Anni fa, ben più di dieci, una donna colta e arguta, Rebecca Solnit, andò a una festa e le capitò una cosa particolarmente stupida: un uomo, come spesso facciamo accadere noi uomini, le parlò di un libro che non aveva letto dando giudizi senza ascoltare le osservazioni di Solnit e spiegandole, ecco!, le cose. Solo che Solnit ne era l’autrice. Scrisse poi un articolo riguardo quell’episodio, poi se non ricordo male, un libro. Io, oggi, l’articolo l’ho riletto e ne consiglio, se non lo conoscete, la lettura: qui. Agli uomini, per imparare a non fare mansplaining, e alle donne, per maggior consapevolezza.
Oggi le redattrici, le dipendenti, le collaboratrici di Radio popolare, la radio che ascolto, sono in sciopero, aderendo allo sciopero globale transfemminista, promosso dalla rete Non Una di Meno. Intendiamoci, sacrosanto. Fanno benissimo e, per quanto poco conti, hanno tutto il mio appoggio, loro e chiunque si dia da fare per la parità effettiva. Non solo oggi. Le motivazioni sono sempre quelle e ancor di più, tra cui la disparità di accesso e di trattamento nel mondo del lavoro, la spaventosa mattanza di donne uccise negli ultimi anni, il linguaggio sessista a ogni livello. Da tutto il giorno la radio manda qua e là la registrazione di una donna della radio che dice il proprio nome e cognome e poi «non accetto di essere vittima della violenza maschile e delle discriminazioni di genere». Mi colpisce e un po’ mi ferisce quell’aggettivo, «maschile», che denota con certezza la violenza. Oh, per carità, giustissimo, non sto discutendo: è un fatto che sia maschile. Dico solo che mi ferisce, personalmente, perché, come uomo, mi impegno ogni giorno per garantire la parità delle persone, in casa e sul luogo di lavoro, e diciamo che la violenza di genere non solo non l’ho mai praticata né mai la praticherei, parzialmente subita semmai, ma mi sento chiamato in causa in prima persona da quell’aggettivo. E la cosa un po’, me, come persona, io, mi fa male.
Giusto così.