Il tentativo, politicamente corretto, di essere rispettosi delle identità di genere e di utilizzare, se possibile, la neutralità di genere nel linguaggio spesso producono mostri. Dai «bambine e bambini, ragazze e ragazzi» che precede ogni inizio di documento di certe associazioni di sinistra al democratico Emanuel Cleaver che pochi giorni fa, in seduta alla Camera dei Rappresentanti a Washington, ha concluso il discorso con un improbabile «amen» e, per essere rispettoso, con un ancora più improbabile «awomen». Essendo pastore, nel senso delle anime, era stato incaricato di chiudere la seduta con una preghiera – e già qui qualcosa da dire ci sarebbe – ed evidentemente è stato preso da un irresistibile afflato paritario. Auomen, qui il video.
Sempre attratti dalle figure di merda, i compagni del PD, stavolta di Palermo, hanno ben pensato di sventrare il sostantivo «militante» facendone una questione di genere. Essendo un participio presente (da «militare», che anche se non sembra è anche un verbo), ha il brutto vizio di essere insieme maschile e femminile. Pardon, femminile e maschile. Anvedi. I dizionari dicono: «agg. e s. m. e f.».
Per cercare di porre rimedio a questo sfacelo, scusate: sfacela e sfacelo, segnalo un ottimo articolo della sociolinguista Vera Gheno, dal titolo esplicativo: «La questione dei nomi delle professioni al femminile una volta per tutte». Utile, molto. Oddio, utila, anche. Scusate, scusate tutte.
Mi hai ricordato l’imbarazzo dell’autore in ” me parlare bello un giorno”… dove nell’imparare il francese ha dovuto imparare a dare un genere a tutto … compresi gli oggetti. Bella una lingua che non abbia un predominio di genere per identificare il neutro… e anche lo stato sociale… parlando al barbone o all’industriale.. sono sempre you.. ma il politicaly correct all’italiana genera davvero dei mostri inascoltabili.. come ministra o assessora… brrr
Caro E., concordo con te per la prima parte, interessante la lingua che non distingue tra i generi, anche se ogni riduzione equivale a una perdita di ricchezza, secondo me, e bella la lingua che non usa le forme di deferenza borbonico-fascista dal lei al voi al loro al chissà cosa.
Meno d’accordo sulle declinazioni dei termini, se dai un’occhiata all’articolo linkato in fondo, quello di Vera Gheno, le osservazioni sono davvero interessanti e, allora, ministra o assessora non paiono più così deprecabili. Della questione della cacofonia, per esempio (vedi primo punto dell’articolo), se ne può parlare, anche se, osserva Gheno: “che nella lingua che usiamo tutti i giorni la cacofonia o l’eufonia delle parole non ha nessuna rilevanza: usiamo i termini che ci servono, non quelli che ci suonano. Isterosalpingectomia, transustanziazione, caldaista, pantomima, gestazione, brocca sono tutte parole che alle orecchie di qualcuno possono suonare sgradevoli; ciò non toglie che le usiamo senza alcuna remora quando ne abbiamo bisogno”. E non ha mica torto.
Letto… e comprendo e condivido le ragioni… anche se resta faticoso districarsi tra regole ed eccezioni. Ed é giusto che sia così.. perché si parla di regole lessicali.. quelli che ritengo inascoltabili sono i distinguo di tipo ideologico, in cui ogniuno fa un po quello che gli pare… il che da alla questione una parvenza di simil femminismo di forma, senza arrivare alla sostanza. Ma mi inchino al fatto che, siamo talmente indietro sulla parità di genere, che ogni occasione per sollevarla è benemerita. Spero di arrivare a vedere il giorno in cui non ci sarà bisogno di rimarcare nulla, o di essere puntigliosi e ridondanti in nulla, perché semplicemente non ce sarà più bisogno.. essendo la parità un dato di fatto e non più una aspirazione