Ecco, lo sapevo. Il solito problema dei treni in Francia.
Spiego: tirata una linea retta orizzontale più o meno a metà del paese, diciamo che passi da Bourges, proprio dove sono io ora, a sud si prende un treno per la destinazione che si desidera, al massimo si fanno due o tre cambi e bon, viaggio fatto; a nord no, per fare cento chilometri tra un posto e l’altro tocca farne quattrocento per passare da Parigi. Alla faccia del centralismo. Non è tanto per dire, non c’è altro modo: tutte le linee ferroviarie sono a raggiera da Parigi e per andare, faccio per dire, da Cremona a Piacenza tocca passare per Milano. Anche le strade principali lo sono, basta guardare una mappa. Oppure, ma non sono così convinto, potrei comprare un’auto e andare velocemente dove devo, ma non sono sicuro di voler possedere una Renault o una Peugeot o una Citroën (antifranzosismo gratuito). Che faccio, rubo?
Quindi, per fare i 256 chilometri tra Bourges e Troyes che desidererei fare oggi, devo fare i 433 tra Bourges e Parigi e Parigi e Troyes, con comodo cambio di stazione a Parigi tra Austerlitz e l’Est, cinquanta minuti di tempo. Si fa, per carità, e lo farò, ma tutto ciò è davvero centralismo non democratico che mal viene accettato da un compagno italiano in visita di cortesia politica con buona disposizione d’animo.
Qui il passe è necessario anche all’aperto, devo dire che lo chiedono abbastanza, mai con la carta di identità – devono aver raggiunto un accordo anche loro – e raramente fanno finta di niente, una sola volta è bastata la mia risposta positiva. Il fatto di richiedere la certificazione anche per gli spazi all’aperto dei ristoranti, li costringe a cintare, in qualche maniera, l’area, così da fare entrare tutti da una sola porta e controllare. Ieri sera, per dire, ero in una brasserie in piazza e il gestore aveva tirato una corda tutto attorno ai tavoli, effetto curioso. Mi pare senza grandi polemiche, a parte una scritta su un muro di Lione che denunciava la dittatura sanitaria, non ho visto né sentito nulla, finora. Nei negozi e sui treni locali non lo chiedono, ovunque ci si sieda, ovviamente musei, alberghi, e tutto il resto. Che, alla fine, è anche più semplice, si tiene il passe sempre aperto sul telefono e si mostra ovunque, senza stare a far troppe distinzioni.
(Occhio, tirata). Fedele alla mia funzione di servizio e a quanto promesso ieri, ecco cosa ho imparato sui bachi da seta. Il tutto parte da una farfalla, la Bombyx mori, la bombice del gelso, che produce circa cinquecento uova e poi, indovinate?, muore, esatto. A noi come specie ci è andata di lusso, altroché. I bachicoltori raccolgono queste uova con grande cura, dato che mille pesano circa un grammo. In poche settimane, in primavera, le uova si schiudono e i bachi appena nati cominciano a fare una cosa sola: mangiare. Non hanno occhi, manco si muovono ma i bastardelli sono pretenziosi: vogliono solo foglie di gelso fresche. Ho detto fresche! La rugiada dev’essere appena evaporata e possibilmente dovrebbero essere servite ogni mezz’ora. Va da sé che in questo periodo il bachicoltore e la sua famiglia sono al completo servizio degli infanti, fanno i turni per dormire perché questi mangiano ventiquattro ore su ventiquattro, a volte lasciano la casa ai bachi per dormire nel fienile. Perché poi gli stronzolini defecano pure ma amano la pulizia, quindi serve qualcuno che. Inoltre, sono suscettibili e possono morire per un niente, scarsa igiene, un rumore forte, un odore intenso, un cambio di temperatura. Eh, coraggio.
Fatte le mute e aumentato il proprio peso e dimensioni di migliaia di volte, il baco smette di mangiare e comincia a filare: per tre giorni ininterrotti secerne fibroina sotto forma di due lunghi fili, che unisce subito con la sericina, sostanza prodotta da un’altra ghiandola e che incolla i due fili al contatto con l’aria. Man mano, il baco si avvoltola nel filo facendo un perfetto movimento a otto. Se le cose andassero poi secondo natura, dopo dodici-sedici giorni dalla crisalide uscirebbe una farfalla e il ciclo avrebbe senso. Invece, accade questo: siccome la sericina, o colla della seta, si scioglie in acqua calda, i bozzoli vengono immersi in acqua bollente o sistemati sopra vapore acqueo caldissimo, ovviamente muoiono, e il bachicoltore può a questo punto dipanare i fili di seta. Essi vengono poi immersi in una soluzione di sapone, sodio e altri ingredienti a seconda della preparazione e poi stesi ad asciugare al sole. Un solo bozzolo può contenere addirittura fino a quattromila metri di filo, pazzesco!, ma solo un quarto circa è filo resistente e integro. Comunque pur sempre un chilometro. Con il resto si fanno tappeti o prodotti meno nobili, con la seta migliore gli scialli e i vestiti. La seta è bianca, poi va ovviamente tinta ma questa è un’altra storia.
Siccome a Lione e Vienne ho letto molte volte di come la zona fosse specializzata nella produzione della seta, ho approfondito. Ma non è mica vero, come scrivono spesso, che in epoca romana fossero centri di grande produzione, i certi chiamati Romanes la seta la conoscevano perché avevano rapporti commerciali con l’Oriente ma non la sapevano mica produrre. Era un segreto cinese molto ben custodito fin dal quattromila avanti cristo e tale rimarrà fino al tredicesimo secolo, quando cominceremo a produrla anche in Europa. E allora sì che Lione diventerà un centro ricco specializzato nella produzione delle sete e il Cinquecento sarà un secolo d’oro, anche in senso letterale.
