Ieri sera, mentre uscivo da un posto, un tizio abbastanza giovane mi ha apostrofato con un tono leggermente superiore al necessario, dicendo una cosa che io ho recepito così: “kvhnnchfk kjffdfdvnbv mask kbbbvhhgbv’. Più o meno. Io la mascherina la indossavo, uscendo da un luogo chiuso, lui no perché già all’aperto. Lì per lì non ho capito se mi stesse facendo una battuta complice sulla noia delle mascherine o se, invece, fosse un negazionista e ce l’avesse, chissà perché, con me e il mio dispositivo di protezione individuale. Mah. Gli ho fatto un mezzo sorriso (ma da dentro la mascherina, mi sono reso conto poi) e ciao.
Stamattina, ripensando al fatto che ieri alla Residenz mi hanno fatto acquistare la ffp2, ho cercato un attimo e ho scoperto, mea culpa, che in effetti in Germania è obbligatoria non solo la mascherina ma dev’essere anche una ffp2. Che io ho solo da ieri. Osservo. Nove persone su dieci ce l’hanno, sono stato in difetto finora. E se il tizio di ieri ce l’avesse con me per la mia mascherina chirurgica? Impossibile saperlo, ormai. Spero di rivederlo al fight club martedì sera.
Prendo il treno per Norimberga, scendo a Bamberga, che ha quel meraviglioso municipio affrescato sul fiume, cambio e vado in Alta Franconia, a Coburgo. Esatto, se vi dilettate di dinastie, quella.
Oggi principi senza vescovi. Cerco di farla breve ma son secoli. I Wettin sono una casata che ha governato la Sassonia per otto secoli e il loro principe elettore è spesso stato il più potente di tutti e sette. Come nel caso di Lutero, quando fu bandito dalla dieta di Augusta, fu ospitato qui, nella fortezza di famiglia per poter completare tranquillo la traduzione della Bibbia in tedesco, alla base della riforma protestante. Nemmeno l’imperatore, ed era Carlo V!, poteva mettersi contro il principe di Sassonia. O non gli conveniva, diciamo. Comunque, a metà del Cinquecento, Coburgo divenne la capitale del ducato di Sassonia-Coburgo ed è così che un ramo della famiglia, sono un milione, diventò celebre in Europa con il nome del ducato, più precisamente i Sassonia-Coburgo-Gotha. Un grande castello, una fortezza imprendibile, anche qui, e necessità di intessere relazioni ed alleanze per consolidare il potere acquisito. E così fu, con una tale abilità che elementi della famiglia divennero reali del Belgio, Leopoldo I e lo sono tutt’ora, di Bulgaria fino al 1946, principi consorti del Portogallo e imperatrice consorte del Messico e così via. Ma il vero colpo politico fu il matrimonio tra il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha e la regina Vittoria d’Inghilterra, poi imperatrice. Erano cugini, la madre di lei era una Sassonia-Coburgo-Saalfeld, appunto. I loro nove figli furono tutti accasati in case reali europee, persino in Russia, portando i Wettin ovunque. Tant’è che, appunto, regnano ancora in Inghilterra, Belgio e Svezia, con Carlo XVI Gustavo di Svezia, figlio di Sibilla di Sassonia-Coburgo-Gotha. È nel 1919 che in Inghilterra hanno cambiato nome in Windsor, pettegolezzo, da Hannover e Sassonia-Coburgo, dopo i pessimi risultati dei tedeschi nella prima guerra mondiale. Fatto bene, visto poi.
Se a qualcuno oltre a me è capitato di vedere Victoria, la serie tv dedicata appunto alla regina Vittoria, con una brillante Jenna Coleman come regina ma con un ancora più brillante Alberto (Tom Hughes, è una serie molto ben fatta, se piace il genere, a livello di the crown), allora colui o colei sa che non solo fu un matrimonio molto felice ma anche proficuo per l’Inghilterra, perché Alberto fu un sincero innovatore entusiasta delle novità del tempo, dal treno alla libertà di stampa all’equità negli stipendi, amante dell’arte, fu promotore dell’esposizione universale di Londra del 1851, piena di innovazioni tecnologiche, tra cui il cesso. Il water closet da casa, dentro. Come il nostro. Fece il principe consorte, ruolo non facile, sopportò un certo fastidio antitedesco diffuso in Gran Bretagna e quando capì che sarebbe morto giovane, quarantenne, invitò Vittoria a non fermarsi, a continuare a innovare, a non portare il lutto e a non costruire mausolei in suo onore ma vie di comunicazione. Lei fece tutto il contrario, quarant’anni di lutto, mausolei e statue, ed ecco l’età vittoriana in tutto il suo costume lugubrino.
Uff, ce l’ho quasi fatta. Chiaro che Alberto sia la figura più rappresentata qui a Coburgo, anche il castello nell’Ottocento ha preso forme simili al gotico inglese e nella piazza davanti fu costruito un teatro che pare di essere a Londra. Io sto prendendo un cappuccione alla pasticceria principe Alberto e un po’ tutta la faccenda qui si regge sulla storia della famiglia. Collateralmente, siccome per alcuni decenni il pittore di corte del principe di Sassonia fu Lucas Cranach il vecchio, a me è capitata la buona sorte di vederne credo un’ottantina tutti in una volta sola. Bel colpo.
Coburgo è una città medio-piccola, graziosa, in una conca tra le colline boscose, è piuttosto accogliente e ha una certa consuetudine con il turismo, sebbene perlopiù interno. Infatti, e la cosa mi stupisce, l’inglese non è patrimonio diffuso, anzi, spesso faccio bella figura io il che è abbastanza raro. La visita al palazzo di Ehrenburg dei Sassonia-Coburgo, guidata in modo obbligatorio, si è svolta tutta in tedesco, e non ne sono previste in altre lingue, per cui dopo la quindicesima volta in cui ho sorriso alla guida con espressione di chi ben comprende, ho smesso e ho cominciato a guardare in giro per fatti miei, non temendo più di risultare maleducato. Un bel palazzone, imponente, con una magnifica sala barocca dei Giganti, ma diciamocelo: non bisogna guardare gli stucchi da troppo vicino o gli intarsi o i quadri, perché senza andare ai re un palazzo Colonna di Roma, dal punto di vista della perfezione delle decorazioni, è davvero molto molto distante da qui, inarrivabile. Non a caso quando qui volevano fare le cose fatte bene, tra Cinque e Settecento, chiamavano qualche italiano, la questione era, serenamente e senza rancore, impari. Poi diventò di moda lo stile Impero con Napoleone e, allora, buonanotte, chiamavano tizi da Parigi.
Sebbene non sia una buona idea per i miei arti inferiori, ascendo l’ennesima fortezza, questa ancora più inespugnabile di quella di ieri. E infatti così fu. Nel 1635, dopo cinque mesi di assedio durante la guerra dei trent’anni, il generale Guillaume de Lamboy, al comando degli assedianti, si presentò al portone con una lettera del duca di Sassonia, che ingiungeva di consegnargli la fortezza. Così fecero. Ovviamente la lettera era falsa come un de Chirico d’autore e come si dice? Ne uccide più la penna che la spada, e anche stavolta il detto disse il vero.
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