Il catalogo di Netflix offre, al momento, 2.490 film, 1.295 serie tv e 531 documentari. Quello di AmazonVideo consiste in 6.469 tra film e serie tv. Disney+ ha un catalogo approssimativamente di circa settemila episodi di serie tv e all’incirca cinquecento film. E questo per stare ai competitori più ingombranti dello streaming video, perché poi ci sono RaiPlay, Infinity, DAZN, Now TV, TIMVision, YouTube Premium, Chili, Apple TV+ e così via, solo per stare all’Italia. Una marea.
Certo, poi gira e rigira buona parte dei contenuti offerti è sempre quella, che spunta un po’ di qua e un po’ di là, e un’altra fetta non piccola è fatta di prodotti francamente scadenti, ciò nonostante tra produzioni originali e cataloghi acquisiti ciascun servizio di cui sopra offre un catalogo ampiamente superiore alla capacità di intrattenimento di una persona durante una vita di durata media. Considerando poi che un certo numero di famiglie ha Netflix per le serie, Disney+ per i bambini e per guerrestellari, Amazon perché ha Prime comprando le ciabatte, RaiPlay perché è gratis, l’offerta si allarga ancor più. Una bella scelta, no?
Sì, in teoria sì. Ma in pratica no, perché poi alla fine guardate quasi tutti le stesse cose. Lo so, sono passato al ‘voi’ chiamandomene fuori. Vero. Ma lo posso fare, credo, perché non ho nessuno di questi servizi, non pago abbonamenti per farmi intrattenere e, spesso, perdere tempo, a meno che non sia musica. Quello sì, la pago, ma non la considero intrattenimento allo stesso modo. Comunque, essendone fuori, mi capita di notare (e quasi chiunque abbia a che fare con le piattaforme me lo conferma di volta in volta) come alla fine le persone tendano a guardare ciò che le piattaforme stesse promuovono come novità o scelte adatte al cliente. Perché le dimensioni amplissime dell’offerta fanno sì che la scelta richieda molto tempo, ricerca e selezione, di fatto vanificando l’offerta stessa. Le compagnie lo sanno benissimo e, infatti, una bella fetta del catalogo è lì solo per far quantità, perché costa poco e per ingolosire gli abbonandi.
Quindi, tanta tanta scelta e molte piattaforme e, alla fine, sembra di stare ai tempi di Rai Uno. Infatti, nelle ultime settimane moltissimi utenti hanno visto ‘L’incredibile storia dell’Isola delle Rose’, ‘La regina degli scacchi’ e, negli ultimi giorni ‘Sanpa’. Le persone ne parlano durante la pausa caffè, i giornali ne discettano ampiamente, la tv in un qualche modo autoreferenziale pure, da fuori colpisce. E non è un caso che siano tutte proposte di Netflix che, in questo, ha preso abbastanza il posto di Rai Uno.
Perché non sono film o serie eccezionali, sono prodotti medi, ben costruiti per il pubblico con trama non troppo complessa ma nulla più, potrei citare seduta stante cinquanta serie tv migliori di queste, tutte a portata di telecomando. Eppure? Tutti a guardare le ultime novità proposte. Come ai bei tempi del monocanale o del monopolio televisivo. E poi mi chiedono: ehi, hai visto Sanpa? E io mi devo pure giustificare, ma che mi frega di San Patrignano? Oppure commentano la serie in rete o al bar dando per scontato l’universalità della visione. Ed è proprio così, nei fatti.
Alla fine, questa cosa di guardare tutti le stesse cose, evidentemente, piace. Perché se no non si spiega. Piace probabilmente il non dover decidere, il fatto che un servizio a pagamento proponga cosa vedere, il poterne parlare con chiunque il giorno dopo, avere la sensazione di non perdersi nulla di importante. Naturalmente non è così, là fuori è pieno di film, serie tv, documentari meravigliosi che, però, in buona parte vanno scovati. ‘La casa di carta’ è l’esempio eclatante: scadente, al limite della presa per il culo nella seconda stagione, vera fotocopia della prima (ah no, beh, certo, là era la Zecca qua la Banca di Spagna, diversissimo), tutto piuttosto copiato da ‘Inside man’ di Spike Lee di dieci anni prima. Eppure, un trionfo. E le persone che la consigliano, pure, sacrificando tempo ed energie proprie nella promozione di Netflix. Mah.
Vabbè, il mainstream e il conformismo non li scopro certo io oggi.
E no, Sanpa non lo guardo né lo guarderò. Di San Patrignano mi basta ricordare gli abusi e le violenze negli anni Ottanta, il ruolo tremendo di Muccioli, vero padre-padrone e santone, quasi che la legge non potesse entrare nella comunità, l’appoggio incondizionato della politica, la Moratti su tutti (eccola là, di nuovo), i suicidi, le botte, i soprusi e un sacco, ma davvero un sacco di soldi che finivano là. E il dolore delle famiglie, lo sfruttamento dello stesso, l’affare del recupero dei tossicodipendenti.
Tra le cose che Sanpa non dice, c’è il PART di Rimini: un polo museale sovradimensionato rispetto alla città che lo ospita e costituito da una ricchissima collezione di arte contemporanea. Che è la collezione di San Patrignano. Beecroft, Chia, Hirst, Isgrò, McCarthy, Paladino, Pistoletto, Schifano, Schnabel, Vezzoli, per dirne alcuni. La presidente della Fondazione San Patrignano, Letizia Moratti (ancora!), spiega che «abbiamo intrapreso la via della collezione di opere d’arte contemporanea come riserva patrimoniale». Alla faccia. E la collezione girerà, diventando mostra itinerante in molti altri musei d’Italia. Non male per una comunità di recupero di tossicodipendenti, no?