Da Parigi, con cambio veloce di stazione e occhiata ancora più veloce alla città (tutto a posto, non hanno bruciato altre cattedrali), prendo il treno per Troyes. Il quale segue diligente il corso della Senna, passo passo. Infatti, non fosse chiaro, tutte le fermate sono qualcosa-sur-Seine. Ma siccome la pendenza qui è pari a zero, il fiume tende a fare moltissimi gomiti e, ogni tanto, a saltarne uno o due. Oh, c’è gente che ha studiato una vita per capire come mai i fiumi facciano i gomiti, la cosa è seria. E non ne siamo ancora del tutto sicuri. Al centro di questa pianura, che poi è la Champagne, amministrativamente Aube, c’è Troyes, crocevia da sempre di alcune vie di comunicazione importanti, quale per esempio un ramo della via di Agrippa che da Milano conduceva al mare del Nord. Chiaro allora che da qui siano passati quasi tutti, tranne me finora. Dagli immancabili romani fino a Ezio che sconfisse Attila e gli Unni qui vicino, ai famosi Campi Catalaunici, e tutt’e due erano agli sgoccioli e non lo sapevano, a Giovanna d’Arco con re Carlo, a Napoleone uno e Napoleone tre, ai tedeschi e agli alleati. Senza dimenticare Chrétien de Troyes, che però si trovava già qui, pare, fondamentale per chi si occupa di letteratura medievale perché unì i cicli dei paladini a quello del sacro Graal, fondando una tradizione di racconti secolare. Oltre a essere molto bravo e piacevole da leggere, naturalmente. Anche Abelardo ed Eloisa fecero i birichini a Troyes, lui fondando l’oratorio del Paracleto e lei facendone la badessa.
Insomma, la città è piccoletta ma densa di storia e monumenti, il taglio esatto per questo tipo di viaggi. C’è la cattedrale goticona imponente, e sono due per me, qui con una torre campanaria sola – non era raro che finissero i soldi o la spinta vocazionale – e con all’interno la testa di Bernardo di Chiaravalle, perché Clairvaux e Citeaux, vedi scuola dell’obbligo, non sono lontane. Altrettanto interessante, e qui prosegue il breve corso sul gotico iniziato ieri a Bourges con il gotico fiammeggiante, è la chiesa di Sant’Urbano. Il figlio di un ciabattino di Troyes diventò papa Urbano IV nel 1261 ed è una bella distanza da qui, assicuro, arrivare a San Giovanni a Roma. In realtà, ciabattino lo dice lui, pare fosse uno stimato artigiano calzaturiere. Benestante. Comunque, Roma è lontana lo stesso. Lui, paraculo, regalò ai Francesi il regno delle due Sicilie (così dicono qui ma non è andata proprio così) e per questo motivo qui lo adorano e a noi sta un po’ storto. Per celebrarsi, fece costruire, appunto, la chiesa di Sant’Urbano sul luogo in cui sorgeva la sua modesta casa di figlio di ciabattino, e non sfuggirà il senso dell’intitolazione. Per finire la storia, lui morì prima che fosse finita, una badessa di qui che non ricadeva sotto la giurisdizione papale e che doveva avere dei motivi pare l’abbia fatta bruciare ancora a metà cantiere, insomma ci volle un po’ per finirla (1905, ahah). Comunque, è un magnifico esempio di gotico radiante (rayonnant), che è la fase intermedia tra il gotico classico e quello fiammeggiante (flamboyant), cioè quando gli elementi architettonici, colonne e archi, si assottigliano, facendone una struttura più leggera alla vista che pare tendere ancor più in alto. Per dare un livello alla cosa, gli appassionati del mondo del gotico vengono da ogni parte del mondo per vedere questo esempio perfetto di gotico radiante. Posso non mostrarvela? No, certo che no.
La città, come dicevo, è piccola e graziosa, ben tenuta in centro, ricca di vicoletti tra le strette case a graticcio e di chiese e bei palazzetti, è certamente meta di turismo ragguardevole. Oggi è difficile dirlo, ci sono trentacinque gradi e non ci sono giapponesi in vista (a proposito di caldo: tutti morti lì in Italia? Almeno a leggere i titoli di giornale…). Appena fuori, però, l’aspetto complessivo è un po’ più, come dire?, sgarruppato, fané, delabré, scassé.
Molti alberghi in case storiche chiusi, bar e ristoranti segno di un’epoca di gloria decisamente superiore che, al momento, fatico a capire quale possa essere stata, di certo non questa. Poi, chiacchierando con un paio di vicini di birretta (l’ha detto Tg2 salute di bere liquidi) loro mi chiariscono la cosa: a Troyes è nata la Lacoste. Ed era qui fino a qualche decennio fa, fabbrica e vendita. Accazzo, dico io nel mio francese (acàsze) alzando molto le sopracciglia. Già, poi è andata a Parigi per finire poi oggi a chissà che gruppo. Eh, ora è più chiaro.
E comunque nel 1935 il Vaticano ha restituito il corpo di papa Urbano IV a Troyes, poi sepolto con modestia nella sua chiesa sua sua, e siccome quelli non regalano mai niente qualche motivo ci sarà stato. Anche solo che ci stava sulle balle, quello, lontano di Francia che non c’entrava nulla con le nostre cose e scelto durante un conclave assurdo che non si riusciva davvero a sceglierne uno e lui, quasi, passava di lì per caso.
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Non lamentarti, Parigi vale comunque un cambio treno, e poi sai quanti sarebbero felici dì essere stati in ferie a Parigi!
Ora che mi hai edotto sulla produzione della seta, penso indosserò solo lycra.
Non c’è dubbio, io due volte!
Ahah, perché prima chissà che sete…