di protezione delle vie respiratorie», laddove «è altresì consentito lo svolgimento di attività sportiva esclusivamente all’aperto e in forma individuale». Al di là della consueta vaghezza – già a suo tempo stigmatizzata – del concetto di “prossimità della propria abitazione”, e della sonora insulsaggine di questo vincolo quando il problema non è certo il luogo in cui si svolge attività motoria, ma il rispetto del distanziamento (che non è per nulla garantito se in ipotesi molti si riversino nella stessa strada dove abitano piuttosto che disperdersi per altre vie), resta il fatto che mentre la attività motoria soggiace al limite della prossimità, quella sportiva ne parrebbe esente: quindi tutti in tuta e via!