minidiario scritto un po’ così delle cose recidive, ovvero perseverare nella pandemia: dicembre, fatti imprevedibili che mandano a monte un piano ben oliato, novecentotrentamilioni di tedeschi, c’è alla porta il Signor Lamorte

Ed è poi arrivato il 27 dicembre, il giorno europeo della vaccinazione. In Germania vaccinata una signora di centoun anni o giù di lì, in Spagna un altrettanto matusalemme, in Italia una giovane operatrice sanitaria. Son scelte. Non male la coreografia del furgoncino con le prime dosi del vaccino – poco meno di diecimila – che valica il Brennero innevato con la scorta dei carabinieri per arrivare allo Spallanzani di Roma. Da lì, poi, alla base militare di Pratica di mare e ai principali ospedali selezionati. Poi volano i numeri: un milione di vaccini al mese, no, quattrocentomila a settimana, no, tutti vaccinati per settembre, no, sì, boh. Ma i conti, si sa, vanno fatti con l’oste, che deve essere d’accordo: dopo tre giorni già si parla di ritardi, in Italia, l’UE poco fa annuncia che non darà l’autorizzazione al vaccino Oxford-Astrazeneca prima di febbraio, proprio mentre la Gran Bretagna annuncia di averlo fatto, vedi le coincidenze, e questo fa sballare i già precari conti. Domanda: su quale vaccino lo Stato italiano ha investito di più? Dai, non è difficile. Esatto, Oxford-Astrazeneca. Quindi, tocca rifare i conti, correre ai ripari, riformulare i piani con una certezza: ci saranno dei ritardi su quanto programmato. Impossibile prevedere.
Altri numeri. Per il giorno della Grande Vaccinazione, all’Italia vengono date 9.750 dosi, alla Germania 151.125. Eh? Ma è ovvio, spiega il commissario all’emergenza Domenico Arcuri, «le dosi sono in base alla popolazione» (e se metto il virgolettato vuol dire proprio quello, testuale). Che faccio? Mi felicito con i novecentotrentamilioni di tedeschi? Poi salta fuori pure che proprio la Germania ha acquistato privatamente, cioè al di fuori degli accordi presi dall’UE per tutti gli Stati membri, oltre trenta milioni di dosi. Il che non va per niente bene, perché o le cose si fanno insieme con accordi alla luce del sole, come l’Unione europea dovrebbe fare per statuto e regolamento, oppure ognun per sé. Così mica vale, stavolta male.
Nel frattempo il virus non sta fermo ma si ingegna per creare scompiglio: prima si scopre una variante inglese, vedi penultimo minidiario, poi ne salta fuori una sudafricana (neocolonialismo?), poi è una gara a chi ne ha di più e a chi le ha avute prima. Un medico di Brescia sostiene che la variante inglese invece derivi da una bresciana, nota fin da agosto. Ma certo. Quindi stronzi gli inglesi per non aver detto nulla per tre mesi della loro variante e noi no, bravi e ammirevoli perché quella originale è la nostra. D’accordo, capisco perfettamente.

