minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno nove. Sale d’attesa, intercity, vivere meglio, cose mie, l’emozione di un progetto reale

Primo giorno con cielo nuvolosetto, vado a Strasburgo. D’altronde, essendo stato in Lorena era un po’ d’obbligo andare in Alsazia. Non per me, per loro, per non fare differenze, per non scontentare nessuno.
E poi è un buon passaggio per il di là, ciò che sta a est del Reno.
Ma prima, questo.

È la sala d’aspetto della stazione di Metz. Ci sono seduto ora, mentre scrivo queste due cose, in comoda poltrona. Ci sarebbero anche i tavoli, illuminati e con prese elettriche a iosa.
Sia chiaro, non è che tutte le stazioni francesi siano così, non lo sono, ma è l’approccio generale a essere radicalmente diverso: qui la stazione ti accoglie, si presume giustamente che, magari, ci dovrai passare del tempo, quindi ci sono posti per sedersi, servizi, comodità, va detto che non sempre c’è un bar o un’edicola ma quasi. Ed è un posto pulito e soprattutto aperto, chiunque vi può entrare e accomodarsi, anche senza biglietto. Un signore cui con evidenza manca la casa sta mangiando un panino tranquillo in una poltrona in fondo, come è giusto che sia. Oh, intendiamoci, un paio di tizi grandi e grossi di SNCF Sécurité che girano per la stazione ci sono ma non fanno discriminazioni per aspetto o censo, puntano chi fa casino. Se ne può discutere, certo, non è che da noi i poliziotti non ci siano.
Se, come sto facendo io, fate un veloce paragone con la stazione della vostra città o che frequentate, l’aggettivo che viene in mente è, direi, ‘impietoso’ nella maggior parte dei casi. Ora, non sarò certo io a fare l’apologia dei franzosi o, men che meno, dei tedeschi, non ci penso proprio. Invidio loro, però, un certo qual funzionamento di base, le cose elementari del vivere civile, né di destra né di sinistra, che dovrebbero essere ovvie ma che da noi non lo sono. Stazioni, appunto, mezzi pubblici, parchi, piazze, panchine, informazioni, servizi pubblici, pulizia delle strade, manutenzioni, gente che si ferma alle strisce, piste ciclabili vere, parcheggio non selvaggio, cose così, niente di difficile. Poi, magari, se in Germania sbagli una firma su una pratica ti deportano, certo, ma a servizi di base tra loro e i francesi sono un bel po’ più avanti di noi. E io, confesso, li invidio parecchio.

Strasburgo, dicevo. Un’altra cosa, prima. Anche la Francia ha puntato sull’alta velocità, per cui i TGV sono belli e comodi, il costo più o meno simile ai nostri. Il trasporto locale è demandato ai dipartimenti, diciamo alle regioni, per cui la maggior parte delle volte capitano dei regionali belli e nuovi, talvolta scadenti e decisamente da ravvivare. Ci sono poi gli intercity, loro li hanno ancora, che essendo sovradipartimentali fanno mediamente schifo. Sono i nostri vecchi intercity, intendo i vagoni, esattamente ancora quelli, con le tendine luride. Esistono però gli intercity privati: costano meno, ma parecchio, sono piuttosto belli, fanno tratte dirette e non sono presenti in tutto il paese. Cioè tutto quel segmento che da noi è sparito e, lo ricordo bene, che qualcuno ha provato a riproporre, prontamente ucciso in culla da Trenitalia. Vado a memoria, qualche anno fa un imprenditore piemontese aveva presentato un progetto per una linea intercity tra Torino e Milano, mi pare, il cui biglietto era una cosa tipo sei, sette euro, e vaneggiava addirittura di un minimarket sul vagone per i pendolari tardivi. Naturalmente Trenitalia pose tante e tali condizioni, il treno avrebbe dovuto metterci più di un’ora e mezza, fare almeno sei fermate, il biglietto costare più di quindici euro, nessuna corsa in determinati orari, che l’imprenditore abbandonò il progetto. Poi, in cabina elettorale, tutti liberisti, eh? Nel frattempo, qui fuori è così.

La mia amabile compagnia telefonica mi ha appena avvisato, dopo solo nove giorni, che sono in Francia e che posso effettuare telefonate alle stesse condizioni di casa. E mandare anche SMS. Grazie, tempestivi, proprio ora che esco.

Strasburgo è una delle città in cui vivrei subito, senza condizioni (sono qui per verificare ancora, le altre sono Monaco di Baviera e, con qualche riserva in più, Lione). Primo perché è una città magnifica, ricca di storia e moderna, vivace culturalmente, è sede per dire di ‘arte’, il canale culturale franco-tedesco, miscuglio e via di mezzo tra francesi e tedeschi ed espressione diretta dell’Unione Europea con il parlamento, tradizionale con i quartieri sui canali e con le case a graticcio e i palazzi rinascimentali, oltre a una cattedrale gotica colossale, contemporanea nelle istituzioni e nei settori produttivi. Si sta inoltre ragionando (cioè, stanno, mica noi) su una possibile amministrazione sovranazionale congiunta per la zona di Strasburgo e, di là, dell’Ortenau, il primo Eurodistrict. Se non è emozionante questo, non so. Poi perché è in una posizione comoda, al centro di parecchie linee veloci, per cui è possibile raggiungere con facilità buona parte dei luoghi d’Europa. Mica poco, tutto insieme. Dico questo per dire che ci sono già stato più volte e ogni volta ci torno volentieri, guardandomi attorno per individuare la casa in cui mi piacerebbe stare. Per cui, per il minidiario di oggi, per parlare dei canali, dell’europarlamento, di Goethe che si distrasse talmente il posto è bello, di tutto quanto, rimando a quanto ho scritto nel 2008, confermo tutto. Per chi ne avesse voglia, è qui, l’8 e il 9.

Io ne approfitterò oggi, a seconda anche di quello che accadrà poi, per raccontare alcune cose generali che non ho raccontato finora. Così, folklore e costume personale di piccolo cabotaggio. Chi non vuole, abbandoni qui, non mi offendo.

La questione della lingua.
Mi sono imposto, stavolta, di parlare francese. Che è una lingua che non possiedo nemmeno a livello superiore ma a quello delle medie, quindi male, ma che ci vorrà mai? Mica devo tenere conferenze contro la dittatura sanitaria o sul gotico radiante. E così è stato, ho recuperato le quindici frasi fondamentali, le cento parole imprescindibili e via, anche quando ci avrei messo cinque secondi a spiegarmi in inglese – e qui lo parlano tutti, pure meglio di me – niente, coriaceo, francese. A parte un giovane uomo a Reims che si è smarronato a fronte delle mie costruzioni incerte (ma secondo me era inverso per fatti suoi), è sempre andata bene. E ho imparato un centinaio di parole nuove, fino a guttes pour les yeux, quindi a questo ritmo dovrei riuscire a sostenere una conversazione decente in cinque anni. E ad avere una pronuncia che somigli meno a quella di un bonobo ubriaco di Réunion.
A margine della questione, era tempo che desideravo stare in un posto in cui non afferrassi la lingua, così da non captare nemmeno per caso le conversazioni altrui e azzerare il rumore di fondo su vaccini, green pass, leghisti e meloniani. Tra l’altro, così sembrano tutte bravissime persone.

La scrittura. Peggio delle ragazzine.
Complice l’evoluzione dei telefoni, ora è possibile con una certa comodità gestire dal telefono non solo le fotografie, il ritaglio, la diminuzione di peso, ma anche l’inserimento e la pubblicazione dei post su un blog, come accade a me. E, di conseguenza, anche la scrittura. Per la prima volta, quindi, invece di cercare una panchina a un certo punto della giornata e sedermi concentrato col portatile a scrivere tutto quanto, ho scritto man mano sul telefono, risistemando e pubblicando a sera inoltrata in camera col più comodo notebook. Ma il grosso l’ho fatto col telefono. Confesso. Come le autrici tipo quella di After, Anna Todd, bestseller scritto tutto col telefono, quadrilogia lunghissima, ecco: anch’io. Dopo averle derise, sono diventato come loro. Anzi, nemmeno, io di copie ne vendo zero. Il vantaggio per me è stato diluire il lavoro durante il giorno e poter scrivere man mano che mi venivano in mente le cose, lo svantaggio è stato certamente una qual perdita di sintesi, coerenza e omogeneità. Che dire? È comodo, altroché, e poi mi son portato due chili in meno in giro tutto il giorno, ordine del dottore. Ora digito velocissimo, come gli adolescenti.

I luoghi della scrittura.
Eh, potendo scrivere ovunque, ho scritto in treno, sotto le piante, sulle rive dei fiumi, in pullman, al bar, al museo, in stazione, in coda per un negozio, sui gradoni dei teatri romani e così via. Mai, mai, mai a letto, il mio papà avrebbe fieramente disapprovato. Ho scritto anche, lo confesso, occasionalmente durante qualche blanda crisi mistica sul fondo di qualche chiesa, ma solo se vuota. Perché, non vorrei essere irrispettoso, sono freschissime e si sta una meraviglia. Eh, lo so.

Di telefoni, frutta e calamite parlerò un’altra volta, altrimenti qui viene fuori una geremiade. Piuttosto, più importante. Mi son fatto la mia camminata di mezz’ora, un piccolo pellegrinaggio, al parlamento europeo.

Dieci anni fa si entrava liberamente, bombaroli stronzi. Comunque, dopo un piccolo controllo entro e faccio il giro dei visitatori. Ovviamente è deserto, è agosto, e io mi scuso mentalmente con tutti quelli che incontro per Tajani. Poi arrivo all’aula, quella delle plenarie, ci danno un’audioguida ma io non ascolto per davvero e penso a tutta quella merda nazista, a Praga, a Budapest, a piazza Fontana, al maggio francese, a Simone Weil ai cancelli di Auschwitz, a Ventotene, alla Resistenza, ai compagni cechi che uccisero Heydrich, alla guerra nell’ex-Jugoslavia, ai colonnelli greci, all’Algeria, alle olimpiadi di Monaco, alle BR e alla RAF, a Willy Brandt in ginocchio.

E a pensare di essere arrivati qui, lo confesso, mi sono commosso. Commosso per davvero. Sono orgoglioso di vivere in quest’epoca di unione, in cui un’idea è divenuta realtà, il mio animo è sinceramente grato alle donne e agli uomini che dopo tante tragedie e difficoltà ci hanno portato qui. All’Europa unita.

Veniteci. E portateci i figli, i nipoti, gli amici. E fanculo, inglesi.


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