Nel frattempo, io ho fatto l’ennesimo tampone. Poiché ogni volta che si è parlato di ‘asintomatici’ io mi sono figurato me stesso, ho preso la decisione di fare un tampone ogni mese, mese e mezzo, così da avere un’idea ragionevole del mio stato di contagio o meno. Vezzo costoso, devo dire, e che presenta almeno un aspetto particolarmente curioso: il referto dell’esame viene comunicato solamente a me e non alle autorità sanitarie. Infatti, non risulta nel mio fascicolo sanitario regionale. Certo, io l’esame l’ho fatto privatamente, chiaro, ma non vedo un solo motivo utile per cui non ne sia reso pubblico, cioè comunicato all’ente pubblico, l’esito. D’accordo che si è rinunciato a qualsiasi velleità di tracciamento da mesi, purtroppo, trovo tuttavia che così sia davvero un po’ troppo: io avrei potuto essere positivo (parlo in teoria, eh, chiedo per un amico) e tenermi la cosa per me, procedendo con le mie cose esattamente come prima. Sarò l’unico ad averla pensata così? Mi parrebbe strano.
Ora devo tornare ai numeri. Purtroppo. Ogni giorno vengono comunicate valanghe di numeri, il Ministero stesso condivide ogni sera una tabella con i dati del giorno in molte colonne. Non è un problema di oggi, è un problema da quasi un anno, secondo me. Io vorrei sintesi e pareri autorevoli, intendo di una e una sola voce qualificata e non di virologi, governatori, chiacchieroni a caso, un commento chiaro e fermo sulla situazione e l’andamento del giorno. Così non accade, arrivano numeri e poi ogni statistico da pianerottolo è libero di dire la propria (eccomi). Tre tipologie di numeri sulle quali mi interrogo. La prima: il numero dei contagiati. È quasi sempre attorno ai quindicimila-ventimila al giorno e, se non erro di memoria, questi erano numeri che due mesi fa ci destavano grandissima preoccupazione. Ora no, molti commentano che la curva sta scendendo e che ci sia da ben sperare. Piuttosto, se c’è una curva che sta sicuramente scendendo è quella del numero dei tamponi, che sono sensibilmente meno che qualche tempo fa. Non so perché accada questo ma è un dato ormai percepito da chiunque, beh, certo, ma adesso ne fanno molti meno, sì, certo. Ma perché? Il terzo dato, e bisogna immediatamente andare oltre i numeri e pensare alla realtà, è che i morti sono tantissimi. Ieri 659, oggi 575. Ma la cosa non è messa in risalto in nessun modo, oso dire che è proprio messa da parte, non ne parla quasi nessuno. Eppure i cimiteri, le camere mortuarie, i forni crematori, i depositi sono pieni come e più di marzo e aprile, chi ha voglia di rendersi conto di quale sia la situazione lo può fare facilmente, eppure non se ne parla. Come se nella cosiddetta ‘seconda ondata’ i morti non ci fossero. Eppure, da febbraio al 31 agosto (sette mesi), i morti sono stati 35.491. Da settembre a natale (quattro mesi), 36.190. Ben di più.
Chi si è preso la briga di raccontare le cose, e sono pochi giornalisti, descrive situazioni al margine della sostenibilità, bare ammucchiate nei depositi o lasciate negli sgabuzzini, sepolture frettolose e ravvicinate, sepolture temporanee in attesa di tempi migliori. Dice il report Istat al riguardo: «In molte regioni del Nord l’eccesso di mortalità totale del mese di novembre supera quello del picco di marzo-aprile» ma non c’è preoccupazione, non c’è movimento, non c’è pausa, non c’è riflessione.

Il cimitero di Musocco a Milano, foto Radio popolare.

I morti sono morti e sono una questione personale, della famiglia, dei parenti, di coloro che sono segnati dalla perdita. Degli amministratori, che devono gestire la situazione, degli operatori funebri e di pochi altri. Sono un numero riportato quotidianamente come si riporta una temperatura, una larghezza, un fatturato, tutti numeri che hanno un rapporto abbastanza privo di conseguenze sulla realtà. Perché accade questo? Forse ci siamo stufati? Forse ci siamo, peggio, abituati?
Non siamo dei cattivoni insensibili, non credo, almeno non tutti. Di certo bisogna, collettivamente, sopravvivere, bisogna riprendere sprazzi di vita normale, senza dubbio, molti sono i fattori che di certo ci portano a ignorare la situazione attuale, non tutti forse deprecabili. La morte è un fatto che, culturalmente, in effetti tendiamo a ignorare da ben prima della pandemia e a ricordarcene quando riguarda qualcuno a noi vicino, spesso facendone una tragedia incommensurabile rispetto al diffuso disinteresse di prima. Però bisognerebbe ricordarsene, in generale, magari ancor più oggi per riuscire a valutare il pericolo reale e a dare il giusto peso ai rischi che corriamo durante il giorno, penso sarebbe necessario almeno in chiave utilitaristica. Anche se, non ultimo, bisognerebbe parlarne per condividere, per partecipare, per farsi carico almeno un poco del dolore che affligge migliaia di noi, ogni giorno, e per mantenere viva la nostra umanità di fronte ai nostri simili, così vicini e così uguali.


Le altre puntate del minidiario scritto un po’ così delle cose recidive:
26 ottobre | 27 ottobre | 29 ottobre | 1 novembre | 3 novembre | 4 novembre | 6 novembre | 8 novembre | 11 novembre | 14 novembre | 18 novembre | 21 novembre | 25 novembre | 30 novembre | 4 dicembre | 8 dicembre | 12 dicembre | 19 dicembre | 23 dicembre | 30 dicembre |


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